ROMA, domenica, 27 giugno 2010 (ZENIT.org).- Nel dibattito legislativo sul “fine vita” viene frequentemente invocato il diritto a rifiutare le cure come negazione del principio di indisponibilità della vita umana propria. Non è necessario ricordare il fondamento giuridico e deontologico di tale diritto. Si tratta di capire, però, se tale diritto si fonda su un’autodeterminazione assoluta che non tiene conto del contesto e dei modi in cui la volontà si esprime o se, invece, debba ritenersi qualificante ai fini di un rifiuto esente da “vizi” di volontà la presenza di alcune caratteristiche e una relazione di alleanza terapeutica e assistenziale che sia umanamente e professionalmente significativa.
Semplificando alquanto i termini di un dibattito ricco e vivace si potrebbe, perciò, sostenere che il fulcro della questione non è né affermare un diritto assoluto di autodeterminazione a rifiutare le cure, al punto da ricavarne il c.d. “diritto di morire” che può imporsi fino ad esigere un “dovere di cagionare la morte”; né – viceversa – negare completamente l’esistenza di un’autonomia del soggetto tanto da imporre un “dovere di vivere” contro ogni legittimo desiderio di “essere lasciati in pace”, di “lasciarsi morire”. In entrambi i casi la rigidità delle posizioni non tiene conto della dimensione relazionale che sa essere attenta ai desiderata del paziente, ma che sa essere anche capace di riconoscere il valore del soggetto più debole della relazione e che perciò sa accettare la morte, ma rifiuta di cagionarla.
“Non ci può essere una relazionalità intersoggettiva sancita dal diritto che possa essere giocata per la morte, perché ciò contrasterebbe con l’essenza stessa del diritto: di un diritto che non abbia pretese di assolutezza, ritenendo di poter intervenire sulla vita e sulla morte, ma che si concepisca come strumento tenuto ad offrire (…) il massimo di solidarietà possibile nella comunità civile in qualsiasi situazione della vita”. Si tratta, dunque, da parte del Legislatore di accogliere le istanze dell’autonomia individuale interpretando l’autodeterminazione in modo conforme al principio giuridico del “non cagionare la morte”.
Ciò implica che l’autonomia del paziente debba armonizzarsi con la dimensione relazionale fondata sul riconoscimento dell’uguale dignità del vivere e che perciò si tenga conto sia delle differenze qualitative esistenti tra volontà anticipata e volontà attuale; sia delle diverse ipotesi di rifiuto (rifiuto di attivare una relazione con il medico, rifiuto di iniziare o di ricominciare una terapia, rifiuto di proseguire una terapia in corso) che, a seconda dell’intensità di partecipazione richiesta al medico, fanno appello in modo più o meno impegnativo alla sua scienza e alla sua coscienza.
Questa posizione distingue chiaramente l’“autodeterminazione” sui trattamenti dall’“autodeterminazione” sulla vita. La prima si concilia con la moderna teoria dei diritti dell’uomo – inaugurata con la Dichiarazione Universale del 10 dicembre 1948 – secondo cui la vita umana è indisponibile perché fondata sul riconoscimento di una dignità che non conosce variazioni in quanto è il carattere indelebile di ogni esistenza umana.
Il perno del riconoscimento non è l’“io”, ma il “tu”: lo sguardo che riconosce la dignità umana del malato e del disabile impedisce che il rifiuto delle cure da questi manifestato si trasformi in una licenza di uccidere e valorizza al massimo le cure palliative e assistenziali. La seconda, invece, presuppone che il fondamento dei diritti umani sia la “libertà di scelta” che può realizzarsi anche nel decidere se smettere di esistere. Come si è osservato, però, di tale “diritto di scegliere la morte” per se stessi si chiedono spazi di legalità solo quando la vita umana versa in “certe condizioni”. Ciò significa che in “certe condizioni” la vita umana è ritenuta dalla società (di cui la legge è l’espressione più significativa) non “degna” di ospitalità.
Non è, poi, difficile immaginare quanto questa valutazione sociale (eterovalutazione) possa influire sull’autodeterminazione in ordine al proprio stesso esistere. La distinzione tra autodeterminazione sui trattamenti e autodeterminazione sulla vita può essere di aiuto nell’interpretazione del secondo comma dell’art. 32 Cost. Dal secondo comma dell’art. 32 della Costituzione si vorrebbe dedurre l’esistenza di un “diritto alla non cura”, esteso fino ad includere il “diritto di morire”, da porsi sullo stesso piano del diritto alla cura. L’autodeterminazione del soggetto sarebbe la fonte dell’uno e dell’altro.
Bisogna, innanzitutto, ricordare che non risulta da nessuna parte dei lavori preparatori che il Costituente abbia inteso in qualche modo mettere in discussione il principio di indisponibilità della vita anche da parte del titolare della stessa. È noto, poi, che la formulazione ebbe origine dalla drammatica esperienza delle pratiche di sterilizzazione e di sperimentazione attuate nei campi di sterminio.
A parte queste considerazioni, l’art. 32 va letto e interpretato per intero. Esso recita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Il non obbligo è inserito tra l’attenzione alla dimensione sociale della salute e il rispetto della persona umana.
