ROMA, domenica, 16 maggio 2010 (ZENIT.org).- L’improvvisa legalizzazione delle coppie omosessuali, avvenuta in Danimarca nel 1989, aveva aperto la via al riconoscimento giuridico di delicate situazioni umane, espressione di una più o meno grave condizione patologica. Condizione, ben nota alle scienze biomediche e psichiatriche, che caratterizza un dato soggetto, imprimendogli un definito e persistente orientamento sessuale verso una persona dello stesso sesso e, quindi, una forte attrazione e inclinazione verso la stessa; orientamento e attrazione a cui, in generale, si accompagna un comportamento correlativo fino alle più intense e intime espressioni.
Seguirono immediatamente analoghe legalizzazioni in altre Nazioni, ma con aperture diverse. In Norvegia, nel 1993, la “registrazione” delle unioni omosessuali è assimilata al “certificato di vincolo matrimoniale”; in Belgio nel 1999 è ammessa la legalizzazione dei rapporti sia etero che omosessuali con modalità indifferentemente uniformi, garantendo la sicurezza reciproca ai due individui che intendono instaurare una forma di comunione di vita, compresi evidentemente i figli; in Francia, nello stesso anno, è introdotto il Patto Civile di Solidarietà (PACS) tra due persone maggiorenni di sesso diverso o dello stesso sesso, che intendono organizzare la “vita comune” ma che può essere sciolto per volontà delle parti; anche nella nostra Italia oggi, pur riconoscendo la posizione di privilegio riservata dalla Costituzione alla “famiglia legittima”, alla “famiglia di fatto” sono garantiti riconoscimento e tutela giuridica, imposti dalla Costituzione che impegna la Repubblica a tutelare i diritti inviolabili dell’uomo sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolga la sua personalità.
Tuttavia, la situazione attuale della reale natura delle unioni di fatto lascia al giurista delle perplessità per la loro difficile intelligibilità giuridica. Con chiarezza e fermezza Cristina Rolando nel libro “Famiglia di fatto. Problema giuridico e di bioetica relazionale” (Cantagalli)
sottolinea che sarebbe inammissibile equiparare le due forme di famiglia: «decisamente antitetica – afferma – è la situazione del matrimonio che conferisce alla vita privata una valenza pubblica riconosciuta secondo le modalità proprie del diritto, rispetto a quella del “rapporto di fatto” di tipo occasionale finalizzato all’esercizio della sessualità».
I “conviventi” vogliono che la loro relazione sia connotata da una certa obiettività; ma in realtà vogliono “legarsi” e “non legarsi”, che per il diritto sarebbe un paradosso. Purtroppo questa è la realtà di una società dove la famiglia esprime ancora tutto il suo valore e la sua potenza; ma dove deviazioni etiche, legalmente approvate e fortemente promosse, stanno erodendo
e distruggendo il senso dell’uomo e dei suoi valori. È evidente che la “famiglia legittima” e la “famiglia di fatto” saranno d’ora innanzi ambedue parte integrante della società; ma per la seconda sarà necessaria una specifica regolamentazione diversa dalla normativa disposta per la prima.
È su questa regolamentazione di alto interesse che si sofferma l’ultima parte dello studio giuridico della Rolando , nella quale viene analizzato il disegno di legge governativo del ddl n.1339 sui Diritti e doveri dei Conviventi (DICO). Tre sono gli aspetti essenziali particolarmente sottolineati e discussi. 1) Il “rapporto di convivenza”: cioè lo stato, giuridicamente rilevante e disciplinato dal ddl, è la sola convivenza stabile ed abituale tra due persone maggiorenni e capaci, anche
dello stesso sesso, non legate da vincoli di matrimonio e connotata da vincoli affettivi e solidaristici. 2) I “diritti in favore dei conviventi”: sono, in particolare, assistenza e visita in caso di malattia e ricovero, decisioni in materia di salute e per il caso di morte; assegnazione di
alloggi di edilizia popolare, la successione nel contratto di locazione di cui sia parte uno dei conviventi; le agevolazioni in materia di lavoro, futuro riordino delle normative previdenziali e pensionistica, trascorsi nove anni dall’inizio della convivenza, il convivente concorre alla successione legittima dell’altro convivente, il diritto agli alimenti al convivente che versa in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere al proprio mantenimento. 3) I Contratti di Unione Solidale (CUS): intesi a istituzionalizzare la condizione dei conviventi – anche dello stesso sesso – trasformandola da situazione di fatto in situazione di riconoscimento giuridico, violando il principio di uguaglianza costituzionale che impone di equiparare nel trattamento giuridico soltanto situazioni identiche.
Con profonda comprensione giuridica l’Autrice pone due chiare domande, riferendosi all’Italia: 1)“La necessità, sottesa al progetto di legge, di una regolamentazione delle “unioni di fatto” corrisponde ad una necessità?”. 2) “L’intervento del legislatore è una priorità per il Paese?”.
In realtà, sulla base dei dati dell’ISTAT 2006, le “coppie di fatto” in Italia costituiscono soltanto il 3,9% dei 22 milioni di nuclei familiari, ammontando cioè a 564.000 “coppie di fatto”, delle quali soltanto 10.000-15.000 potenzialmente interessate a realizzare la propria condizione. Ovviamente, diverse potrebbero essere le opinioni e, quindi, le risposte in merito alle domande sopra formulate. Ma con matura e serena saggezza la Rolando sottolinea: “Il dibattito, più che sulla opportunità di introdurre una regolamentazione per sostenere le “unioni di fatto”, dovrebbe incentrarsi sulla necessità di tutelare le nuove generazioni mediante l’attuazione dei diritti fondamentali in favore dei fanciulli previsti dalle convenzioni internazionali: nella specie, avere una famiglia e fruire di un rapporto costante, assiduo e stabile con il padre e la madre” e, vorrei modestamente aggiungere, una corretta educazione e formazione della gioventù.
Non resta che esprimere un sentito grazie a questo limpido, anche se complesso, quadro giuridico elaborato con profonda saggezza e offerto dalla Rolando a quanti sono interessati, per dovere o per conoscenza, ai complessi problemi delle “unioni di fatto”. Vorrei soltanto aggiungere una breve riflessione che può aprire a una obiettiva speranza. I dati offerti dalle scienze biologiche, nel loro insieme, costituiscono un coerente complesso di osservazioni le quali: 1) indicano, con sufficiente forza, che nella spiegazione causale del fenomeno non può essere esclusa una componente biologica; 2) anzi suggeriscono che essa è presente e con un peso apprezzabile; 3) ne lasciano prevedere una variabilità notevole. In realtà, l’omosessuale è un malato che non è da segregare, ma si deve cercare di curare per una correzione e modificazione possibile, anche se – al momento – ancora difficile e ardua. È solo da sottolineare che è una situazione la quale esige un grande rispetto che ne impedisca l’emarginazione.
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*Padre Angelo Serra è un genetista di fama internazione, professore emerito di Genetica Umana all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma e membro della Pontificia Accademia per la Vita.