L’inatteso pontificato di Giovanni Paolo II

Realismo e profezia del giovane Wojtyla

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di Mariaelena Finessi

ROMA, mercoledì, 19 maggio 2010 (ZENIT.org).- «Personalmente ricordo la mia totale sorpresa, ma anche la mia gioia per questo “colpo d’ala”». Il cardinale Camillo Ruini, presidente del Comitato per il Progetto culturale della Conferenza episcopale italiana, ripesca nella memoria lo stupore provato, 32 anni fa, alla notizia dell’elezione di Karol Wojtyla al soglio pontificio. L’intervento del porporato, che dal 1991 al 2008 è stato vicario del Papa per la diocesi di Roma, si inserisce nella tavola rotonda organizzata il 18 maggio nell’ambito dell’incontro del Centro universitario Cattolico (Cuc) su “L’inatteso pontificato di Giovanni Paolo II”. Ospiti della Lumsa, a Roma, anche lo storico e fondatore della Comunità di Sant’Egidio Andrea Riccardi e il giornalista Arrigo Levi.

Sacerdote a Reggio Emilia-Guastalla, in quel lontano 1978, Ruini avrebbe avuto una «conoscenza personale del Papa» solo a partire dal Convegno di Loreto del 1985, ritenuto il momento d’inizio della svolta nella Chiesa italiana. Una svolta che, a dire il vero, il porporato sostiene essere iniziata prima, per volontà dello stesso Wojtyla. «Il motivo e lo scopo di questo impegno erano profondi ma anche semplici. Man mano che aumentava la sua conoscenza della situazione dell’Italia e della Chiesa italiana – spiega -, il Pontefice poteva scoprire, o comunque meglio percepire, la presenza di un convincimento diffuso», anche se spesso sottaciuto. E cioè la convinzione «che il processo di secolarizzazione fosse irreversibile e che l’unica strategia pastorale, culturale e politica che avesse speranza di ottenere risultati non effimeri fosse quella di non contrastare tale processo, bensì di accompagnarlo e, per così dire, di “evangelizzarlo”, evitando che esso degenerasse in un “secolarismo” ostile alla fede cristiana».

Convinto «che la secolarizzazione non fosse il destino inevitabile della modernità», Giovanni Paolo II riteneva, anzi, che il suo punto culminante fosse ormai alle nostre spalle e che il grande compito della Chiesa di oggi fosse «l’evangelizzazione intesa in senso forte e pieno, come capacità di portare Cristo al centro della vita e della cultura e quindi anche del divenire della storia». La Chiesa perciò doveva «prendersi cura dell’uomo, nel concreto della sua esistenza e delle sue situazioni» senza tuttavia ripudiare «le proprie ricchezze tradizionali e anche devozionali».

E «grande sorpresa» è stata quella che provò anche monsignor Mariano Crociata, segretario generale della Cei, per la scelta di un Papa il cui «amore per la Chiesa è stato tale che egli non ha esitato a scandalizzare molti col chiedere perdono per le sue rughe ». Nel suo «non abbiate paura», sta del resto la chiave per leggere un Pontefice che «non si è stancato di ripetere quanto sterile e fuorviante sia il tentativo di voler escludere il Cristo dalla storia. La pretesa di costruire senza di lui la città dell’uomo è stata la torre di Babele dell’ideologia comunista», ma «anche il capitalismo, ai suoi occhi, si rivelava incapace di garantire il bene comune».

Seppe guardare lontano, con profezia, oltre il presente. «Un Papa itinerante», ricorda Giuseppe Dalla Torre, rettore della Lumsa. Andato realmente ovunque e che conosceva moltissime lingue. Eppure, «se anche sapesse parlare le lingue – monsignor Crociata cita, parafrasandola, la lettera di Paolo ai Corinzi -, senza la carità sarebbe nulla». Parole e alfabeti, quelli coniati da Wojtyla di cui «si dovrà scrivere un dizionario per i viandanti smarriti nei deserti esistenziali».

«Da ebreo miscredente – a parlare è Arrigo Levi – posso dire che forse l’unica occasione in cui ho pianto, tenendo mia moglie per mano, è quando ho visto Wojtyla a Gerusalemme», chiedere perdono al popolo ebraico. «Era una svolta della storia». Tanto più che l’arrivo del Papa polacco – fatto che forse sfuggiva agli stessi cardinali che lo elessero – «rappresentò il principio della fine dell’Unione Sovietica». E la storia, infatti – come sostiene Andrea Riccardi, ricostruendo il Conclave che lo portò sul trono di Pietro – ha un debito nei confronti di Giovanni Paolo II. Anzi, «credo che la storia sia il vero monumento che noi possiamo fare a Karol Wojtyla»

Di lui si è detto che fosse troppo conservatore o, al contrario, troppo progressista. Un dilemma, quello della sua identità cattolica, che Giovanni Paolo II si assunse personalmente la responsabilità di interpretare, coniugando la novità con la tradizione. «Egli – conclude Riccardi – mise in crisi la categoria del cattolico modellata sulla politica». Era, più semplicemente, «l’uomo del post Concilio», che ha accompagnato la Chiesa verso una nuova centralità dell’individuo.

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ZENIT Staff

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