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Qualche premessa sulla ricerca
Quando dalla Cei mi hanno chiesto di immaginare e realizzare una ricerca sui giovani nello scenario digitale, oltre al grande piacere e onore di poter collaborare a un lavoro esplorativo, potenzialmente utile alla comprensione e interpretazione di un aspetto cruciale per la contemporaneità, ho avuto subito due pensieri: il primo, “c’è troppo poco tempo”; il secondo, più in positivo, è stato “sarebbe bello coinvolgere anche i colleghi dell’Università che si occupano di comunicazione, sia nella definizione del disegno della ricerca che nella sua realizzazione” (sapendo che questo, ovviamente, avrebbe dilatato i tempi ulteriormente). Ho comunque deciso di seguire questa strada, e non me ne sono affatto pentita. Mi fa piacere quindi ricordare tutte le persone che hanno contribuito, a livello di ideazione e realizzazione, a questo lavoro. Per la fase di costruzione del quadro di riferimento e di messa a fuoco degli elementi da ricercare attraverso l’indagine empirica sono stati preziosi i contributo di Piermarco Aroldi, Fausto Colombo, Ruggero Eugeni, Silvano Petrosino, Massimo Scaglioni, Nicoletta Vittadini, oltre che del collega e amico Alessandro Zaccuri. Sulla parte empirica della ricerca, e sulla periodica discussione dei risultati via via emersi, sono stati coinvolti i diversi centri di ricerca sulla comunicazione dell’Università Cattolica (Osscom, Certa, Arc, Almed), che hanno messo a disposizione ricercatori e, nel caso di Osscom, strutture.
Mi piace ricordare tutti i nomi dei giovani ricercatori che con grande impegno e capacità hanno svolto la parte empirica della ricerca e collaborato all’interpretazione dei risultati: Simone Carlo, Elisabetta Locatelli, Sara Sampietro, Silvia Tarassi, Matteo Tarantino.
Dopo il “chi” (che è sempre l’aspetto più importante), qualche parola sul “come”.
Considero questa ricerca1 una sorta di “studio pilota”, suscettibile di espansione sia in senso quantitativo (attraverso una survey che restituisca alcune informazioni di sfondo in modo più accurato) che qualitativo (attraverso un’etnografia che renda conto delle pratiche nel loro farsi e nel loro intrecciarsi con le relazioni e le attività quotidiane, auspicabilmente per un periodo di tempo sufficientemente prolungato – almeno un anno – per raggiungere risultati significativi).
Uno studio-pilota che però, nonostante i suoi limiti, ha consentito di raggiungere alcuni importanti risultati. Innanzitutto i limiti. C’è prima di tutto un limite numerico: nonostante l’attenzione a distribuire le interviste su tutto il territorio nazionale, e la cura di mantenere l’intervista di una durata non inferiore ai 60 minuti, con la possibilità di scavare quindi piuttosto in profondità sui temi di nostro interesse, il numero di 50 non consente delle generalizzazioni, ma tutt’al più suggerisce delle tendenze da verificare e delle questioni da approfondire. Va comunque detto che, a supporto delle interviste e proprio per avere uno sfondo più ampio sul quale leggere i nostri risultati, abbiamo pensato di sempificare la traccia dell’intervista trasformandola in un questionario, che abbiamo distribuito a 300 studenti di due diverse università milanesi (ricordo che la fascia di età indagata era quella dai 18 ai 24 anni, e che il campione delle interviste era equamente distribuito tra lavoratori e studenti: quindi almeno per la parte degli studenti, che è quella che frequenta in modo più massiccio e costante il continente digitale, i dati risultano particolarmente attendibili). Va anche aggiunto che gli intervistati, significativamente poco preoccupati della privacy, hanno accettato i ricercatori come amici su FB2, consentendo così qualche incursione digitale utile allo scopo di verificare la congruenza tra dichiarazioni rilasciate nell’intervista e pratiche effettive (che è di fatto emersa anche da questo ulteriore approfondimento sul versante online).
I pregi, spero, emergeranno nel corso di questa esposizione.
Il mio intervento si articola in due parti.
Nella prima, cercherò di dar conto degli aspetti più interessanti emersi dalla nostra indagine, dove l’interesse è legato soprattutto a tre caratteristiche: 1) in grado di “falsificare” alcuni luoghi comuni sullo spazio digitale o sul rapporto tra online e offline; 2) in grado di aggiungere qualche elemento ulteriore rispetto alle recenti ricerche sul tema (penso per esempio all’Ottavo rapporto sulla comunicazione del Censis); 3) in grado di offrire appigli e spunti per un’umanizzazione del continente digitale.
Nella seconda parte, più ridotta, cercherò appunto di evidenziare le “buone notizie” che emergono dall’esplorazione del continente digitale3, o almeno di questa sua significativa porzione, per poter indicare, cosa che era fin dall’inizio tra gli obiettivi della ricerca, gli elementi sui quali innestare un’azione educativa, o a partire dai quali facilitare pratiche di comunicazione autentica, alla luce di quel nuovo umanesimo auspicato da S.S. Benedetto XVI nella Caritas in Veritate, e richiamato da S.E. Mons. Giuliodori nella sua introduzione a questa giornata.
Stare in relazione nel continente digitale: i giovani dai 18 ai 24 anni
Anche qui, una premessa importante:
La cecità di fronte al nostro mondo-ambiente digitalizzato rischia di trasformarci in “idioti tecnologici” secondo la nota espressione di McLuhan, che, per un eccesso di prossimità ai media che plasmano il nostro sensorio, non si rendono conto di quello che fanno. ll continente digitale richiede forme specifiche di adattamento e tende a stabilizzare disposizioni durevoli, basate sul primato della percezione, sulla circolazione di etichette che orientano la valutazione, sulla costruzione di “corpi socializzati” ai modelli di esibizione di sé e riconoscimento sociale, che sollecitano forme imitative. Più che di mutamenti antropologici, si tratta di mutamenti ambientali che richiedono adattamento. Ma adattarsi alla nuove condizioni esperienziali e relazionali non comporta necessariamente un appiattimento: un approccio “ecologico” al mondo digitale, quale quello tentato attraverso la nostra indagine qualitativa, consente di rendere conto delle pratiche comunicative come atti dotati di senso e capaci di produrre senso, dando forma all’ambiente attraverso un adattamento creativo e orientato alla relazione.
