La Piccola Casa della Divina Provvidenza

Parla don Carmine Arice, direttore dell’ufficio pastorale per le comunicazioni

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di Chiara Santomiero

TORINO, domenica, 2 maggio 2010 (ZENIT.org).- Quando Benedetto XVI arriverà qui alla Piccola Casa, dopo aver venerato la Sindone nel duomo di Torino, passerà sotto un arco che reca la scritta “Divina Provvidenza” per ricordare anche nella pietra quella che fu sempre la fonte ispiratrice del santo Giuseppe Cottolengo, la cui statua è posta al di sotto dell’arco con il suo motto personale “Caritas Christi urget nos”.

“Il Papa – spiega don Carmine Arice, direttore dell’ufficio pastorale per le comunicazioni della Piccola Casa della Divina Provvidenzaentrerà nella chiesa dall’ingresso di via S. Pietro in vincoli e si fermerà a venerare le spoglie di S. Giuseppe Cottolengo. Quindi proseguirà lungo la navata centrale dove lo aspetteranno, a destra e a sinistra, i nostri ospiti e verrà nel presbiterio dove sarà accolto dai sacerdoti e dal Padre Aldo Sarotto, superiore generale dei cottolenghini. Qui rivolgerà il suo discorso alla Piccola Casa al termine del quale saluterà dieci ammalati in rappresentanza di tutti gli altri e poi uscirà, riattraversando la navata centrale”.

Intorno alla chiesa dedicata a s. Vincenzo de’ Paoli e s. Antonio abate si stendono i 112 mila metri quadrati della Piccola Casa della Divina Provvidenza. Una vera e propria città che accoglie in modo stabile circa 2 mila persone – tra ospiti e personale religioso -, e che arriva a distribuire “circa 3 mila pranzi ogni giorno di cui 500 per gli assistiti, 208 per i ricoverati in ospedale, quasi 400 alla mensa degli senza fissa dimora, almeno 600 alle suore tra le quali quelle anziane o a riposo…”. Davanti alla grande cucina generale, sono pronti dei furgoncini ape che a mezzogiorno caricano e distribuiscono il cibo in tutti i padiglioni.

“Accogliere in maniera stabile – aggiunge Arice – circa cinquecento deboli mentali, anziani, malati di Alzhemeir, terminali, richiede una struttura notevole”. Attenzione però a non chiamare la Piccola Casa struttura sanitaria, di ricovero o Casa di riposo.

L’ha chiamata ‘Casa’”

“San Giuseppe Cottolengo – spiega Arice – non aveva in mente un istituto, un ricovero: l’ha chiamata Casa, per tutti quelli che erano rifiutati dagli altri ospedali o vivevano in stato di abbandono”.

“Il campo semantico usato – aggiunge – è sempre quello delle relazioni familiari: padre, madre, figlio, sorella dei poveri. Anche i reparti sono chiamati famiglie”.

La Piccola Casa si estende nel quartiere torinese di Valdocco che evidentemente attira santità e le grandi opere perché accanto c’è la Casa madre dei salesiani di don Bosco. “I due santi – afferma Arice – certamente si sono conosciuti perché don Bosco è diventato prete nel 1841 e Cottolengo è morto nel 1842”. Una leggenda racconta anche di un consiglio dato dal Cottolengo al giovane don Bosco: “questa talare è troppo sottile e vi si attaccheranno molti ragazzi: prendetene una più robusta”.

Il Cottolengo arriva qui il 27 aprile 1832. Il primo nucleo di accoglienza aperto nel centro della città (il Deposito della Porta rossa), è stato chiuso dalle autorità per timore del diffondersi di epidemie e lui si sposta in periferia, “portando – ricorda una targa – “su un somarello e un carrettino i primi due ospiti della Piccola Casa della Divina Provvidenza”.

“Inizia un’opera – racconta Arice – che si allarga in cerchi concentrici; ogni volta che incontrava una domanda si provvedeva a una risposta: invalidi, deboli mentali, orfani, scuole, ospedali per acuti, ospedale per cronici”.

All’inizio c’erano dei laici di buona volontà ad aiutare il Cottolengo, poi “mano a mano che la realtà si è espansa, alcuni chiamati alla vita consacrata hanno dato più stabilità al servizio, dapprima suore, e fratelli e poi sacerdoti”.

