Card. Bertone: “Per entrare nel regno, dobbiamo farci umili”

Nel presiedere la Messa sul sagrato del Santuario di Fatima

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FATIMA, mercoledì, 12 maggio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’omelia pronunciata questo mercoledì sera dal Card. Tarcisio Bertone, Segretario di Stato vaticano, nel presiedere la celebrazione eucaristica per la Veglia della Solennità della Beata Vergine di Fatima sul sagrato del Santuario di Fatima.

 

* * *

Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,

Amati Fratelli e Sorelle nel Signore,

Cari pellegrini di Fatima!

Dice Gesù: «Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 18,3). Per entrare nel regno, dobbiamo farci umili, sempre di più umili e piccoli, piccoli il più possibile: questo è il segreto della vita mistica. Un serio avvio della vita spirituale ha inizio quando una persona fa un autentico atto di umiltà, lasciando la difficile posizione di chi si ritiene sempre il centro dell’universo per abbandonarsi nelle braccia del mistero di Dio, con un’anima da bambino.

Nelle braccia del mistero di Dio! In Lui, non c’è soltanto potenza, scienza, maestà, c’è anche infanzia, innocenza, tenerezza infinita, perché Lui è Padre, infinitamente Padre. Non lo sapevamo prima, né potevamo saperlo; è stato necessario che ci inviasse il suo Figlio perché lo scoprissimo. Questi si è fatto bambino e così ha potuto dirci di diventare noi stessi bambini per entrare nel suo regno. Egli, che è Dio di infinita grandezza, si è fatto così piccolo e umile davanti a noi che soltanto gli occhi della fede e dei semplici Lo possono riconoscere (cfr Mt 11,25). Così ha messo in discussione l’istinto naturale di protagonismo che regna in noi: «Diventare come Dio» (cfr Gen 3,5). Ebbene! Dio è apparso sulla terra come bambino. Adesso sappiamo come è Dio: è un bambino. Bisognava vedere per credere! Egli è venuto incontro al nostro prepotente bisogno di emergere, ma ne ha invertito la direzione proponendoci di metterlo al servizio dell’amore; emergere sì, ma come il più pacifico, indulgente, generoso e servizievole di tutti: il servo e l’ultimo di tutti.

Fratelli e sorelle, questa è «la sapienza che viene dall’alto» (cfr Gc 3,17). Invece la «sapienza» del mondo esalta il successo personale e lo cerca ad ogni costo, eliminando senza scrupoli chi è considerato come ostacolo alla propria supremazia. Questo chiamano vita, ma la scia di morte, che essa lascia subito li contraddice. «Chiunque odia il proprio fratello – lo abbiamo sentito nella seconda lettura – è omicida, e voi sapete che nessun omicida ha più la vita eterna che dimora in lui» (1Gv 3,15). Soltanto chi ama il fratello possiede in se stesso la vita eterna, ossia, la presenza di Dio, il quale, per mezzo dello Spirito, comunica al credente il suo amore e lo fa partecipe del mistero della vita trinitaria. In effetti, così come un migrante in un Paese straniero, nonostante si adatti alla nuova situazione, conserva in sé – almeno nel cuore – le leggi e le abitudini del suo popolo, così anche Gesù venuto sulla terra ha portato con sé, in quanto pellegrino della Trinità, il modo di vivere della sua patria celeste che «esprime umanamente gli atteggiamenti divini della Trinità» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 470). Nel Battesimo, ognuno di noi ha rinunziato alla «sapienza» del mondo e si è rivolto verso la «sapienza dall’alto», che si è manifestata in Gesù, Maestro incomparabile nell’arte di amare (cfr 1Gv 3, 16). Donare la vita per il fratello è l’apice dell’amore, ha detto Gesù (cfr Gv 15,13); l’ha detto e l’ha fatto, comandandoci di amare come Lui (cfr Gv 15,12). Il passare dalla vita come possesso, alla vita come dono, è la grande sfida, che rivela – a noi stessi e agli altri – chi siamo e chi vogliamo essere.

L’amore fraterno e gratuito è il comandamento e la missione che il divino Maestro ci ha lasciato, in grado di convincere i nostri fratelli e sorelle in umanità: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35). A volte ci lamentiamo a causa della presenza marginale del cristianesimo nella società attuale, della difficoltà nel trasmettere la fede ai giovani, della diminuzione delle vocazioni sacerdotali e religiose… e si potrebbero elencare altri motivi di preoccupazione; infatti non di rado ci sentiamo dei perdenti al cospetto del mondo. L’avventura della speranza però ci porta più lontano. Ci dice che il mondo è di chi più lo ama e meglio glielo dimostra. Nel cuore di ogni persona c’è una sete infinita d’amore; e noi, con l’amore che Dio riversa nei nostri cuori (cfr Rm 5,5), possiamo soddisfarla. Naturalmente, il nostro amore deve esprimersi «non a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità», sovvenendo gioiosamente e sollecitamente con i nostri beni alle necessità degli indigenti (cfr 1Gv 3,16-18).