Come scriveva McLuhan infatti, “Gli ambienti non sono contenitori, ma processi che mutano completamente il contenuto” (McLuhan 1998, p 21).
E ancora, “Il presente è sempre invisibile perché ambientale. Nessun ambiente è percettibile, semplicemente perché satura l’intero campo dell’attenzione” (1967 (percez 22) 4.
Tra i numerosi aspetti emersi dalla ricerca, e tenendo conto che alcuni saranno approfonditi nelle relazioni che mi seguiranno (come gli usi, le pratiche, e i significati delle diverse piattaforme), ho scelto di soffermarmi qui soprattutto su tre questioni di rilevante significato antropologico: la trasformazione dello spazio; la trasformazione del tempo; le caratteristiche della relazione. Un’ultima precisazione: alla luce dei risultati emersi penso che si possa dire, anche se con cautela, che ci sono buone notizie dal continente digitale; e per una volta, non sono d’accordo con McLuhan, quando affermava “Le cattive notizie rivelano il carattere del cambiamento, le buone notizie no”. Credo che queste buone notizie siano in grado di cogliere alcuni cambiamenti in atto, e possano invece aiutarci a dare forma al nostro abitare il continente digitale.
Oltre la contrapposizione: bassa discontinuità e transitività spaziale nel continente digitale
Un aspetto a mio avviso estremamente importante, che emerge con chiarezza dalla ricerca, è quella che chiamerei una “bassa discontinuità” tra offline
e online, che si configurano come due livelli di un’esperienza unitaria (unificata dal soggetto in relazione) e non come due mondi paralleli, alternativi, in relazione problematica tra loro – uno il surrogato dell’altro, uno ostacolo all’altro etc.).
La discontinuità tra i due livelli dell’esperienza è in realtà estremamente ridotta, mentre prevalgono gli elementi di continuità.
Tale continuità precede addirittura l’utilizzo dei new media, dato che si esprime innanzitutto a livello di quelle che abbiamo definito “precondizioni” d’accesso allo spazio digitale (distinguendo tra precondizioni strutturale e socioculturali); emerge poi, con grande chiarezza, a livello delle pratiche, che mettono in atto forme di transitività bidirezionale tra i due livelli dello spazio di esperienza.
Con precondizioni strutturali intendiamo tutti gli elementi che precedono l’accesso allo spazio digitale, e che definiscono la prospettiva offline del soggetto. Abbiamo distinto in particolare tra status (studenti o lavoratori); territorialità (grande città o piccolo centro) e dotazione tecnologica. A differenza di quanto le retoriche sulla smaterializzazione, democratizzazione e delocalizzazione della rete tendono ad affermare, abbiamo notato una forte incidenza delle variabili strutturali sui tempi e i modi di accesso allo spazio digitale. Per esempio, i giovani lavoratori fanno un uso molto più circoscritto e strumentale dei nuovi media, a differenza degli studenti, che hanno tempi di connessione più lunghi e modalità di presenza più differenziate per livelli di coinvolgimento; così come il fatto di abitare in un piccolo centro rende da un lato più consapevoli a attenti sulla dimensione della privacy, dall’altro rende più stretta la relazione tra offline e online, dato che si ha maggiore occasione di incontrare nella quotidianità le persone con cui si conversa in rete. Il radicamento territoriale è anche molto evidente rispetto ai gruppi amicali, che hanno radici spaziali ben precise e che vengono “importati” nella dimensione online (gli amici del quartiere, o gli amici della palestra, o i compagni di università..). In tutti i casi, esiste una “materialità” dell’esistenza che non solo non viene completamente scavalcata, ma si riflette nelle forme di presenza digitale.
Con precondizioni socioculturali abbiamo invece indicato la varietà e quantità dei consumi culturali offline, e la varietà e composizione delle reti relazionali offline, che abbiamo osservato intrattenere una relazione significativa con le pratiche online.
Anche i processi di costruzione di identità e le modalità di management e manutenzione delle relazioni, come si vedrà meglio in seguito, rivelano una stretta relazione e una continuità tra online e offline, tanto che si può dire che la diffusione pervasiva dei social media (rispetto ai personal media – FB ha superato Google-, ma anche a una prima fase di modelli più “virtualizzati” di relazione online – come Second Life, in nettissimo calo di popolarità) inaugura un modo decisamente “socialmente orientato” di abitare il continente digitale.
Per questo si può evidenziare, come elemento positivo, una continuità tra le dimensioni online e offline: gli spazi della rete non sono luoghi “utopici”, dove proiettare il desiderio di un mondo totalmente altro, ma neppure, per usare l’espressione di Foucault, “eterotopie”, luoghi totalmente discontinui e autonomi dalla dimensione esistenziale concreta. Più che di contrapposizione tra reale e virtuale (come due dimensioni ontologicamente e qualitativamente diverse, quasi incommensurabili, dell’esperienza), si può forse parlare di analogico e digitale (nel senso di “continuo” e “discontinuo”, in quanto richiede la mediazione di un’interfaccia), o, più semplicemente, di online e offline come di due articolazioni dello spazio di esperienza e relazione, unificato dalla soggettività che in esso si muove secondo traiettorie di transitività, di attraversamento dei confini nelle due direzioni, e non secondo rapporti patologici di sostituzione o colonizzazione.
Un nuovo senso del luogo
Già all’inizio degli anni ’90, dalla sua prospettiva antropologica Marc Augé dichiarava: “Abbiamo bisogno di re imparare a pensare lo spazio” (Augé 1993:37). Se l’oggetto dell’antropologia sono “gli spazi significanti (…) gli universi di senso all’interno dei quali gli individui e i gruppi si definiscono in rapporto agli stesi criteri, agli stessi valori e alle stesse procedure di interpretazione” (ivi, 35), allora, oggi, è impossibile escludere lo spazio digitale dagli spazi significanti.
In un contesto caratterizzato da “sovrabbondanza spaziale (mutamenti di scala, accelerazione della mobilità, moltiplicazione dei riferimenti immaginifici e immaginari), i parametri spaziali si ridefiniscono continuamente: non soltanto si riarticola la relazione tra “vicino” e “lontano”, ma anche , come si è visto, quella tra online e offline.