L’attenzione sociale al tema della salute non è tanto espressione di un atteggiamento pragmatico-utilitarista, in base al quale l’autonomia dei singoli, viene compressa in funzione dell’interesse della collettività, quanto di un atteggiamento personalista in base al quale la collettività si fa carico di tutelare la salute dei singoli a prescindere dalla pericolosità sociale di determinate malattie. Le persone in condizioni di indigenza, infatti devono essere messe dall’insieme dei consociati in condizione di curarsi. È dunque il favor curare la sostanza dell’art. 32. È logico dedurre che la cura è un valore che l’individuo deve ricercare e che – di conseguenza – il rifiuto delle cure non è un bene né per la persona malata né per la società nel suo complesso. Va considerato, inoltre, che l’art. 32 è collocato sotto il titolo II della Costituzione che riguarda i rapporti etico-sociali, quelli, cioè, che devono essere ispirati al principio di solidarietà. L’aspetto primario dell’art. 32 non è quello di difendere l’individuo da ipotetiche oppressioni della tecnologia medica, ma, al contrario, quello di assicurare a tutti la salute.
Il richiamo al rispetto della persona umana implica il divieto di ricorrere a misure sanitarie che si impongono con la violenza fisica o che violano, per esempio, la riservatezza della persona in armonia con il divieto di trattamenti disumani e degradanti di cui all’art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti e delle libertà fondamentali. In sostanza l’art 32 Cost. si fonda sul favor curae e i diritti che riconosce sono il diritto alla salute e il diritto a non subire trattamenti sanitari con sistemi coattivi, offensivi, degradanti. Che significa ha in questo contesto il “non obbligo di cura”? Significa che non c’è un dovere strettamente giuridico – coercibile e munito di sanzione – di curarsi, ma non significa né assenza di un dovere morale-civico di curarsi laddove non vi è una legge “obbligante”, né libera disponibilità della vita o della morte, della salute o della malattia. In sostanza, se manca la disposizione di legge, le cure possono essere legittimamente rifiutate, ma resta il dovere morale/civico di curarsi e di persuadere alla cura.
Una riprova si ricava da ciò che comunemente
avviene senza critica alcuna: se taluno rifiuta la cura è lecito e forse doveroso che a lui siano rivolti consigli ripetuti affinché egli accetti la terapia. Viceversa è meritevole di rimprovero il comportamento opposto: il consiglio insistente di non curarsi rivolto a colui che, invece, è deciso a ricorrere alle opportune terapie. Il favor curae e il non obbligo giuridico di curarsi, rafforzano e chiariscono il significato della volontà del paziente nella relazione di cura. La partecipazione responsabile e attiva del paziente, infatti, attraverso il dialogo con il medico, assicura maggior efficacia alla cura stessa perché la scelta della soluzione terapeutica è presumibilmente la migliore se è raggiunta attraverso un dialogo con il medico (nella c.d. “alleanza terapeutica”) che riguarda il quando, il come, il luogo, il tipo delle varie possibilità di terapia, le conseguenze, gli effetti collaterali, le alternative. Il consenso del paziente è finalizzato alla reciproca comprensione e dunque al miglior esito della terapia; va letto nella prospettiva di realizzare più efficacemente gli interventi terapeutici più opportuni. In ogni caso l’obiettivo è la salute, non la morte.
Allora: la morte può essere davvero una manifestazione del diritto alla salute? Oppure è esattamente il contrario? Sembra, allora, abbastanza paradossale ricavare la tutela di un asserito diritto alla morte da una norma rivolta ad assicurare il massimo impegno pubblico per la vita. L’art. 32 non tocca, dunque, il principio di indisponibilità della vita umana. È perciò scorretto sostenere che il “diritto alla cura” conterrebbe anche il “diritto alla non cura” fino al punto di decidere la morte. Così come il richiamo al principio dell’inviolabilità della libertà di cui all’art. 13 Cost. Per legittimare la scelta di morire attraverso il rifiuto delle cure è paradossale: la scelta di morire contraddice radicalmente la libertà. Se la libertà è inviolabile, come può essere annientabile? Come la vita anche la libertà è indisponibile. Nella moderna civiltà nessuno può vendere o regalare la propria libertà rendendosi schiavo di un altro. D’altronde la vita è il necessario supporto della libertà. Perdere la prima significa automaticamente perdere anche la seconda. Così non si può affermare che la scelta della morte sia scelta di libertà. Essa è, piuttosto, distruzione della libertà. Chi salva dal tentativo di suicidio una persona, non le salva solo la vita, ma gli restituisce anche la libertà.
Da quanto esposto deriva che nella dimensione biogiuridica la questione dell’indisponibilità o meno della vita umana si colloca nell’ambito del principio “non cagionare la morte” e non è un’indagine che muove tanto dal “criterio dell’appartenenza” (come se si trattasse di capire a chi appartiene la vita per decidere cosa farne), quanto dal “criterio dell’uguale dignità” (non potendosi interpretare
in chiave discriminatoria lo stato di salute, di malattia inguaribile o di grave disabilità invalidante) il cui riconoscimento è affidato allo sguardo, propriamente umano, capace di riconoscere il valore dell’altro. “Si può dimenticare il degrado del proprio corpo se lo sguardo degli altri è pieno di tenerezza” è scritto nelle pagine di un diario conservato presso l’Hospice di Forlimpopoli. In questa prospettiva si coglie tutta l’importanza della legge che della società organizzata è lo sguardo.
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*Marina Casini e ricercatore all’Istituto di Bioetica dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma.