Sobrietà e solidarietà, quale relazione?


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di don Daniele Bortolussi*

ROMA, giovedì, 27 maggio 2010 (ZENIT.org).- Siamo nell’ambito delle “virtù” che quindi rimanda al bene e quindi nasce dal “cuore” della persona e si esprime secondo un preciso stile del “darsi” più che del dare qualche cosa. Quale è il suo fondamento?

1. La solidarietà è un fatto di giustizia, un’opera e un’applicazione della giustizia.

2. Alla radice della solidarietà ci sono sempre gli altri e il nostro essere persone

3. Noi siamo debitori di una miriade di azioni buone nei nostri confronti (è un debito irredimibile!)

4. E’ un debito non solo personale, ma anche comunitario

5. Questo “debito” bussa alla nostra coscienza?

6. Se la carità ha il suo indiscutibile primato, la solidarietà dice la dimensione sociale della carità, ossia è la carità in quanto dà vita ad istituzioni, stili di vita rinnovati, leggi al servizio del bene comune. E’ la carità che si esprime e si sedimenta nel vivere civile.

7. La solidarietà non supera la carità, ma ne afferma l’espressione sociale e supera invece la giustizia (dare a ciascuno il suo): diventa condivisione, o meglio, fraternità.

8. Dal punto di vista della rivelazione:

– Dio si dimostra solidale con il destino del suo popolo

– L’incarnazione di Gesù è il modello più alto di solidarietà che il Padre dimostra nei confronti dei suoi figli

– La morte e risurrezione ha reso ogni uomo solidale con Dio

– Modelli biblici:

. 1 Cor 4,7

. Rm 12,5

. Gv 17,21-22

E’ possibile la sobrietà senza la solidarietà? La sobrietà è il presupposto della solidarietà.

1. Con la sobrietà è possibile vivere l’azione del “ritornare”, come se si fosse smarrita la strada nel consegnare la proria vita alle cose e non alle persone.

2. Il primo cambiamento da operare è educativo-culturale: in questione il modello di sviluppo dominante basato sul mercato

3. Cosa è sobrietà?

– Una virtù: la sobrietà è fortemente legata alla temperanza

– E’ da intendere non come singola virtù, ma come uno stile di vita complessivo: sobrietà nelle parole, nella gestione dei beni, nell’esibizione di sé, nell’esercizio del potere.

– Non è solo una questione economica, ma tocca in profondità l’essere personale dell’uomo

– E’ legata al concetto di libertà

4. La sobrietà non deve essere considerata un fine in se stesso, ma è per un bene più grande

5. La sobrietà crea degli spazi per le relazioni. Apre agli altri nella solidarietà: la sobrietà è il presupposto della solidarietà.

6. E’ possibile una sobrietà che non nasca dalla povertà evangelica? Non è possibile. Il presupposto dei presupposti è “la povertà evangelica”.

7. Il Natale è il modello della povertà evangelica. Vd. 2 Corinzi 8,9: “Gesù Cristo da ricco che era si è fatto povero per voi”.

8. La povertà è ciò che ci fa compiere il passo primo e più importante del cammino: lasciare il posto a Dio-Provvidenza

COME RECUPERARE UN SANO STILE DI VITA?

Facciamo ruotare i “nuovi stili di vita” attorno a quattro poli.

1. Recupero del mondo interiore

E’ avvenuta l’espropriazione dell’identità profonda. Bisogna ritornare nella propria “cella” per uscire da un’alienazione che ci oggetti vizza.

Bisogna ridare il primato all’essere (Figliol prodigo: “rientrò in sé stesso”)

2. Recupero dei beni relazionali

Un bene è tale se mi fa incontrare l’altro. Essere chiamati per nome da Dio vuol dire che è l’altro che mi dice chi sono.

3. Ricostruzione della solidarietà sociale

Uscire dalla delega alle istituzioni ma recuperare la relazione la partecipazione: coscienza sociale rinnovata.

4. Recupero dell’equilibrio con i beni

Riscoprire la sobrietà che aiuta a recuperare la qualità della vita. La povertà evangelica deve essere intesa come sobrietà che ci fa vivere con discrezione il rapporto con i beni

STILE DI VITA… UNA MANIERA DI “ABITARE” IL MONDO

Lo “stile” è «una maniera di abitare il mondo». Forse è proprio immaginando percorsi di vita buona, cioè come “un modo di abitare il mondo”, che è possibile aprire una strada per comprendere anche che cosa rappresenta la ricerca autentica del bene comune.

Si tratta di abitarlo entrando in esso come nella casa che ci genera, si tratta di abitarlo trasformando il mondo a nostra volta generando vita, speranza, fiducia, diventando “speranza” per il mondo!

“Abitare” il mondo ha un senso passivo e attivo insieme: io “abito nella casa” come il mondo in cui cresco e “abito la casa” come un mondo che faccio crescere. Per questo ho pensato di farvi ascoltare la musica di questo modo di abitare il mondo percorrendo due spazi: lo stile che abita la vita quotidiana e lo stile che abita i rapporti sociali. Tra la vita quotidiana e i rapporti sociali come vedremo non c’è soluzione di continuità Se il primo spazio è ricco di vita influirà sul secondo, e il secondo fornirà l’orizzonte per non lasciar chiudere il primo nel privato.

