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Pregare si deve: lo dicono tutte le grandi religioni. Ma pregare si può? No, risponde in prima battuta Paolo di Tarso, dal momento che neanche sappiamo cosa sia conveniente domandare. No, sembra pure la prima risposta di Giovanni evangelista, perché, se Dio nessuno lo ha mai visto, come si fa a parlare con uno che non si è visto e non si vede mai? A meno che… a meno che il Figlio unigenito, che è nel grembo del Padre, lui ce lo abbia rivelato. A meno che lui, il modello e il maestro della grammatica e della sintassi della preghiera, ci abbia insegnato a comunicare con Dio. Ed è questa la bella notizia che ci acquieta nell’intimo e finalmente ci appaga: pregare si può, perché Gesù in persona si fa carico non solo di educarci alla preghiera, ma si premura anche di abilitarci a pregare, facendoci dono del suo Santo Spirito.
1. La lezione magistrale di Gesù sulla preghiera – contenuta nel discorso della montagna – risulta innanzitutto di una energica pars destruens. Pregare non consiste nell’informare Dio dei nostri bisogni. Per due volte Gesù martella il messaggio decisivo: “Il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno” (Mt 6,8.32). Pregare non consiste neanche nel goffo tentativo di piegare Dio alle nostre voglie malsane e di convincerlo ad essere buono, poiché Dio non è un “padre-padrone”, ma è padre-padre, ostinatamente e irriducibilmente padre. La sconfinata, tenerissima bontà del Padre non è l’illusoria proiezione dei bisogni e desideri dei suoi figli, ma è la rocciosa, obiettiva, ininventabile premessa della loro preghiera.
In effetti Gesù era molto preoccupato della preghiera dei discepoli. Voleva che pregassero, che pregassero molto e con insistenza, e che la loro preghiera fosse autentica: limpida, audace e umile, docile e tenace. L’evangelista Luca ci informa che un giorno un discepolo aveva visto Gesù appartato a pregare, e ne dovette rimanere incantato, se non ebbe il coraggio di disturbarlo, ma alla fine non ce la fece più a trattenersi in gola quel desiderio insopprimibile: “Signore, insegnaci a pregare”. E il Maestro acconsente: “Quando pregate, dite: “Padre!” (Lc 11,1). Cominciate con il dargli del tu e ad attribuirgli questo nome.
Tutta l’originalità della preghiera di Gesù è contenuta in questo vocativo. I fondamenti veterotestamentari del Padrenostro sono svariati e molteplici. Anche per i singoli versetti si può indicare caso per caso tutta una catena di corrispondenze nella sterminata letteratura devozionale giudaica. In rapporto particolarmente stretto col Padrenostro sta la preghiera del Qaddish e delle Diciotto benedizioni. Ma ciò che dà l’imprinting unico, originale, esclusivo alla preghiera di Gesù è la sua persona. Gesù è il Figlio unico del Padre, è il suo “amato”, e sa di esserlo. La sua preghiera non è che il fiume carsico che affiora dalle falde abissali della sua coscienza. La preghiera di Gesù coincide con la sua filialità divina, e poiché, come afferma Paolo, questa filialità raggiunge il suo apice nella Pasqua – Gesù è stato “costituito figlio di Dio con potenza in virtù della risurrezione dei morti” (Rm 1,4) – nella Pasqua il Cristo, risorto per noi, è divenuto per noi preghiera, perché noi diventassimo preghiera insieme con lui. Allo stesso modo in cui, durante la veglia pasquale, molte piccole luci vengono ad accendersi all’unica “luce di Cristo”, i fedeli accendono il proprio cuore a Cristo che, nella Pasqua, è divenuto in tutto il suo essere “preghiera”.
2. Tutto il Padrenostro è contenuto nella invocazione iniziale – Padre nostro che sei nei cieli – come il corpo è incluso nella cellula di base. “E’ un modo diretto, caldo, affettuoso di rivolgersi a Dio senza perifrasi e come per impulso naturale” (Schnackenburg). Per quanto la parallela redazione di Luca possa far sembrare la sua versione abbreviata del Padrenostro come un’antica statua mutila, quella semplicissima parola iniziale – “Padre” – nella sua lapidaria, solenne nudità contiene tutto: tutta la preghiera, tutte le preghiere, la preghiera di tutti.