Questo insieme di considerazioni, confermate dai risultati della nostra ricerca, costituisce uno stimolo a ripensare il luogo: alla parziale smaterializzazione (il luogo non è più un “contenitore” stabile di eventi e relazioni; non è più “mappabile” in modo preciso; non ha più una consistenza territoriale e dei confini certi) corrisponde però una sua “umanizzazione”, che lo vede configurarsi come l’intreccio stabile, a geometria variabile, di relazioni nel tempo. Tempo, spazio e relazione sono le variabili che, nel loro intreccio, definiscono la pluralità dei luoghi in cui si iscrivono le pratiche quotidiane, fatte di prossimità relazionali e negoziali (De Certeau 1980).
La dimensione online consente la costituzione di “luoghi antropologici” (relazionali, identitari e storici, secondo la celebre definizione di Augé)5 e, benché non immune dal rischio del non-luogo (la contiguità solitaria, la pluralità senza sintesi, l’autoreferenzialità, una interazione anonima mediata da interfacce testuali, l’accumulo di identità provvisorie…) è orientata da chi la abita decisamente verso la prima possibilità. In particolare, attraverso la stabilità, la costruzione di familiarità, la fiducia come condizione dell’accesso alle cerchie sociali, la manutenzione delle relazioni e l’organizzazione di attività e incontri offline.
Quindi si può dire che tutti gli spazi, sia quelli offline e quelli online, sono reali: cambia la qualità della relazione, occorre un equilibrio nell’articolazione, ed è auspicabile la salvaguardia di entrambe le dimensioni, e della transitività dall’una all’altra: oggi, infatti, una relazione che vive principalmente online è disincarnata e può diventare patologica, ma anche una che si lascia intrappolare nei vincoli dell’offline senza sfruttare le possibilità di prossimità digitale, di condivisione e manutenzione delle familiarità offerta dall’online si impoverisce e inaridisce, come ogni cosa viva che non viene coltivata, e resta schiacciata dagli eccessi di tempo e di spazio che caratterizzano la contemporaneità6.
Oltre il presente assoluto: estasi e cronotopi
Per quanto riguarda le pratiche della comunicazione mediata, oltre alla considerazione sulla contiguità e “bassa discontinuità” degli spazi online e offline, è interessante quanto emerge sulla dimensione del tempo, altra coordinata antropologica fondamentale dell’esperienza. Posto che lo status incide moltissimo sulla struttura del budget temporale (chi lavora, come si è detto, fa un uso molto più contenuto e finalizzato dei nuovi media), complessivamente si possono riconoscere alcuni aspetti interessanti:
un uso consapevole della risorsa temporale: anche se il modello di organizzazione temporale non può essere definito strettamente “monocronico” (orientato all’obiettivo piuttosto che alla relazi
one, scandito in attività in sequenza lineare, una cosa alla volta), con i suoi caratteri di efficienza ma anche di strumentalità e di scarsa considerazione della relazione, non si può nemmeno dire che emerga un modello “policronico”7 puro (orientato alla relazione ma senza capacità organizzativa, caratterizzato dalla sovrapposizione delle attività e da una certa dispersività): piuttosto, si assiste a un’interessante gestione della risorsa temporale, che si configura come consapevole, organizzata, gerarchizzata, orientata alla relazione. Consapevole perché tematizza la rilevanza dei vincoli esterni (orari di lavoro, tempi da dedicare allo studio, tempi in cui l’uso dei new media va limitato o azzerato per consentire lo svolgimento di altre attività) e anche la ricerca di “tattiche di gestione” che consentano il rispetto dei vincoli (come “nella settimana degli esami non si usa FB”); organizzata, perché la giornata feriale, e diversamente il week-end, è modellata su un palinsesto di molteplici attività (dall’incastro di attività lavorative precarie ai diversi impegni sportivi) che richiedono il rispetto dei tempi e la capacità di gestire una complessità notevole di ruoli, attività e relazioni; gerarchizzata perché, anche quando si è online e l’orientamento è multitasking all’interno di un tipo di utilizzo dei new media che abbiamo definito “ambientale”, ci sono diverse gradazioni di coinvolgimento, e, a seconda del momento della giornata e dell’attività principale in corso, lo spazio online passa in primo piano o resta sullo sfondo (per esempio con la modalità “invisibili”, un atteggiamento “monitorante”, per vedere cosa succede senza farsi coinvolgere se non c’è il tempo di farlo), che è una modalità “gestaltica” interessante di articolare lo spazio online e quello offline (dove la rilevanza, e quindi il criterio della valutazione, è stabilita principalmente dall’offline); e infine, orientata alla relazione, poiché tanto nell’online quanto nell’offline, se si esclude la dimensione lavorativa in senso stretto, le attività hanno tutte una forte componente sociale e l’uso dei new media, pur nelle diverse forme che assume, è tendenzialmente relazionale: essi contribuiscono in modo decisivo alla gestione di una complessità crescente, e al mantenimento delle relazioni in un regime di attività molteplici e frenetiche sovrapposizioni (quello che Augé chiama “eccesso di tempo”) che renderebbero altrimenti molto difficile coltivare i rapporti.
Una rilevanza significativa della “durata” come dimensione delle relazioni altamente investite, che si radicano in un passato non necessariamente recente, e quella della “potenzialità” come riserva relazionale non attualizzata e non investita, ma passibile di attivazione nel futuro. Non si verificherebbe quindi quella “mancanza di avvenire” che per molti autori caratterizza la vita sociale contemporanea (Bourdieu 2000:246), con effetti gravemente limitanti sulle dimensioni della responsabilità e della libertà. Il futuro è, in ogni caso, un “futuro breve” (Leccardi), per una serie di condizioni strutturali ineludibili (precarietà, mutevolezza del mercato del lavoro, crisi) oltre che culturali; ciononostante, la dimensione del futuro è tutt’altro che assente, anche se non esplicitamente tematizzata.
In entrambi i casi (il permanere del passato e l’apertura verso il futuro) la dimensione temporale sfugge ai limiti di quel “presente assoluto” che caratterizza la declinazione iperindividualista della soggettività contemporanea (Bauman 2000) e il tempo riacquista pienamente la sua dimensione “estatica”, dove quelle che Ricoeur chiama “le tre estasi del tempo” (passato, presente e futuro) svolgono un ruolo significativo e dove, al di là del presente immediato, il passato e il futuro definiscono rispettivamente un repertorio di esperienza significativa che va custodita e un orizzonte di attesa. Va aggiunto, come nota problematica, il fatto che il passato è considerato soprattutto un ambito che dà spessore e garantisce autenticità al presente, ma meno come un vincolo che prefigura traiettorie preferenziali di comportamento; così, il futuro è visto come un ambito di potenzialità sul quale affacciarsi, possibilmente senza vincoli. Ma questo è un aspetto su cui è possibile avviare una riflessione anche in termini educativi.
