di Mariaelena Finessi
ROMA, mercoledì, 12 maggio 2010 (ZENIT.org).- «Un giorno, mentre pregavo nella mia cella, Dio mi parlò». Padre Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa Pontificia, sorride: «Lui si che è un comunicatore. Mi chiese di lasciare tutto. Come francescano era ipotizzabile che io non avessi già più nulla. E invece no. Io avevo tanto, ero professore all’università di Milano, avevo degli agi, una carriera professionale. Mollai ogni cosa e mi feci predicatore itinerante della Parola».
Padre Cantalamessa, che l’11 maggio ha ricevuto presso l’ateneo Lateranense di Roma, il premio “Comunicazione e cultura” (riconoscimento a quanti operano nei media incarnando i valori espressi nel tema della Giornata delle comunicazioni sociali), racconta gli esordi del suo lungo viaggio nel mondo dei media.
Un’esperienza che al frate – appena laureato ad honorem dalla facoltà di Scienze della Comunicazione di Macerata – ha fatto guadagnare sul campo anche quest’ultimo premio istituito dal Centro delle Paoline – «a motivo della sua testimonianza e il suo annuncio della Parola in televisione e nel mondo digitale».
Chiamato in Vaticano da Giovanni Paolo II, dal 1981 padre Raniero Cantalamessa tiene ogni venerdì, in Avvento e in Quaresima, una meditazione in presenza del Papa, dei cardinali, vescovi, prelati e superiori generali di ordini religiosi: «I Pontefici – si schernisce – mi sopprtano forse perché questo è il posto in cui posso fare meno danni alla Chiesa».
Nel 1995 approda in tv, facendosi predicatore anche in video. Ruolo che ha rivestito fino al novembre 2009: «Non ho una preparazione tecnica nella comunicazione – spiega il cappuccino -, è il mezzo televisivo ad avermi educato». Con il pubblico ha stabilito quello che lui chiama «un rapporto di fiducia». «Non vedevo le telecamere – ricorda –, parlavo alla gente e non al mezzo». E la gente ha risposto, «ma non a me – precisa –, piuttosto alla notizia che annunciavo e che valeva, e vale, la pena di essere ascoltata».
Certo, padre Cantalamessa – 76 anni a luglio – non nasconde le difficoltà che un religioso può incontrare: «Un sacerdote è uno spaesato, come Gesù che veniva da un altro mondo per annunciare cose di un altro mondo». Difficoltà ed ostacoli che a suo avviso sono ben espresse da un racconto di Kafka: «Un imperatore, su letto di morte, chiama un suddito a sé perché trasmetta un messaggio al suo popolo. Il messaggio è così importante che il suddito se lo fa ripetere due volte all’orecchio e s’incammina per andare a riferire quel messaggio».
«Come volerebbe se avesse via libera – spiega padre Raniero, ricordando il testo dello scrittore -. Ben presto udresti il glorioso rumore dei suoi pugni alla tua porta. Invece, si affatica invano attraverso le stanze del palazzo interno, dalle quali non uscirà mai. E se anche questo gli riuscisse, non significherebbe nulla: dovrebbe lottare per scendere le scale. E se anche questo gli riuscisse, non avrebbe fatto ancora nulla, dovrebbe attraversare i cortili, e poi la seconda cerchia dei palazzi, poi altre scale e cortili, per millenni».
«Gli riuscisse di precipitarsi, finalmente, fuori dall’ultima porta – ma questo non potrà mai, mai accadere – ecco dinanzi a lui la città imperiale, ove sono ammucchiate montagne dei suoi detriti». Ecco, lì in mezzo, nessuno riescirebbe ad avanzare, «neppure con il messaggio di un morto ma tu, intanto, siedi alla tua finestra e sogni di quel messaggio, quando viene la sera».
Allo stesso modo, «dal suo letto di morte, la croce, Cristo ha confidato alla sua Chiesa un messaggio. Ci sono ancora tanti uomini – sottolinea il frate – che, stando alla finestra, sognano di un messaggio come il suo. Purtroppo la Chiesa può diventare quel castello complicato e soffocante dal quale il messaggio non riesce più a uscire». L’ostacolo principale «sono le divisioni tra cristiani, come pure l’eccesso di burocrazia e il linguaggio, a volte astruso e complicato, che potremmo definire “ecclesiastichese”».
La chiave sta allora nella semplicità. «Io ad esempio – dice il predicatore apostolico – ho fatto una scarnificazione del mio linguaggio. Perché non c’è una verità così profonda che con un messaggio adatto non si possa portare alle persone più umili». Soprattutto, conclude, «occorre calare la Parola nella vita perché se non c’è l’aggancio alla quotidianità della gente e ai problemi di ogni giorno, il messaggio cade, perdendosi irrimediabilmente».