Il Cottolengo “ha fondato sedici famiglie religiose, maschili e femminili, di cui sei di vita contemplativa e dieci di vita apostolica, ciascuna per la risposta a un diverso bisogno”.

Costringere la Provvidenza ad intervenire”

Tutto questo “nell’arco di dieci anni, dal 1832 al 1842; a 56 anni muore in un’epidemia di tifo petecchiale che si diffonde a Torino”. Questa grande attività viene realizzata, afferma Arice, seguendo “una sequenza interessante. Di solito, all’emergere di un bisogno si cercano delle risorse per farvi fronte e poi si risponde. Invece, nel caso del Cottolengo, la sequenza era: domanda-risposta-intervento della Provvidenza”. Il santo affermava, infatti, che bisognava “costringere in qualche modo la divina Provvidenza ad intervenire”.

La spiritualità della Piccola Casa è fondata su tre elementi: “la fede in Dio Padre provvidente; la carità di Cristo come motore dell’esperienza verso i poveri nei quali si riconosce il Suo volto e lo stile di comunione”. I religiosi, infatti “fanno famiglia con le persone accolte. Una parte della Casa dove ci sono gli ospiti è per la comunità religiosa; mangiamo sotto lo stesso tetto lo stesso pane e condividiamo la vita”.

I buoni figli

Tra gli ospiti preferiti del santo Cottolengo ci sono “i buoni figli, così lui chiamava i deboli mentali. Con questa definizione intendiamo una persona con un handicap mentale, un po’ come un invalido fisico a cui manca un braccio. Ai suoi tempi, i deboli mentali erano considerati persone ‘un po’ meno persone’. Ma non sono malati e da noi compiono un percorso di normalizzazione e socializzazione. Vivono in Casa e ogni mattino hanno un’attività organizzata: piscina, terapia, catechesi, laboratorio”.

La grande intuizione del Cottolengo è stata “dare un lavoro a tutti gli ospiti così che ognuno collabora alle necessità della vita quotidiana. Lui diceva che ‘anche i piccoli hanno diritto alla loro piccola dignità’ e il lavoro dà dignità”. “Adesso non capita quasi più – racconta Arice -, ma qui vivono persone con alle spalle sessant’anni di Cottolengo, lasciate dietro la porta dai familiari oppure portate con l’inganno, la promessa di una gita a Torino e poi abbandonate”.

Il primo lavoro è la preghiera

Santi innocenti, S. Giovanni Battista, Angeli custodi, S. Elisabetta: ogni famiglia di ospiti o di religiosi cottolenghini abita in un padiglione che la tradizione della Piccola Casa affida esclusivamente alla protezione dei santi dichiarati tali ufficialmente. Con un’eccezione: “il padiglione Pier Giorgio Frassati – sorride Arice che è un ‘tifoso’ del giovane beato torinese -. Quando la sua famiglia, nel 1933, finanziò la costruzione di un padiglione in sua memoria, le perplessità dei responsabili del Cottolengo furono superate dal card. Gamba, allora arcivescovo di Torino, che affermò ‘se non è santo adesso, lo sarà’. Aveva guardato lontano”.

All’interno della “città” ci sono anche le scuole pubbliche elementari e medie per 210 allievi, un ospedale convenzionato con la Regione Piemonte, una farmacia, un corso di laurea in scienze infermieristiche, un corso di specializzazione in scienze infermieristiche e ginecologia, un master in coordinamento infermieristico, un seminario, case di formazione per i religiosi e le religiose, un dormitorio, una mensa e altri servizi per persone senza fissa dimora cui si collegano due comunità alloggio per minori e donne in difficoltà a Torino e tre comunità terapeutiche per tossicodipendenti nella provincia.

A questo si aggiungono le 80 succursali della Piccola Casa in Svizzera, Stati Uniti, Kenya, India, Ecuador e Tanzania. La famiglia del Cottolengo conta anche sei monasteri di clausura tra l’Italia e l’estero “perché, come ricordava il santo, il primo e fondamentale compito nella Piccola Casa è quello di pregare e di questo si è nutrita la sua fede nella Provvidenza”.

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ZENIT Staff

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