ROMA, giovedì, 27 maggio 2010 (ZENIT.org).- L’esperienza della debolezza e della sofferenza è “un cammino spirituale non solo umano, nel quale Cristo, viene incontro all’uomo malato”. E' quanto ha detto mercoledì mons. Zygmunt Zimowski, Presidente del Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, intervenendo in occasione delle Giornate genovesi di cultura cristiana, in corso a Roma dal 26 al 29 maggio nel complesso monumentale di Santo Spirito in Sassia e al policlinico Agostino Gemelli.

Nella prolusione ai lavori della Giornate intitolate: “Io sono il Signore, colui che ti guarisce (Esodo 15,26).  Malattia versus religione tra antico e moderno”, mons. Zimowski ha spiegato che “la malattia è più di un fatto clinico, medicalmente circoscrivibile” per cui “chi soffre è facilmente soggetto a sentimenti di timore, di dipendenza e di scoraggiamento”; e a “causa della malattia e della sofferenza sono messe a dura prova non solo la sua fiducia nella vita, ma anche la sua stessa fede in Dio e nel suo amore di Padre”.

Dopo aver evidenziato il legame tra malattia e peccato personale presente nella Bibbia, il presule ha indicato nel superamento di questa concezione un punto qualificante dell’insegnamento e della prassi messianica di Gesù.

“Quando Gesù guarisce un lebbroso o proclama la parabola del buon Samaritano – ha spiegato –, dimostra compassione per coloro che soffrono, ma c’è di più: il suo gesto annuncia la vita nuova del Regno, la guarigione totale e permanente della persona umana in tutte le sue dimensioni e relazioni”.

“I guariti possono ammalarsi di nuovo – ha proseguito –; Lazzaro, il rianimato, morirà ancora. Rimane però la certezza definitiva della vittoria sulla morte e sulla malattia. Non è che la malattia e la morte debbano scomparire dal mondo, ma la forza divina che le vincerà nell’eschaton si è manifestata già nel tempo presente”.

“La guarigione dei malati – ha affermato l'Arcivescovo Zimowski – costituisce un elemento del mandato con il quale, dopo la risurrezione, Cristo ordina ai suoi apostoli di andare per il mondo a predicare il Vangelo”; e rappresenta quindi “il mandato di Gesù alla sua Chiesa, con prospettive che vanno tuttavia oltre gli aspetti fisici della malattia: la guarigione è conversione”.

Il presule ha quindi delineato il cammino spirituale del malato cristiano: “La malattia non è oggetto di libera scelta” e l’atteggiamento di fronte ad essa deve essere caratterizzato dalla lotta contro le sue cause e conseguenze” e dall' “adeguamento della vita spirituale a quanto appare ineluttabile”.

“Primo dovere del malato è allora la ricerca della guarigione, con l’accettazione della sua situazione di vita – ha chiarito –. In ciò si santifica, compiendo la volontà di Dio”.

Allo stesso tempo la malattia “è la necessità o l’urgenza di compiere un viaggio interiore” in cui “si è costretti ad incontrare le proprie paure, a prenderne coscienza e cercare di ricomporre la propria unità interiore: solo allora la guarigione è possibile”.

“La sofferenza – ha spiegato – non smentisce l’amore di Dio, ma ne rivela le misteriose profondità: si tratta di una situazione provvidenziale da decifrare, che permetterà al malato di purificare la propria conoscenza di Dio, come Giobbe ha potuto dire: 'Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno visto'” (Gb 42,5).

“In una visione cristiana, quindi, la sofferenza ha in sé un potere di santificazione: per essere più precisi, non la sofferenza che, in quanto tale resta un male, ma la sofferenza unita all’offerta”.

Accanto alle diverse prospettive che si offrono al malato, “il cristianesimo parla della solidarietà della croce, nella quale Dio si fa conoscere come colui che ha sofferto per amore, partecipando come vero uomo al destino umano e condividendolo”.

“Questo fa sì che l’imparare a soffrire in un ottica cristiana significhi l’elevazione del dolore nella condivisione di Dio, più che la sua depressione sotto una croce erroneamente intesa soltanto come giogo dell’esistenza cristiana”, ha osservato.

E quando la disperazione prende il sopravvento e le parole sembrano “vuote” è “riconoscendo le 'mani di Dio' nella presenza e il gesto di un operatore professionale o pastorale” che “Dio può essere di nuovo riconosciuto e amato”.

“Il tempo della malattia può divenire così il tempo di un rapporto più profondo con Dio, un abbandono, un liberarsi, un accettare ciò che è definitivo”, ha continuato il presule.

Allo stesso tempo, però, “il superamento della malattia rappresenta solo una parte dell’azione risanatrice cristiana. Se ci si fermasse qui, con una simile interpretazione della guarigione, che riconosce solo la risoluzione della malattia, si potrebbe quasi affermare che Dio accetta solo le persone sane”.

Al contrario, ha precisato, “il risanato in senso cristiano, non è chi raggiunge la guarigione del corpo, anche se questa, lo ripetiamo, rientra tra gli obiettivi della terapia cristiana, ma chi è in grado di riconquistarsi 'la forza di essere uomo o donna', cioè la forza di affrontare e gestire la situazione di vita minacciata dalla sofferenza, dalla disabilità, dalla morte”.

“Così – ha concluso –, dopo una sofferta maturazione spirituale, il malato potrà sentire il conforto dell’azione di Dio, il conforto promesso da Gesù: 'Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi e io vi ristorerò' (Mt 11,28)”.