Costruttori della pace in Darfur

Intervista ad un membro della Comunità di Sant’Egidio

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ROMA, lunedì, 11 ottobre 2010 (ZENIT.org).- Mentre prosegue il conflitto, anno dopo anno, nella regione sudanese del Darfur, la crisi umanitaria nella zona non fa che peggiorare. Ma un’organizzazione che lì persegue la pace ha un particolare vantaggio: nessun interesse personale o programma segreto.

Si tratta della Comunità di Sant’Egidio. Un movimento cattolico laico, che ha il carisma del servizio ai poveri e che ha già al suo attivo una notevole storia di avanzamenti nella pace in molti tra i più complessi conflitti in Africa.

In questa intervista rilasciata al programma televisivo “Where God Weeps”, realizzato da Catholic Radio and Television Network (CRTN), in collaborazione con Aiuto alla Chiesa che soffre, Vittorio Scelzo, membro della Comunità, racconta la sua esperienza nel costruire la pace in Sudan e parla delle prospettive di pace per il Darfur.

Come sta operando la Comunità di Sant’Egidio nel Darfur?
 
Scelzio: Il Darfur è una regione della parte occidentale del Sudan. È una area grande, estesa quanto la Francia. Vi sono stati combattimenti sin dal marzo del 2003. Noi siamo entrati in contatto con i combattenti sin dall’inizio del 2004 e abbiamo cercato qualche soluzione politica alla crisi.

Qual è il vero problema?

Scelzio: Il problema è la scarsità della terra. Non vi è spazio a sufficienza in cui vivere. Il deserto incombe sulla terra fertile e questo è il vero problema.

Esistono molti luoghi comuni sul problema del Darfur: che è un conflitto tra cristiani e musulmani, mentre non lo è affatto; che è una guerra santa e anche questo è falso. Il problema è la terra e il rischio di emarginazione. Alcune tribù come i fur, i zaghawa e i masalit sono stati emarginati per lungo tempo. Ora stanno cercando di avere terre e autonomia politica, per questo stanno discutendo.

Quando ci si addentra nella politica vi sono molti problemi che emergono: poteri esterni che vogliono influenzare e trarre vantaggio dai negoziati, e via dicendo. A Sant’Egidio, invece, abbiamo la libertà di escludere queste influenze esterne e di condurre negoziati a porte chiuse.

Chi sta combattendo contro chi?

Scelzio: È una strana guerra questa, perché direi che è la prima guerra che riguarda l’acqua. Il deserto del Sahara sta sottraendo le terre del Darfur all’agricoltura e alla pastorizia. Le terre ancora arabili non sono sufficienti per la crescente popolazione del Darfur. I contadini e i pastori stanno lottando per queste terre agricole che stanno diminuendo a causa della desertificazione.

Quindi chi sta combattendo? I musulmani che hanno l’acqua contro i cristiani che non ce l’hanno, o chi esattamente?

Scelzio: Bisogna chiarire una cosa sul Darfur. La guerra nel Darfur non è una guerra religiosa e la religione non è un motivo di attrito. Questa guerra è tra i musulmani. Alcuni musulmani combattono dal lato del Governo, altri musulmani combattono a fianco dei ribelli. La guerra non ha nulla a che vedere con la religione. La religione ha forse avuto un ruolo nella guerra nel Sudan meridionale.

Spesso siamo portati a pensare che la religione sia la causa della guerra anche se è un pretesto. Ma la religione non è mai causa di una guerra. Le persone religiose dovrebbero fare molta attenzione a sostenere che la religione sia causa del conflitto.

Lei è stato in Sudan. Qual è stata la sua esperienza nel lavorare con queste persone?

Scelzio: La nostra esperienza ci ha insegnato che occorre ascoltare. Il metodo di Sant’Egidio nel lavorare con questo tipo di crisi è che bisogna ascoltare la gente. Occorre comprendere perché la gente combatte. Perché e quali sono le cause primarie del conflitto, e comprendere le richieste che la gente coinvolta avanza, e poi cercare di trovare una soluzione ragionevole.

Tutto ciò può sembrare ingenuo e troppo semplice, ma il problema spesso è che vi sono molti interessi politici e molti poteri regionali con le loro strategie segrete o meno segrete. Bisogna discutere delle cause primarie e ascoltare le preoccupazioni della gente locale per cercare di scoprire ciò che vogliono veramente.

Ci può fare un esempio, sulla base della sua esperienza?

Scelzio: Nel maggio del 2005 abbiamo avuto un incontro qui a Roma, nel periodo in cui il problema della pace nel Darfur era ai primi posti nell’agenda della comunità internazionale e delle potenze. Vi erano state sette tornate di lunghe conferenze di pace a Darfur e ad Abuja, in Nigeria.

Queste conferenze avevano affrontato alcuni problemi e quindi abbiamo invitato a Roma le persone coinvolte e i ribelli. I ribelli si erano rifiutati di tornare al tavolo dei negoziati, perché non volevano continuare a discutere con il Governo sudanese a causa di alcuni timori, di tensioni e di alcune richieste che non erano state affrontate in modo adeguato. Così li abbiamo invitati a venire a Roma, nel nostro quartier generale che è un vecchio monastero, per discutere con noi.