Una stretta intersezione tra dimensione spaziale e temporale, che richiama alla memoria l’idea di “cronotopo” usata da Bachktin a proposito del romanzo8 pare utile anche per interpretare gli “account” dei soggetti intervistati.
Secondo Bachtin “Ogni ingresso nella sfera dei significati avviene soltanto attraverso la porta dei cronotopi” ( p. 405). Il cronotopo è infatti un tempo incarnato in un luogo, un concetto fisico prima ancora che letterario o sociologico, che si afferma in polemica con uno spazio e tempo astratti di tipo euclideo, raccogliendo le sollecitazioni della teoria della relatività di Einstein. Il tempo è sempre “embedded”, come già ricordava S. Agostino: non è mai una dimensione astratta, standardizzata, disancorata, secondo il modello spazializzato e meccanico della modernità9. Il continente digiltale, con le possibilità di mantenere una pluralità di livelli in relazione tra loro, consente, più che altri “habitat” che lo hanno preceduto, il superamento dell’astrazione spaziotemporale e anche dell’astrazione meccanizzante dei tempo frammentato. Il cronotopo, usato come chiave interpretativa della nostra analisi, non rappresenta solo una sintesi di spazio e tempo, ma di diversi spazi e diversi tempi (biografici, relazionali e sociali).
Se si mantiene il cronotopo come unità di analisi dell’esperienza e della relazione, è possibile rileggere anche la dimensione dell’evento, che non si caratterizza come unità esperienziale intensa ma puntuale, in una logica di assolutizzazione del presente, dentro un tempo discontinuo a “stagni e pozzanghere”, come lo definiva Bauman, ma come un momento denso che rimanda a un prima e a un dopo, che sintetizza in sé i vari spazi e i vari tempi, contribuendo alla “tessitura” dell’identità e della vita relazionale del soggetto. L’esistenza non si caratterizza quindi per una radicale “evenemenzialità” (nel segno del trionfo della cronaca, dell’autonomia degli eventi, della giustapposizione e collezione che preclude l’intelligibilità): nel cronotopo ogni evento include tutto lo spazio e tutto il tempo, è una sorta di “Aleph” di borgesiana memoria.
Nel cronotopo, inoltre, spazio e tempo hanno sempre una coloritura valutativo-emozionale, poiché sono legati alla dimensione dell’esperienza come vissuto: non sono solo dunque qualcosa che “ci accade” in modo contingente, , così come capita che piova o ci sia il sole, ma qualcosa che ha un legame con la nostra storia, la costruisce e viene valutato in rapporto ad essa.
Dalle interviste realizzate, ci è parso che il tempo fosse radicato (nell’esistenza offline, nelle relazioni), e non disancorato, e, inoltre, esteso e non “istantaneizzato”.
Secondo Bachtin, poi, in letteratuta è possibile cogliere dei “valori cronotopici”, ovvero delle figure in grado di cogliere il cronotopo in tutta a sua pienezza. Per esempio, il cronotopo dell’”incontro”, dove predomina la sfumatura temporale (promessa di futuro) e l’alto grado di intensità valutativo-emozionale (positivo-intenso per la ricchezza e l’apertura delle nuove possibilità10): un cronotipo molto presente nelle nostre interviste, come “potenziale relazionale” attivabile nel tempo (ma anche come suo corrispettivo, il “distacco”, nel caso in cui venga negata l’amicizia, o si elimini qualcuno dai propri contati a seguito di un “raffreddamento” della relazione); “la strada” (il luogo della casuali
tà,della sollecitazione sensoriale e percettiva, anche se di intensità valoriali ed emozionale minore) si configura come possibile luogo di incontro e scontro dei destini diversi, di persone che sono lontane biograficamente ma contigue fisicamente o “comunicativamente” (la “cerchia” relazionale, in uno spazio molto frequentato, funziona da dispositivo di riduzione della casualità o di casualità controllata). La strada diventa anche la metafora del passare del tempo e della progressione personale (“cammino”), e il cronotopo della riduzione della distanza (s) nell’istante (t).
Caratteristico del cronotopo, e della comunicazione nello spazio digitale, è poi l’“Intrecciarsi dello storico e del pubblico-sociale col privato e con l’intimo” (Bachtin 394). La “Soglia” è un altro cronotopo importante e denso dal punto di vista valutativo-emozionale, poiché ha a che fare con la possibilità di accesso (a un mondo, a una nuova cerchia) e quindi con il tema del cambiamento, ma anche con il senso di incertezza (entrare? lasciar entrare?). Nel cronotopo della soglia il tempo è un “momento sospeso”, un intervallo “liminale”11 che può segnare un mutamento (legato al’accettazione in una nuova cerchia relazionale) oppure un’attesa, che può anche trasformarsi in rifiuto.
Il cronotopo è sempre metaforico e simbolico, poiché implica un allargamento dello spazio-tempo, una dilatazione del qui-ora verso le altre estasi del tempo. E’ un centro organizzativo degli eventi, una unità di contesto, un “morfema abitativo”. (397). È il punto in cui si allacciano, sciolgono, alimentano le relazioni.
Rappresenta una materializzazione del tempo nello spazio, una condensazione e concentrazione del tempo della vita e del tempo storico in determinate porzioni di spazio. Si configura quindi come una unità di significato, capace a sua volta di unificare, ma non come un punto chiuso, bensì come un luogo di rimandi ad altri spazi e altri tempi. Svolge quindi una funzione connettiva fondamentale. Il cronotopo è un dispositivo di management della complessità, di gestione degli “eccessi di spazio” e degli “eccessi di tempo”.
Il cronotopo è anche un dispositivo di “mobilità del confine” (delle cerchie, delle stesse piattaforme): identifica infatti un rassicurante “dentro”, una safe zone, rimuovendo il minaccioso e lasciando l’incerto fuori, ma senza rigidità assolute.
Quello che Bachtin afferma a proposito del rapporto tra mondo raffigurante e mondo raffigurato dell’opera letteraria può applicarsi al rapporto on-line/offline: “Per quanto distinti tra loro (…), per quanto immancabile sia la presenza di un confine rigoroso tra di essi, essi sono indissolubilmente legati tra loro e si trovano in un rapporto di costante azione reciproca, simile all’ininterrotto metabolismo tra l’organismo vivente e il mondo che lo circonda” (401).