1. LO STILE CHE ABITA LA VITA QUOTIDIANA

La vita quotidiana è oggi il problema più grande: essa è diventata un deserto, una landa di ululati solitari, un albergo, una mensa aziendale, una stazione di servizio, un luogo di conflitti e di aggressività e, talvolta, di violenze inspiegabili. Osserviamolo nel mondo giovanile, dove questo fenomeno è per così dire ingigantito. La vita di ogni giorno è oggi in affanno. Tuffi gli indicatori sociali dicono che la vita “si vive” al margine, ai bordi, fuori dalla normalità (il divertimento dev’essere notturno, il viaggio esotico, le amicizie diverse, lo sport estremo, il servizio eroico), ma questo rivela un grave difetto di evidenza della vita quotidiana, la povertà e l’opacità dei rapporti, delle relazioni, della gratificazione, della serenità e della gioia di ogni giorno. La vita quotidiana non è più il luogo dove si sta bene, non è più lo spazio di rapporti buoni, tutti sogniamo lo stacco, il weekend, la vacanza: la vita è buona solo in vacanza. Tuffi i giorni essa ci appare gravosa, monotona, affannosa, problematica, senza ossigeno. Dobbiamo ritornare ad abitare in modo creativo la vita quotidiana! Possiamo parlarne descrivendo il modo di abitare la casa, il lavoro, la festa.

a) Abitare la casa. Il primo gesto per addomesticare lo spazio della vita quotidiana è il modo di abitare la casa. La casa è la nostra “abitazione”, ma diventa “casa nostra” quando diventa lo spazio della relazione e il tempo della promessa. Aprire la “casa appartamento” è oggi l’imperativo del momento, non nel senso che la casa debba diventare quasi un posto di passaggio, una stazione di servizio dove ci si incontra per i bisogni primari.

b) Abitare il lavoro. Il secondo gesto per addomesticare lo spazio della vita quotidiana è il lavoro. Il lavoro segna profondamente oggi lo stile della vita di famiglia: anche il lavoro va abitato, non può essere solo il mezzo del sostentamento economico, ma deve diventare un luogo dell’identità personale/familiare e della relazione sociale.

c) Abitare la festa. Il terzo gesto con cui addomesticare lo spazio della vita quotidiana è lo stile con cui viviamo la festa. E questo uno degli indicatori più interessanti del nostro stile. L’aspetto più difficile nella condizione postmoderna è riuscire a vivere la domenica come tempo della festa. L’uomo d’oggi ha inventato il tempo libero, ma sembra aver dimenticato la festa. La domenica è vissuta socialmente come “tempo libero”, nel quadr
o del “fine settimana” (weekend) che tende a dilatarsi sempre più e ad assumere tratti di dispersione e di evasione. L’esperienza del weekend è quella di un tempo particolarmente concitato che soffoca lo spazio della domenica. Il tempo del riposo è vissuto come un intervallo tra due fatiche, l’interruzione dell’attività lavorativa, un diversivo alla professione. Per questo, l’uomo e la donna, ma soprattutto la famiglia, hanno bisogno di iscrivere nel loro stile il senso della festa, non solo pensandosi come una società di bisogno, ma come la comunità dell’incontro con l’altro nell’esperienza della “gratuità”.

2. LO STILE CHE ABITA IL MONDO

Il secondo ambito che la famiglia abita creando uno stile diverso è quello dei rapporti sociali. Lo spazio sociale è quello più difficile da abitare per la famiglia. Lo spazio sociale è oggi abitato dal mercato e dal consumo: i suoi due templi sono le banche e le città mercato. Oggi l’immagine della società è quella di una ruota con infiniti raggi che si incontrano solo al centro, ma mai prima tra di loro: e il centro è un non-luogo, un luogo di passaggio (città mercato, stazione, strada, ecc). Per questo occorre ricostruire i tessuti sociali di base per rianimare la rete della città. Per questo lo stile deve aprirsi verso l’esterno. Immagino tre ambiti di questa irradiazione dello stile nuovo per abitare la città: le amicizie, la scuola, la comunità. Attraversando questi spazi, come percorsi di vita buona si darà consistenza a quella ricerca del bene comune, si farà sentire dal vivo il “peso” nella vita sociale.

a) Abitare le amicizie. Bisogna farlo con uno stile agile e leggero, corrispondente al nostro modo di vita moderno, ma in ogni caso è urgente uscire dal regime di appartamento.

b) Abitare la scuola. Un secondo luogo del nostro incontro con lo spazio sociale sarà la scuola. Essa è un momento importante a servizio del compito educativo

c) Abitare la comunità. Un terzo luogo decisivo per abitare lo spazio sociale è quello della comunità ecclesiale. La comunità cristiane rappresentano un polo importante per sottrarre la famiglia al suo regime di appartamento.

d)  d) Abitare la città. Finalmente solo attraverso queste tre mediazioni sarà possibile abitare di nuovo la città e renderla la casa comune degli uomini.

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*Don Daniele Bortolussi è Direttore dell’Ufficio Pastorale Sociale e del Lavoro dell’Arcidiocesi di Torino.

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ZENIT Staff

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