Era strano perché Sant’Egidio è una comunità cattolica e questi erano tutti musulmani, riuniti nel nostro quartier generale, ma non era un problema. Abbiamo iniziato i lavori. Spesso i negoziati o gli incontri internazionali sono come un circo: troppe persone attorno a un tavolo. Ricordo una volta che eravamo osservatori in un negoziato, c’erano 35 persone: erano veramente troppe.

A Sant’Egidio ci siamo invece incontrati solo con le persone coinvolte nei negoziati di pace. Niente stampa, niente influenze esterne e niente potenze regionali. È stato un negoziato a porte chiuse, che si è svolto solo per alcuni giorni. Non vi sono state fughe di notizie e ci si è concentrati solo sulla discussione. Era tempo per discutere.

Avete avuto modo di scherzare insieme a queste persone quando eravate a porte chiuse?

Scelzio: Abbiamo avuto modo di comprendere meglio questa gente, il loro modo di pensare, di essere, le loro richieste e i motivi della loro insoddisfazione rispetto alla controparte, alle mediazioni e alla comunità internazionale.

Abbiamo avuto – perché siamo liberi – l’occasione di spiegare loro qualcosa. Non abbiamo nulla da perdere e nessun programma segreto. Per questo abbiamo avuto la libertà di dire loro: poiché siete nostri amici, vi dobbiamo dire che non vi state comportando bene. Noi siamo un parte terza, senza alcun interesse personale o programma segreto e possiamo mediare tra le parti coinvolte e grazie a questa libertà possiamo dire loro delle “cose”.

Loro sono in grado di comprendere questi valori: l’amicizia e l’amore reciproco?

Scelzio: Queste sono cose che si possono comprendere gradualmente. Ora è un periodo difficile. Formalmente è stata siglata la pace in Darfur, ma la pace è ancora lontana. La gente continua a soffrire e i combattimenti sono ancora in corso. Noi stiamo cercando un modo per iniziare un nuovo round di negoziati. La pace c’è, dovrebbe esserci, ma nessuno si accorge di questa pace. Se si va nei campi, la gente non sa che c’è stata la pace. Quindi stiamo cercando un modo per riavviare i negoziati politici.

Come si avviano i negoziati politici quando si vuole parlare della pace?

Scelzio: La pace per noi è un dono di Dio. La pace è qualcosa che noi non siamo in grado di dare; la pace si riceve da Dio. Questa è la nostra definizione di pace, ma certamente bisogna trattare con i politici quando si affrontano conflitti umani e bisogna usare il linguaggio politico, le parole politiche e le parole che usano i combattenti.

Ci può spiegare che pace cercano i ribelli?

Scelzio: La pace che cercano i ribelli implica rivendicazioni sulla terra, l’unificazione dei tre Stati del Darfur, alcuni compensi, la rappresentatività e la partecipazione politica. Questo è ciò che l’opposizione ha sempre rivendicato attraverso la lotta armata e non.

Che tipo di pace propone il Governo?

Scelzio: Il Governo ovviamente propone la pace dello status quo, cosa che non è insolita. Quando ci sono due fazioni diverse sedute attorno a un tavolo, queste rivendicano la stessa cosa anche se la chiamano in modo diverso. Il nostro compito è di allontanare il problema dal conflitto armato: proponiamo alle parti di continuare a lottare ma non attraverso le armi, bensì nella discussione e nella negoziazione.

Come è noto abbiamo ospitato per 27 mesi i negoziati di pace per il Mozambico. È stato molto interessante vedere un ribelle, un uomo abituato a combattere nella giungla e nella foresta diventare un politico.

Come è avvenuta questa trasformazione? Cosa è successo quando gli avete chiesto di sedersi al tavolo anziché combattere nella giungla?

Scelzio: In realtà, sedersi attorno a un tavolo è spesso l’obiettivo finale di tutti i combattenti che lottano per un motivo. Bisogna capirlo perché spesso siamo portati a pensare che si lotta per motivi stupidi o perché si è cattivi. Certo farsi la guerra non è bello e noi sappiamo che non è mai giustificabile, quale che sia il motivo. Tuttavia, bisogna cercare di capire perché questa gente si è imbarcata in un conflitto armato e questo è un esercizio utile anche agli stessi combattenti perché comprendano meglio e chiariscano a se stessi perché stanno lottando, perché portino le loro ragioni e preoccupazioni attorno a un tavolo.

Questo è il caso del Darfur, ma lo stesso vale per il conflitto armato nel nord dell’Ugana, con l’Esercito di resistenza del Signore, il Lord’s Resistance Army o LRA.

Uno dei momenti più difficili per le parti in conflitto è stato quando hanno deciso di negoziare. Il problema nasce quando si arriva al tavolo dei negoziati. Come lei, giornalista, ha lo stesso problema quando si trova davanti un foglio bianco: cosa ci scrive? Così per i ribelli: cosa ci scrivo? Quali sono le nostre rivendicazioni? Non è facile.