Oltre ai cronotopi, un ruolo cruciale nel continente digitale è svolto dagli “eventi connettivi” (il passarsi informazioni su un evento, il condividere materiali…).
La “chiacchiera” è un evento connettivo fondamentale nel continente digitale, poiché serve alla manutenzione delle relazioni, e a rafforzare il senso “gratuito” dell’essere-con.
Oltre la connessione: “stay tuned” e identità relazionali
Viviamo in un’epoca di “rimediazione” (Bolter, Grusin), in cui, come già affermava McLuhan, “il contenuto di un medium è sempre un altro medium” e in cui i nuovi media non sostituiscono i vecchi, ma li costringono a riformulare il loro ruolo. Anche la televisione, quindi non scompare, ma si modificano le condizioni della fruizione e il suo significato sociale12.
Come non si evidenzia una netta separazione tra dimensione offline e online dell’esperienza, così le tecnologie non possono essere analizzate separatamente, ma solo nel modo congiunto in cui danno forma, e diversi gradi di spessore e densità, al continente digitale. L’elemento unificante, che consente alle diverse piattaforme di disporsi in modo convergente, è la relazione. Se, come scriveva McLuhan, il medium è il messaggio, si può dire che il messaggio dei social network è la relazione. Dentro questo tratto comune si verificano poi diverse accentuazioni13.
La vera novità degli ultimi anni è l’esplosione dei social network (secondo il Censis, il 67% dei giovani tra i 14 e i 29 anni utilizza FB), il che significa che più che desiderare di abitare mondi virtuali, o di trovare nuovi palcoscenici per l’espressione e l’esibizione di sé, le persone sono interessate a stare in relazione: come si legge nell’ Ottavo rapporto sulla comunicazione, “L’analisi delle motivazioni che hanno spinto gli utenti a iscriversi a FB mostra che tra le ragioni principali non figurano né il desiderio di mettersi in mostra, né la speranza di intrecciare una relazione intima.. Il motivo che con frequenza maggiore viene indicato alla base dell’adesione a FB è la possibilità di mantenere i contatti con gli amici” (p. 144).
E questo ha una serie di implicazioni sulla priorità della presenza in rete (in cui l’altro è sempre tenuto in considerazione), sull’etichetta della partecipazione ai luoghi pubblici online, sull’equilibrio tra l’espressione di sé e l’attenzione al contesto, sulla fiducia nei confronti di chi accede allo spazio comune: implica, in altre parole, una postura relazionale in cui l’individuo non è in assoluto al centro della scena14 (
Venendo ai risultati della nostra ricerca, rispetto alla questione della relazionalità online, si è evidenziata una continuità tra la composizione delle reti sociali offline e quella online: in particolare, si è visto come i modelli caratteristici della relazione offline (unitarie – basate su una cerchia prevalente -, frammentate – costituite da “galassie” relazionali indipendenti, “gruppocentriche” – tenute insieme da un nucleo stabile di soggetti in relazione, o “egocentriche” – tenute insieme dall’individuo) siano in stretta relazione con le pratiche relazionali nel continente digitale.
E se si evidenza per chi vive nei piccoli centri una contiguità tra le due articolazioni dell’offline e dell’online, con una prevalenza della seconda come ambito privilegiato e “ultimo” della relazione, mentre nei grandi centri le relazioni significative sono più massicciamente “trasferite” nell’online, per la difficoltà di gestire numeri generalmente più alti e distanze spaziali più vincolanti, in tutti i casi non emerge il modello relazionale della “sostituzione” o del “surrogato”.
Per quanto riguarda l’uso degli ambienti digitali, abbiamo distinto tra:
Usi principalmente orientati alla relazione, e in particolare: usi relazionali-organizzativi, orientati al management delle relazioni; e all’organizzazione di incontri ed eventi principalmente offline; usi relazionali-referenziali, dove l’accento è sui contenuti di cui si parla; usi relazionali-monitoranti, finalizzati a vedere “cosa fanno gi altri”; usi relazionali-fatici, dove si enfatizza il contatto e la chiacchiera come collante relazionale.
Usi principalmente orientati alla produzione, alla condivisione non focalizzata e al consumo come modalità più “individuali” , in particolare: usi orientati alla performance – produzione e scambio di materiali, orientati alla consultazione – con scopo informativo-conoscitivo, e orientati all’intrattenimento – videogiochi, visione di video divertenti su YouTube.
Gli usi del secondo tipo, pur presenti, risultano meno significativi sia quantitativamente che qualitativamente (come investimento affettivo e temporale).
Scendendo più nel dettaglio nella gestione delle reti di relazione, possiamo evidenziare una serie di elementi interessanti:
Le piattaforme, tendenzialm
ente, definiscono diversi livelli di uno “spazio prossemico” che ha il soggetto in relazione come proprio centro, da cui si allargano cerchie dove l’estensione è inversamente proporzionale all’attaccamento e all’investimento. Distinguiamo quindi una sfera “intima”, un nucleo relazionale stabile e generalmente di vecchia data, che costruisce precipuamente attraverso MSN lo spazio dell’interazione (e/o il cellulare o, in misura minore, Skype), con un interessante slittamento di significato dal radicamento nel passato della piattaforma (quella che si usava quando si era adolescenti) e delle relazioni (quelle più radicate nel passato, gli amici di sempre)15; e cerchie più ampie, generalmente “ancorate” a luoghi offline (gli amici della palestra, i compagni dell’università), delimitate da confini presenti ma non totalmente impermeabili, oppure presenti nella forma meno investita di “riserve di contatti”, in attesa di verifica e breve termine o passibili di attivazione nel futuro. FB è lo spazio delle cerchie più ampie, dove il regime comunicativo è quello della pubblicità e della visibilità. Se MSN è maggiormente deputato al “management in profondità” delle relazioni, FB è il luogo del mantenimento e dell’ampliamento delle cerchie relazionali.
La sicurezza: poiché il mondo di FB è un mondo ad accessibiltà controllata, viene percepito come uno spazio tendenzialmente sicuro e privo di pericoli; gli scrupoli maggiori riguardano piuttosto la salvaguardia della propria privacy (specialmente in chi lavora), evitando di condividere argomenti e informazioni troppo personali16.
