Cristiani in Medio Oriente: vocazione, non destino

Bisogna “abbandonare la mentalità del ghetto ed entrare nella vita pubblica”

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GERUSALEMME, martedì, 25 maggio 2010 (ZENIT.org).- I 14 milioni di cristiani che vivono in Medio Oriente, nonostante le difficoltà e le persecuzioni, hanno una missione da compiere nei rispettivi Paesi, per l’ordine della pace e della coesistenza.

E’ questo uno dei temi affrontati da monsignor William Shomali, nominato di recente Vescovo del Patriarcato di Gerusalemme, durante una conferenza svoltasi il 13 maggio nell’auditorium di St. Saviour.

Alla conferenza, in preparazione alla prossima Assemblea Speciale del Sinodo dei Vescovi per il Medio Oriente, hanno assistito circa 140 religiosi che lavorano nel Patriarcato latino e che hanno cooperato alla stesura dei Lineamenta (il testo-base).

Monsignor Shomali ha insistito sulla necessità che i cristiani del Medio Oriente “scoprano la loro vocazione”, evitando di chiudersi in una “mentalità di ghetto” che potrebbe portare sempre più alla loro emarginazione sociale.

Nella conferenza, intitolata “The Synod for the Middle East in its Geopolitical and Pastoral Context” (“Il Sinodo per il Medio Oriente nel suo contesto pastorale e geopolitico”), il nuovo Vescovo ausiliare di Gerusalemme ha analizzato, Paese per Paese, la situazione delle minoranze cristiane.

Dalla Turchia all’Egitto, dalla Siria all’Iraq, la situazione dei cristiani è sempre più difficile, da un lato per l’emigrazione, dall’altro per l’ascesa di un islam politico che vuole soggiogare le società arabe.

Anche se la situazione concreta di maggiore o minor tolleranza dipende da ogni Paese – dall’intolleranza totale dell’Arabia Saudita alla libertà di culto in Giordania –, i cristiani vivono in società in cui non esiste autentica libertà di coscienza, e la loro presenza è più tollerata che ammessa.

Meno cristiani

Il maggior problema che affrontano le comunità cristiane, ha spiegato monsignor Shomali, è quello della propria continuità, perché da ormai cento anni c’è un esodo ininterrotto di cristiani, che si unisce al genocidio dei maroniti (1860) e del milione e mezzo di armeni da parte della Turchia (1912), alla guerra del Libano (1975 -1990) e all’instabilità dell’Iraq (dal 1990).

Queste migrazioni, afferma monsignor Shomali, non solo “hanno indebolito il tessuto della vita cristiana”, ma “hanno anche aperto gli occhi dei musulmani moderati, che vedono in questo esodo un impoverimento della società araba e la perdita di elementi moderati”.

“Molti intellettuali palestinesi – inclusi l’attuale Gran Mufti di Palestina, il Presidente Mahmoud Abbas e il Primo Ministro Salam Fayyad – hanno affermato che la partenza dei cristiani è stata una perdita per tutti i palestinesi e che finirà per mettere gli ebrei e gli estremisti musulmani faccia a faccia”, ha dichiarato.

“I cristiani hanno un contributo da offrire nella soluzione dei conflitti politici e religiosi”, ma per questo devono “abbandonare la mentalità del ghetto” e “partecipare più attivamente alla vita pubblica”.

Vocazione”, non “destino”

Per monsignor Shomali, i cristiani che vivono in Medio Oriente sono inseriti in una certa cultura e vivono con altri popoli con cui condividono una lingua, una storia e molte tradizioni.

“I cristiani non devono sentirsi stranieri. Sono chiamati ad essere testimoni di Cristo nei Paesi in cui vivono”, ha indicato.

Per questo, li ha esortati “a vivere con fede e gioia nella terra dei loro antenati”, perché “abbandonare i propri Paesi d’origine significa fuggire dalla realtà”.

“I fedeli sperano che i loro pastori diano loro ragioni chiare della missione in ogni Paese”, quella di essere “testimoni di Cristo risorto e presente nella sua Chiesa attraverso lo Spirito Santo, dove nasciamo e dove viviamo”.

Ecumenismo

“Le Sacre Scritture, scritte nella nostra terra e nelle nostre lingue (l’ebraico, l’aramaico e il greco), con espressioni letterarie e culturali che sentiamo come proprie, guideranno il nostro pensiero” per “scoprire il significato della nostra presenza, della nostra comunione e della nostra testimonianza nel contesto attuali dei nostri rispettivi Paesi”, ha continuato.

“Le Chiese hanno bisogno di vivere la propria particolarità liturgica e linguistica e di una comunione maggiore degli uni con gli altri. Attualmente, questa comunione lascia un po’ a desiderare. Hanno anche bisogno di un rinnovamento pastorale e liturgico”.

Il presule ha quindi ripercorso la relazione tra la Chiesa cattolica e quella ortodossa, affermando con i Lineamenta che le divisioni tra le Chiese del Medio Oriente “sono frutti amari del passato, ma lo Spirito lavora con le Chiese per riunire e spezzare le barriere verso l’unità visibile desiderata da Cristo”.

La Chiesa, ha concluso monsignor Shomali, “non cerca di offrire soluzioni prefabbricate per tutti i problemi che devono affrontare i cristiani che vivono in Medio Oriente”.

Facendo propria una delle risposte per i Lineamenta, il presule ha sottolineato che il compito della Chiesa è “la formazione del clero e dei fedeli, nei sermoni e nella catechesi”, per “dare al credente l’autentico senso della sua fede e anche la consapevolezza del suo ruolo nella società in nome di questa fede”.

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ZENIT Staff

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