Sostiamo ancora un momento su questo vocativo “Padre”: è veramente insolito e sorprendente. Padre non è uno dei tanti titoli e attributi di Dio, come l’Immenso, l’Eterno, l’Onnipotente, ma è “il suo nome proprio per eccellenza” (s. Cirllo Al.). Qui noi ci rivolgiamo a qualcuno “per cui l’essere padre è la più intima espressione dell’essere” (Schuermann). Ma per dire Padre, Gesù si è servito di una paroletta nella sua lingua madre, l’aramaico, Abbà che dovrebbe essere reso con l’italiano Papà, Babbo caro, e articola il fiotto di intimità filiale, di riconoscenza stupita e di meravigliata contemplazione con cui il Figlio esprime la sua relazione con il Padre celeste. La prima parola del Padrenostro è dunque già un annuncio che ci pone al cuore dell’evento cristiano. Tutta la vita di Gesù è stata centrata sul messaggio della venuta del regno di Dio, ma, rivolgendosi a lui, Gesù lo ha sempre chiamato Padre, non re. Nelle parabole, è vero, ha fatto ricorso anche alla figura del re e del padrone, ma poi – uscito dalla metafora – il nome di Dio tornava ad essere Padre. Ma il Padre di Gesù non è come Juppiter, Zeus Pater: il Dio cristiano è Padre per donare, non per dominare. E questa paternità regge e colora tutta la costellazione dei titoli divini. Il Padre è onnipotente, certo, ma dell’onnipotenza dell’amore. E’ giusto, ma la sua giustizia ha viscere di misericordia. E’ infinitamente felice, ma la sua gioia si lascia turbare dal pianto delle sue creature.
Ma ciò che c’è di ancora più stupefacente è che con la Pasqua del Figlio, Dio Padre ha “mandato nei nostri cuori lo Spirito del Figlio, il quale grida: Abbà, Padre! (Gal 4,6). E’ lo Spirito Santo che ci permette di osare nel chiamare Dio con la stessa inaudita confidenza che si poteva permettere Gesù. Commenta s. Cipriano:
“(Gesù) ha voluto che noi pregassimo davanti a Dio in modo da poterlo chiamare Padre, e che come Cristo è suo Figlio, così noi siamo chiamati suoi figli. Nessuno di noi infatti avrebbe osato dire questa parola nella preghiera, se non ce lo avesse concesso lui” (CCL 3A,95s).
3. L’atteggiamento filiale, che dobbiamo assumere verso il Padre, è profonda adorazione e confidenza gioiosa nello stesso tempo. Questa va testimoniata con la fraternità verso gli altri, la responsabilità e la creatività nel bene, il coraggio nelle prove. Di questa testimonianza ha bisogno soprattutto quella parte della cultura di oggi, che, rincorrendo l’autonomia della ragione e dell’agire, ha emarginato Dio; ma anziché ritrovarsi adulta, ha finito per sentirsi orfana. Dopo la generazione del ’68, in cui l’emancipazione dei giovani è stata vissuta all’insegna della lotta contro i padri, la generazione di oggi sembra quella dei giovani senza più padri. Il mito di Prometeo dell’autorealizzazione contro la divinità sembra si sia rovesciato nel mito di Narciso, condannato a ripiegarsi nell’adorazione morbosa della propria identità fino a vedersela affogare nello specchio fatale della più triste, squallida autonegazione.
La bella notizia che Dio è Abbà e che noi siamo suoi figli è liberante e rasserenante. All’origine della nostra esistenza non c’è stato il caso o la necessità, ma una decisione libera, un atto d’amore di totale, limpidissima gratuità. “In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui” (1Gv 4,9). Siamo figli: siamo stati liberamente scelti, teneramente e tenacemente amati, siamo stati misericordiosamente salvati. Nessuno si è affacciato al mondo per decisione propria. Nessuno può dire: Io sono il padre del mio io. Nessuno è condannato al miraggio disperante di potersi salvare da sé.
“Abbiam
o ricevuto uno spirito da figli, per mezzo del quale gridiamo: Abbà! Padre!” (cfr Rm 8,15). Non siamo né schiavi né orfani: siamo figli immensamente, e per sempre, amati. Siamo dentro un oceano sconfinato di bene assoluto, eterno, infinito. “Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente!” (1Gv 3,1). C’è una fortuna più grande?
+ Francesco Lambiasi