Cari pellegrini e quanti mi ascoltate, «condividete con gioia, come Giacinta». Tale è il richiamo che questo Santuario ha voluto mettere in evidenza nel centenario della nascita della privilegiata veggente di Fatima. Dieci anni fa, in questo stesso luogo, il Venerabile Servo di Dio Giovanni Paolo II l’ha innalzata alla gloria degli altari insieme al fratello Francesco; essi hanno percorso, in breve tempo, la lunga marcia verso la santità, guidati e sostenuti dalle mani della Vergine Maria. Essi sono due frutti maturi dell’albero della Croce del Salvatore. Guardando a loro, sappiamo che questa è la stagione dei frutti… frutti di santità. Vecchio tronco lusitano di linfa cristiana, con i rami estesi fino ad altri mondi e ivi sotterrati come germogli di nuovi popoli cristiani, su di te la Regina del Cielo ha poggiato il suo piede – piede vittorioso che schiaccia la testa del serpente ingannatore (cfr Gen 3,15) – alla ricerca dei piccoli del regno dei cieli.

Rinvigoriti dalla preghiera di questa notte di veglia e con gli occhi fissi nella gloria dei beati Francesco e Giacinta, accogli la sfida di Gesù: «Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 18,3). Per delle persone minate dall’orgoglio come noi, non è facile diventare come i bambini. Perciò Gesù ci avverte così duramente: «Non entrerete…»! Non ci lascia alternativa. Portogallo, non rassegnarti a forme di pensare e di vivere che non hanno futuro, perché non poggiano sulla salda certezza della Parola di Dio, del Vangelo. «Non temere! Il Vangelo non è contro di te, ma è a tuo favore. […] Nel Vangelo, che è Gesù, troverai la speranza solida e duratura a cui aspiri. È una speranza fondata sulla vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte. Questa vittoria Egli ha voluto che sia tua per la tua salvezza e la tua gioia» (Esort. ap. Ecclesia in Europa, 121).

La prima lettura ci mostra come Samuele ha trovato una guida nel Sommo Sacerdote Eli. Questi dimostra nei riguardi del fanciullo tutta la prudenza richiesta dal compito del vero educatore, in grado di intuire la natura della profonda esperienza che Samuele sta facendo. Nessuno, infatti, può decidere in merito alla vocazione di un altro; perciò Eli indirizza Samuele verso il docile ascolto della parola di Dio: «Parla, [Signore,] perché il tuo servo ti ascolta» (1Sam 3, 10). In un certo modo possiamo leggere nella stessa luce questa Visita del Santo Padre, che si svolge sotto il tema: «Papa Benedetto XVI, con te camminiamo nella Speranza!» Queste sono parole che hanno il sapore sia di una confessione collettiva di fede e adesione alla Chiesa con il suo fondamento visibile in Pietro, sia di un personale apprendistato di fiducia e di lealtà nei confronti della guida paterna e saggia di colui che il Cielo ha scelto per indicare alla umanità di questo tempo la via sicura
che ivi porta.

Santo Padre, «con te camminiamo nella Speranza»! Con te, impariamo a distinguere tra la grande Speranza e le speranze piccole e sempre limitate come noi! Quando, in mezzo alla defezione generale per ritornare alle piccole speranze, si farà sentire la sfida di Gesù, la grande Speranza: «Volete andarvene anche voi?», svegliaci tu, Pietro, con la tua parola di sempre: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (Gv 6,68-69). Davvero – ci ricorda il Pietro d’oggi, Papa Benedetto XVI -, «chi non conosce Dio, pur potendo avere molteplici speranze, in fondo è senza speranza, senza la grande speranza che sorregge tutta la vita (cfr Ef 2,12). La vera, grande speranza dell’uomo, che resiste nonostante tutte le delusioni, può essere solo Dio – il Dio che ci ha amati e ci ama tuttora “sino alla fine”, “fino al pieno compimento” (cfr Gv 13,1 e 19,30)» (Enc. Spe salvi, 27). Amati pellegrini di Fatima, fate sì che il Cielo sia sempre l’orizzonte della vostra vita! Vi hanno detto che il Cielo può aspettare, ma vi hanno ingannato… La voce che viene dal Cielo non è come queste voci paragonabili alla leggendaria sirena ingannatrice, che addormentava le sue vittime prima di precipitarle nell’abisso. Da duemila anni, a iniziare dalla Galilea, risuona fino ai confini della terra la voce definitiva del Figlio di Dio dicendo: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc 1,15). Fatima ci ricorda che il Cielo non può aspettare! Perciò chiediamo con fiducia filiale alla Madonna di insegnarci a donare il Cielo alla terra: O Vergine Maria, insegnaci a credere, adorare, sperare e amare con te! Indicaci la via verso il regno di Gesù, la via dell’infanzia spirituale. Tu, Stella della Speranza che trepidante ci attendi nella Luce senza tramonto della Patria celeste, brilla su di noi e guidaci nelle vicende di ogni giorno, adesso e nell’ora della nostra morte. Amen.

[© Copyright 2010 – Libreria Editrice Vaticana]

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ZENIT Staff

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