La fiducia e l’intersezione tra le cerchie: a parte il contatto MSN e il numero di cellulare, che sono forniti solo alle persone con le quali esiste già un rapporto di fiducia, l’accesso a FB è relativamente controllato, generalmente attraverso due tipi di filtri: se qualcuno “chiede l’amicizia” si può lasciarlo in sospeso, per capire nel frattempo qualcosa in più (soprattutto attraverso osservazione offline), oppure capire se esistono amici in comune: molto tipicamente essere “amici dell’amico” (la forma digitale del passa-parola, o una sorta di “two-step flow” nelle relazioni) costituisce una sorta di garanzia di affidabilità. Quindi se è vero che l’accesso a FB non è indiscriminato e che entra in gioco la questione della fiducia, è anche vero che i criteri di verifica sono piuttosto superficiali e deboli: per accettare un nuovo amico spesso l’unica verifica è la “prima impressione” sulla base della foto; per “importare” un gruppo di amici è sufficiente la “garanzia” di qualcuno che si conosce.
La dimensione relazionale è centrale anche rispetti all’adozione delle tecnologie e delle piattaforme, che spesso seguono un percorso “imitativo”.
Riguardo a questa dimensione relazionale vorrei approfondire soprattutto un aspetto, che mi pare significativo: la costruzione di uno spazio pubblico prevalentemente fatico, caratterizzato dalla centralità dell”essere-con”, e il prevalere di una modalità relazionale più empatica e orientata all’armonia che finalizzata all’esibizione di sé o all’argomentazione (sul modello della sfera pubblica di Habermas): lo spazio digitale è un ambiente dove ci si “accorda” reciprocamente più nel senso della sintonia e del vibrare all’unisono che nel senso di una capacità deliberativa. In questa “musica pratica”, per usare una bella espressione di Barthes, si esprime una socialità in cui, comnque, non si può non tener conto degli altri.
La parola come chiacchiera e la parola come dono
Frasi molto ricorrenti nelle interviste effettuate, del tipo “Ci parliamo, due chiacchiere senza dirci niente, così…” oppure “MSN io lo uso per chiacchierare con i miei amici, parliamo di scemenze, cavolate…” e moltre altre analoghe, dove ci si parla per sentirsi, per rimanere in contatto, rientrano, dal punto dell’analisi linguistica, in quella che Jakobson ha definito “funzione fàtica”, una sorta di uso residuale e marginale della comunicazione usato per verificare che il contatto si attivo, prima ancora che per dire qualche cosa. E’ l’unica funzione che l’essere umano ha in comune con gli animali (che si trasmettono, attraverso l’emissione di segnali, la reciproca presenta) e che caratterizza uno stadio “primitivo” della comunicazione, quale quello dei bambini molto piccoli, che prima ancora di poter pronunciare delle parole atte a comunicare, emettono suoni e vocalizzi in grado di rassicurarli sulla propria capacità espressiva e sulla possibilità di “farsi sentire”, pur senza dire qualcosa di comprensibile. Scrive infatti Jakobson: “Questa accentuazione del contatto può dare luogo a uno scambio sovrabbondante di formule stereotipate, a interi dialoghi, il cui unico scopo è prolungare la comunicazione (…) E’ anche la prima funzione verbale che viene acquisita dai bambini, nei quali la tendenza a comunicare precede la capacità di trasmettere e ricevere un messaggio comunicativo”17. Quella che Jakobson considera una curiosità semipatologica del linguaggio, acquista oggi un ruolo centrale. Con quale significato?
La risposta va ricercata non nella linguistica, ma nell’antropologia. E’ stato Malinowsky18, infatti, a fornire un’interessante interpretazione del ruolo sociale di quella che, significativamente, chiama “comunione fàtica”: non parola come “veicolo di significato”, ma parola come “atto”, come “evento” e come “dono” che crea un luogo comune da abitare insieme. La pragmatica precede la semantica. Infatti “Fàtico deriva dal greco phatikos (da phatizo) che significa ‘affermato’, detto’, ma detto senza prova, irresponsabilmente, come quando si dice qualcosa così, per il puro piacere di dire- Questa comunicazione fine a se stessa, questa glossolalia insignificante, viene posta da Malinowski letteralmente al centro dela vita del villaggio primitivo. Essa risulta centrale non solo perché ha luogo ‘attorno al fuoco di un villaggio’, nei momenti di ozio, quando la comunità si ritrova ‘a godere della compagnia reciproca’. Essa è centrale anche per una ragione etica. Il tipo di azione che si fa chiacchierando di niente (…) è l’azione fondamentale per la costituzione e la ricostituzione della comunità” (Ronchi 2003:41-42)19.
Se è vero che “ogni prassi comunicativa presuppone un tipo di comunità” (Ronchi 2003:5), è anche vero che la prassi comunicativa va valutata sullo sfondo delle più ampie condizioni esistenziali di un gruppo sociale. In un mondo, come lo definisce Augé, di eccesso di spazio, e di eccesso di tempo, dove il rischio dello sfilacciamento del legame sociale è altissimo e dove la moltiplicazione degli spazi e la complessificazione dei tempi rende sempre più difficile l’incontro, la comunione fatica continuamente ritesse il luogo comune e gli dà stabilità, configurandosi come una risposta non individualistica all’angoscia per quella che De Martino chiamava la “labilità della presenza”.
Anche la parola scambiata in rete con funzione fatica possiede questo potere “topogenetico”20, piuttosto che referenziale, capace di creare e stabilizzare un luogo di incontro e convivialità prima ancora che di comunicazione (in senso “semantico”, come condivisione di contenuti). E se è vero che, in grandissima parte, “non si comunica nulla, si comunica “per comunicare’” (Ronchi 2003:39), la verifica del contatto assume una fondamentale funzione di tessitura della trama della quotidianità. La “comunità della rete” si insedia dunque nello spazio pubblico della comunicazione fatica, anziché in quello habermasiano dell’agire comunicativo razionale, e mira a un’intesa fondata sull’armonioso essere-con piuttosto che sul libero e critico consenso, come nella teoria dell’azione comunicativa. Se si possono cogliere gli asp
etti positivi di questa risposta non individuale alle criticità contemporanee, non sfugge tuttavia l’ambivalenza di una condizione che per quanto positiva, non può proporsi come orizzonte ultimo della comunicazione; casomai, come costituzione delle condizioni di possibilità, come premessa forse necessaria, date le condizioni di complessità del nostro ambiente di esperienza, ma certo non sufficiente. La parola allestisce una prossimità, rompe un’estraneità, trasforma lo spazio in un luogo. Non costruisce però ancora un vincolo, un legame (non è parola-logos). E i rischi e le derive sono ben chiari, come riconosce lo stesso Ronchi: “La vuota chiacchiera risponde all’esigenza di fondare una micro comunità occasionale tra estranei che restano estranei. Per questo il bravo conversatore occasionale sa come evitare determinati argomenti che potrebbero produrre divergenze nel momentaneo luogo comune e, se si tratta di fare affermazioni, si attiene prudentemente a quanto pensa la maggioranza (…).La chiacchiera, insomma, ha una sua grammatica” (2003:40).
