di padre Angelo del Favero*
ROMA, venerdì, 14 maggio 2010 (ZENIT.org).- “Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: ‘Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finchè non siate rivestiti di potenza dall’alto’. Poi li condusse fuori verso Betania, e, alzate le mani li benedisse. Mentre li benediceva si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio” (Lc 24,45-53).
A giudicare dalla scena descritta da Luca, l’Ascensione è il distacco benedicente e definitivo di Gesù dai suoi discepoli, letteralmente il suo “a-Dio”, il ritorno al Padre. Un addio narrato oggi due volte: la prima, nel Vangelo, con una nota di letizia: “poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia”; la seconda, negli Atti, con una punta di comprensibile nostalgia: “fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava..”(At 1,9-10).
Viene in mente un terzo racconto lucano di addio, più dettagliato e commovente, il congedo di Paolo dagli anziani di Efeso, a Mileto: “E ora, ecco, io so che non vedrete più il mio volto, voi tutti tra i quali sono passato annunciando il Regno di Dio. (…) Io so che dopo la mia partenza verranno fra voi lupi rapaci, che non risparmieranno il gregge, (…) E ora vi affido a Dio e alla parola della sua grazia, (…) Dopo aver detto questo si inginocchiò con tutti loro e pregò. Tutti scoppiarono in pianto, e gettandosi al collo di Paolo, lo baciavano, addolorati soprattutto perché aveva detto che non avrebbero più rivisto il suo volto. E lo accompagnarono fino alla nave” (At 20,25-38).
Confrontando questa scena paolina con l’Ascensione di Betania, notiamo che mentre gli amici di Paolo tornano a casa in lacrime, i discepoli di Gesù rientrano a Gerusalemme “con grande gioia”, simile a quella provata la sera di Pasqua quando il Risorto era apparso inaspettatamente in mezzo a loro a porte chiuse.
Sappiamo che tre giorni prima, nel clima di profondo turbamento del Cenacolo, Gesù aveva promesso questa gioia pasquale, dichiarandola inalienabile: “Ora siete nel dolore; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia” (Gv 16,22). Il Signore si riferiva agli imminenti eventi pasquali, ma le sua parole si possono applicare anche al mistero dell’Ascensione (il suo secondo congedo da loro), quando, ormai vivo per sempre, lascia i suoi per andare incontro al Padre.
A Betania, nell’imminenza della dipartita definitiva del Signore, il cuore dei discepoli non è afflitto: la Risurrezione ha ormai cambiato l’afflizione di un tempo in gioia inalienabile, ed ora che Egli se ne va per sempre, la sentono ancor più limpida, come se il distacco inaugurasse una presenza di Gesù tanto intima, intensa e nuova da coincidere con la loro stessa esistenza personale.
E’ il segno dell’inizio di ciò che scrive Paolo non molti anni dopo: “non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20).
Alla luce di tutto ciò comprendiamo meglio la portata di queste altre parole di Gesù: “Sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10). In realtà, con l’Ascensione, equivalgono a queste: “Me ne vado perché abbiate sempre la gioia di vivere, e la abbiate in abbondanza, qualunque cosa sia accaduta, accada ed accadrà”.
Sì, la “grande gioia” dell’Ascensione è la prova e il segno che il vuoto dell’assenza è stato colmato da una presenza migliore: “Il Signore non si allontana dai suoi. Sarà sempre in cammino con tutti i pellegrini, come con i due di Emmaus. Ma la sua presenza non sarà fisica, limitata nello spazio e nel tempo. Sarà spirituale, illimitata, ovunque e sempre. La sua distanza assoluta è in realtà una vicinanza assoluta. Se prima era vicino a noi con il suo corpo, ora è in noi con il suo stesso Spirito. Prima era visibile con il volto di un altro; ora è invisibile, come il nostro stesso volto trasfigurato nel suo dalla Parola e dal Pane. “Tornarono a Gerusalemme con grande gioia”: non c’è la nostalgia di un distacco, ma la certezza di un dono” (Silvano Fausti, “Una comunità legge il Vangelo di Luca”, p. 805s).
Nell’Ascensione del Signore sta dunque il segreto della gioia di vivere, soprattutto per coloro che si ritrovino ad averla perduta per un fatto irrimediabile.
Per comprendere come ciò sia possibile, la prima chiarezza da fare riguarda proprio l’evento che celebriamo oggi: in cosa è consistito realmente? Cos’è e cosa significa l’Ascensione del Signore per noi?
L’Ascensione è caratterizzata da due aspetti: il primo è la separazione umana dolorosa, il distacco che lascia nel cuore un vuoto ed una nostalgia intollerabile; il secondo è il dono di una Presenza divina che colma in maniera traboccante il vuoto lasciato. In quanto separazione, l’Ascensione (Lc 24,51) dice la fine di un certo modo di relazione tra Gesù e i suoi discepoli; in quanto elevazione in Cielo, l’Ascensione è simbolo di quella glorificazione del Signore che è per l’uomo fonte di somma felicità, in quanto Gesù può ora mandare il suo Spirito che non solo annulla la distanza del precedente doloroso distacco, ma colma di profonda consolazione e rinnovata gioia la vita, poiché Egli ora ha il potere di fare nuove tutte le cose passate, presenti e future, “restituendo” in se stesso molto più di tutto ciò che abbiamo perduto, com’è vero che il Creatore è infinitamente di più della creatura.
In pratica il movimento del Signore nell’Ascensione è questo: da Gerusalemme Gesù Risorto “sale” verso l’alto, rientrando nel “santuario del Cielo” (Eb 9,24), che è il mondo del Padre, per poter discendere con il Padre e lo Spirito Santo, nell’anima del battezzato, divenuta il suo e loro Cielo preferito. Il Cielo è perciò dentro di noi, ed è qui che è dato incontrare il Signore risorto e vivo, immergendoci nella gioia della sua Presenza come ci si tuffa (o si entra a poco a poco) nell’acqua.
Si tratta allora, anche per noi, di “ascendere al Cielo”, vale a dire entrare inabissandoci nell’intimo del nostro cuore per mezzo del raccoglimento e della preghiera. Scrive una ventiquattrenne monaca carmelitana ad un’amica: “Ah, se potessi insegnarti il segreto della felicità come il buon Dio l’ha insegnato a me! Tu dici che io non ho né preoccupazioni, né sofferenze, ed è vero che sono quanto mai felice, ma se tu sapessi come si può essere del tutto felici pur in mezzo alle contrarietà! Bisogna sempre tenere lo sguardo rivolto al buon Dio. Bisogna che tu costruisca come me una celletta dentro la tua anima. Penserai che il buon Dio è lì e vi entrerai di tanto in tanto. Quando ti senti innervosita o ti assale la malinconia, corri subito nel tuo rifugio e confida tutto al Maestro. Se tu lo conoscessi la preghiera non ti annoierebbe più. In realtà è un riposo, credimi, una distensione. Un andare con tutta semplicità da colui che si ama, uno stare accanto a Lui come un bambino tra le braccia della mamma, un abbandono del cuore…” (Elisabetta della Trinità, “Scritti”, Lettera 179).
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* Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E’ diventato carmelitano nel 1987. E’ stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualment
e si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.