Se sei un ribelle che ha combattuto da lungo tempo e ha aspettato questo momento da tanto tempo, ora che l’occasione si è presentata diventa difficile mettere nero su bianco le richieste, ma è un momento molto importante, un momento in cui una persona si trasforma da combattente a politico. Noi ovviamente crediamo che la pace sia un dono di Dio, ma quando trattiamo con le persone dobbiamo usare strumenti politici, che sono molto importanti e talvolta i nostri negoziati diventano un luogo dove queste persone possono utilizzare gli strumenti della politica.

Vorrei tanto sapere perché siete così attivi nella ricerca della pace in Africa?

Scelzio: Questa domanda mi dà l’occasione di parlare un po’ di più della Comunità di Sant’Egidio perché penso che sia molto difficile comprendere perché una comunità come quella nostra si sia impegnata in iniziative così strane: andare nella foresta per incontrare i ribelli, eccetera.

Noi siamo nati a Roma nel 1968. Conosce bene gli eventi del ’68: l’idea della rivoluzione, di voler cambiare il mondo. Anche noi volevamo cambiare il mondo, ma abbiamo pensato che il modo migliore era di iniziare da noi stessi, dai nostri cuori, e di iniziare con il Vangelo. Quindi il Vangelo e la preghiera sono diventati due pilastri su cui si è fondata la nostra Comunità. Il terzo pilastro è il servizio ai poveri.

A Roma abbiamo iniziato dando scuole gratuite ai bambini delle periferie. Ora, nei 70 Paesi in cui è presente la Comunità con i suoi 50.000 membri, il servizio ai poveri significa molte cose. L’impegno principale è quello di aiutare i bambini in ogni parte del mondo in cui siamo presenti. Quindi, in Africa, significa andare per le strade e incontrare i bambini, visitare le prigioni e così via.

Qual è la sua convinzione personale? Perché si impegna in favore della pace in Africa, per esempio nel Darfur o in altri Paesi?

Scelzio: Io sono entrato nella Comunità di Sant’Egidio nel 1989, quando avevo 14 anni. Certamente non avevo in mente di lavorare per la pace. Semplicemente avevo alcuni compagni di scuola che mi avevano proposto di aiutare in ciò che chiamiamo “scuola della pace”, che era nei dintorni di Roma. Così sono andato e devo dire che mi sono innamorato di quei poveri bambini. Avevano difficoltà a scuola e noi abbiamo iniziato a fare ciò che la “scuola della pace” deve fare. Era una scuola serale ed era gratuita e noi aiutavamo quei bambini provenienti dall’Etiopia e dall’Eritrea, i primi immigrati qui in Italia. Mi sono innamorato di quelle persone e ho capito che potevo aiutare gli altri.

È stata una gioia perché era divertente e perché dava senso alla mia vita. Avevo 14 anni; avevo iniziato a vedere cosa fare da grande. Ebbene, ho trovato una fonte e un senso per la mia vita, che è lo stesso senso che mantengo ancora adesso, ovvero di essere radicati nella preghiera e nel Vangelo, i pilastri di Sant’Egidio e nel servizio ai poveri.

L’Africa è uno di quei poveri che bussa alla nostra porta e “la guerra è la madre di tutte le povertà”; questo per noi è chiaro. Noi cerchiamo di trovare la pace, di ottenere la pace, perché siamo convinti che “la guerra è la madre di tutte le povertà” e se si va in Darfur lo si vede chiaramente, basta vedere come la gente vive nei campi. L’ho visto anche il Liberia; l’ho visto nel nord dell’Uganda.

Qual è esattamente la povertà in questi campi? Ci può spiegare cosa sono questi campi?

Scelzio: La più grande tragedia del Darfur è che alla gente non è consentito di vivere nei propri villaggi, perché sono costretti a fuggire. La maggior parte di loro è nel Ciad, alcuni sono ancora in Darfur, ma vivono nei campi. Più di 2 milioni di queste persone vivono nei campi. La vita nei campi: non hai niente. Aspetti qualcosa che venga da fuori: le ONG internazionali, i programmi alimentari. Dipendi da queste cose.

Uno dei problemi che stiamo cercando di affrontare riguarda le aree controllate dai ribelli o dal governo. In quelle aree non vi è accesso per l’aiuto umanitario. Quindi quelle persone non vengono accudite da nessuno. Questo significa “la guerra è la madre di tutte le povertà”. Io ho visitato i campi nel nord dell’Uganda: in un campo vicino Gulu, 1,8 milioni di persone ci vive ormai da 20 anni, a causa della insensata guerra con l’Esercito di resistenza del Signore.

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Questa intervista è stata condotta da Marie Pauline Meyer per “Where God Weeps”, un programma televisivo e radiofonico settimanale, prodotto da Catholic Radio and Television Network in collaborazione con l’organizzazione internazionale Aiuto alla Chiesa che soffre.

Per maggiori informazioni: www.WhereGodWeeps.org

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ZENIT Staff

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