Se la funzione fatica svolge il ruolo di collante relazionale e di stabilizzatore del luogo dell’interazione (un luogo, come si è visto, sempre meno definito da coordinate spaziali, e sempre più da coordinate relazionali, quindi “a geometria variabile” poiché le cerchie sono mutevoli), è vero che il prevalere di questa funzione nella comunicazione dei giovani ha le sue “grammatiche”. In particolare, a seconda del livello di coinvolgimento che si mette in gioco (che si accompagna spesso alla scelta di una piattaforma piuttosto che un’altra21), si verificano diversi modelli di “costruzione di familiarità”, e alcuni soggetti sono in grado di agire come “costruttori di familiarità”, facilitando la costruzione di “luoghi comuni“ allargati. Il modello prevalente della socialità pare proprio quello della costruzione della familiarità, sia nell’accezione minimale di “riduzione della distanza” (trasformando un contatto occasionale in un “amico”), sia nella forma più investita della “comunione fatica”22.
E l’etichetta dell’essere-con prevede (a differenza delle retoriche dominanti, e anche delle nostre aspettative) la limitazione dell’espressività individuale per non rompere l’equilibrio del gruppo: un orientamento all’armonia che è tipico delle culture collettiviste, e che, unitamente al prevalere della funzione fatica, ci aveva inizialmente fatto pensare, in termini Mcluhaniani, a una sorta di “neotribalismo”, ma che in realtà rivela piuttosto i caratteri di una individualità relazionale, consapevole della presenza degli altri, preoccupata che il luogo intessuto dalla comunicazione resti veramente “comune”. Per questo le appartenenze, quando si verificano, sono estremamente deboli (i vari gruppi vengono fondati su aspetti curiosi, più per fare gruppo attorno a sé e per sentirsi parte con altri di qualcosa che per l’adesione a un principio, a un’idea o a un’iniziativa: è significativo che la stragrande maggioranza degli intervistati non ricorda nemmeno uno dei gruppi a cui è iscritta). L’essere con prevale sul configgere (chi esprime posizioni polemiche viene allontanato; si tende a non toccare questioni che possono generare contrapposizioni e divisioni, come quelle legate alla politica o alla religione. Appare evidente come questo bisogno, che rappresenta certamente un positivo sforzo di superamento de’individualismo radicale, richiede però risposte più alte23. Anche perché la regola implicita di evitare ciò che può generare conflitto, produce, oltre a un dilagare della banalità, anche un effetto “spirale del silenzio”: piurìttosto che affrontare questioni potenzialmente controverse, si eclissano tutta una serie di questioni dal parlare comune.
Costruzione e gestione dell’identità
Sulla presentazione del sé in rete i risultati dell’indagine hanno smontato alcune aspettative legate a un uso “narcisistico”, esibizionista e autoreferenziale o, viceversa, di un nascondimento e di un mascheramento del sé. Intanto, proprio per la forma che il social network assume data la sua finalità relazionale, non ha senso “nascondersi” dietro enigmatici nickname, perché lo scopo è quello di rintracciare ed esser rintracciabili. Inoltre, data la natura pubblica dello spazio di FB, l’eccesso appare inopportuno, pur nella ricerca di una rappresentazione del sé il più gradevole possibile (la foto è il primo “biglietto da visita” e spesso assume un ruolo decisivo rispetto alla fiducia). I profili sono tendenzialmente essenziali e non sono oggetto di investimento particolare: la presentazione di sé è subordinata alla relazione, non è un fine in se stessa.
L’ingresso in FB svolge per molti la funzione di “rito di passaggio” dall’età adolescenziale a quella adulta (e traduce la volontà di avere un maggiore controllo sulla propria identità sociale), o dallo spazio ristretto degli amici intimi a uno spazio pubblico allargato, spesso a seguito di una svolta esistenziale (come l’accesso all’università)24.
D’altra parte, il modo di “stare” su FB è molto legato alle condizioni di vita offline, e per chi lavora o vive in u piccolo centro dove tutti si conoscono c’è maggiore consapevolezza che le azioni on line possono avere dirette ed esplicite conseguenze sulla propria quotidianità off line.
Rispetto alla presentazione del sé on line si possono riconoscere alcune strategie comuni:
– Controllo (soprattutto femminile): esprime il desiderio di controllare in maniera diretta e strategica la propria identità on line, per cui si sceglie e si confeziona con attenzione il materiale da pubblicare; si cerca di dare di sé informazioni chiare, univoche, complete; si monitora. e quando necessario si “censurano” interventi altrui nel proprio profilo
Tale atteggiamento si collega al desiderio di dare di sé un’immagine desiderabile, alla paura di finire vittime di equivoci, di interpretazioni erronee, al timore di creare delle discrasie tra la propria immagine off line e on line
– Marginalizzazione: soprattutto maschile, consiste in una riduzione o trattamento minimalista del “discorso sul sé” nelle pratiche di utilizzo della piattaforma e in particolare ci si limita a toni ludici, ironici; ci si focalizza per lo più su temi, personaggi al centro dei discorsi sociali (per esempio personaggi tv); ci si limita a commentare, “linkare” contenuti prodotti da altri; anche quando il discorso ricade su aspetti della propria vita privata, si tende ad inserirsi in un gruppo, in una precisa cerchia relazionale (gli amici, i compagni di classe, di squadra) piuttosto che esporsi in maniera individuale (si preferiscono, per esempio, le foto di gruppo a quelle personali).
Questo atteggiamento sembra dettato da un lato dalla paura di poter essere giudicato anche in contesti off line (soprattutto nei centri piccoli dove le cerchie relazionali off line e on line tendono a sovrapporsi), dall’altro dal desiderio di non connotare eccessivamente un profilo sociale e/o lavorativo che è ancora in via di definizione
– Omologazione: trasversale a maschi e femmine. Si presta grande attenzione alle azioni, ai comportamenti della maggioranza dei propri contatti per imitarli. In particolare si cerca di comprendere qual è l’etichetta della piattaforma, e si tende a rispettarla; si mostra un atteggiamento allineato, di modo da evitare di essere criticati e giudicati, preferendo il passare inosservati al divenire oggetto di critiche o curiosità eccessiva.
