“La pace di Dio assomiglia a una carezza materna”

Omelia dell’Ordinario militare ai funerali dei due militari uccisi in Afghanistan

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ROMA, lunedì, 24 maggio 2010 (ZENIT.org).- “La pace di Dio somiglia a voi madri quando con una carezza consolate i vostri figli”, ha detto monsignor Vincenzo Pelvi, Arcivescovo Ordinario militare per l’Italia, alle mamme di Massimiliano Ramadù e Luigi Pascazio, i due militari uccisi in Afghanistan il 17 maggio scorso.

Nell’omelia della Messa di suffragio, celebrata giovedì nella Basilica di Santa Maria degli Angeli a Roma, il presule ha confessato che in situazioni tragiche come la morte dei due giovani “i cuori si contraggono, la ribellione sembra impadronirsi di noi e la speranza spegnersi”.

“La terra degli uomini sarà sempre infangata dalle violenze? – ha chiesto – Il cielo di Dio rimarrà sempre murato nel suo mutismo?”.

L’Arcivescovo ha ricordato che “il mondo di Dio è pace, pace per gli affaticati dalla vita, protezione per coloro che vissero senza nessuno che vigilasse su di loro, sollievo per i cuori tormentati e feriti, conforto per coloro che gemono nel dolore”.

“Luigi e Massimiliano sono tra le più tenere braccia, consolati dal Dio della tenerezza. Dove noi non vediamo altro che mancanza di speranza e il nulla, lì Cristo dice: ‘Ma essi sono nella pace’”.

“Il ma di Dio va contro il nostro modo di pensare; il ma di Dio non lascia morire i morti, li risuscita e li conduce a sé”, ha osservato.

“Nelle braccia del Signore c’è infinita tenerezza, perché Lui è Padre, infinitamente Padre. Non lo sapevamo prima, né potevamo saperlo; è stato necessario che ci inviasse il suo Figlio, che ha dato la vita per noi”.

Monsignor Pelvi ha quindi proseguito spiegando che “chi ama non può non morire, come chi si dona non può farlo a metà”.

“Da quando Cristo è morto per noi, l’idea della morte è entrata a far parte del concetto di amore, lo porta alle estreme conseguenze rendendolo generatore di vita”.

Luigi Pascazio e Massimiliano Ramadù, ha aggiunto, “hanno vissuto per gli altri e sono morti per gli altri: sono morti come hanno vissuto, offrendo la loro giovane vita per gli altri”.

“La contraddizione più radicale non è tra il vivere e il morire, ma tra il vivere per se stessi e il vivere per gli altri. Colui che è abitato dall’amore vive totalmente spossessato di tutto e anche di sé, tanto che la morte non ha presa su di lui: egli ha donato in anticipo tutto quello che essa poteva strappargli, compresa la sua vita”.

Le missioni di pace, ha sottolineato, “sono una questione d’amore per dare dignità e democrazia a chi piange e soffre nelle terre più dimenticate”.

“Amore e pace sono inseparabili. La pace è un effetto dell’amore, deve essere fondata sul senso dell’intangibile dignità umana, sul riconoscimento d’una incancellabile e felice eguaglianza fra gli uomini, sul dogma basilare della fraternità umana. La società non è capace di futuro se si dissolve il principio di fraternità”.

Ciò, ha rimarcato, implica “il coraggio di passare dall’indifferenza all’interessamento per l’altro, dal rifiuto alla sua accoglienza: gli altri non sono concorrenti da cui difenderci, ma fratelli e sorelle con cui essere solidali; sono da amare per se stessi; ci arricchiscono con la loro presenza”.

“La rinuncia a pensare il mondo al di là del proprio interesse immediato, la sfiducia nell’azione umanitaria, la diffidenza verso ogni universalismo, tutto questo è la tomba dell’umanità”, ha concluso.

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ZENIT Staff

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