In particolare all’interno di questa modalità si precisano in maniera chiara le linee di una “etichetta” dello spazio virtuale, definendo i “paletti” entro cui si iscrive un comportamento “corretto” attraverso la stigmatizzazione e la critica (spesso anche aspra) di tutti i comportamenti “eccentrici”, o eccessivamente individual
izzati e quindi non condivisibili (per esempio: chi commenta ogni azione della sua giornata, chi parla di cose troppo personali).
La diffusione di questo atteggiamento è interessante perché, come già sottolineato, va nella direzione contraria all’individualismo spinto che caratterizza il mondo sociale contemporaneo ( e che forse appartiene più alla generazione degli adulti, dei loro genitori) e rilegge in chiave “digitale” il tema del monitoraggio reciproco, del “controllo sociale”, della capacità del gruppo di disciplinarsi privilegiando l’armonia e l’equilibrio complessivo piuttosto che l’espressività individuale, confermando l’ipotesi di una “individualità relazionale” piuttosto che “narcisista”.
2) Per un nuovo umanesimo del continente digitale
Nella realizzazione della nostra ricerca ci ha guidato, certamente, un interesse “scientifico”: capire cosa sta succedendo nell’ambiente mediatizzato, quali sono le forme di adattamento e modellamento che stanno prendendo forma nel modo digitale. Ma la motivazione che ci guida non è distaccata e neutrale, bensì partecipe e coinvolta, e la finalità non è puramente esplorativa, ma antropologica nel senso più profondo: quali sono, nel nuovo contesto sempre in divenire, le condizioni per un nuovo umanesimo, per azioni, relazioni e pratiche che siano capaci di accrescere la nostra umanità, che promuovano la persona nella sua integrità, che lascino aperto quello spazio della trascendenza senza il quale l’umanesimo diventa disumano25.
Dalla nostra indagine emergono alcuni aspetti che, pur conservando una certa ambivalenza, rappresentano un correttivo rispetto alle derive antiumanistiche della cultura contemporanea (l’individualismo spinto, l’implosione nel presente assoluto, il rifiuto del vincolo e della durata) e aprono delle prospettive nelle quali un umanesimo attento alla totalità della persona può trovare spazio. I possibili correttivi scaturiscono da due fonti: quella dello studioso, che analizzando la situazione e le dinamiche in corso, può identificare aree di criticità e opportunità di promozione umana; ma, siamo contenti di poterlo dire, anche dalle pratiche di frequentazione del continente digitale da parte degli stesi “attori” che, pur con diversi gradi di consapevolezza, “rispondono” alle ovvietà culturali ormai divenute normative con comportamenti che, a livello della prassi, mettono in campo un primo abbozzo di critica costruttiva attraverso un agire non allineato agli imperativi della contemporaneità.
Dal punto di vista del nostro ruolo di scienziati sociali, possiamo affermare in conclusione che la ricerca ci ha consentito sia di superare alcune dicotomie che impedivano di cogliere le dinamiche in atto, sia di ridefinire alcuni concetti fondamentali per le scienze sociali in termini nuovi, più relazionali e dunque più compatibili con una “nuova sintesi umanistica”.
Tra le dicotomie che risultano a nostro avviso ormai inutili, quando non fuorvianti, per interpretare la dimensione relazionale in rete possiamo includere individuale/collettivo, pubblico/privato, particolare/universale. In luogo di una contrapposizione (che rende sempre difficile la composizione senza cadere in una qualche forma di determinismo), abbiamo potuto rilevare una disposizione relazionale dei soggetti nell’ambiente digitale (un ambiente tessuto narrativamente e attraverso una comunicazione “fatica”, quindi intrinsecamente intersoggettivo), una sorta di “intersoggettività pratica” che definisce la modalità di presenza in rete: né individuo né tribù, quindi, ma cerchie che si intersecano, gradazioni di prossimità in un ambiente strutturalmente relazionale, dove essere significa essere-con. In questo quadro, le dimensioni del pubblico e del privato non sono contrapposte, ma rappresentano un continuum in divenire, a seconda dei gradi di prossimità e del trasformarsi delle relazioni (stabilizzazione, management in profondità, raffreddamento relazionale…). Poiché nell’universo del web è fondamentale il coinvolgimento personale, in un certo senso tutto è “particolare”, ma le pratiche di condivisione, il monitoraggio reciproco, il sintonizzarsi anche non esplicitamente su un’etichetta della relazione online compongono una costellazione di regole che vanno ben al di là del comportamento del singolo o della contingenza della comunicazione.
Tra i concetti che i risultati della ricerca ci hanno costretto a ridefinire ci sono certamente quelli di spazio e di tempo. Il primo perde tutta l’astrazione euclidea che già McLuhan aveva contestato, per radicarsi nella relazionalità: proprio perché non si definisce come un supporto o un contenitore “dato”, va continuamente alimentato, ritessuto, riconosciuto. L’espressione della filosofa Sheila Benhabib, “viviamo in reti di interlocuzioni e di storie”26 appare oggi particolarmente appropriata. Come abbiamo notato27 la prevalenza della dimensione narrativa e di quella fatica è assolutamente evidente, e questa prevalenza rappresenta una risposta – e quindi una critica implicita – allo sfilacciamento delle relazioni, all’erosione del capitale sociale28, alla frammentazione e all’individualismo ma anche alla contrapposizione tra online e offline, la cui discontinuità è suturata, appunto, dalla coralità della narrazione e dalla transitività che le pratiche relazionali consentono.
Dalla centralità dell’azione individuale, che rende difficile arrivare alla composizione, abbiamo spostato quindi l’attenzione alla tessitura di spazi per l’interazione, e ai diversi livelli di coinvolgimento che essi richiedono. L’unità di analisi è quindi la persona nei suoi molteplici coinvolgimenti e i con i diversi gradi d’impegno messi in gioco 29. La dimensione pragmatica acquista quindi preminenza rispetto alla semantica dell’azione. Il problema non è quindi analizzare chi sono i soggetti, com’è l’ambiente e come si comportano i soggetti nell’ambiente, ma quali pratiche dei soggetti in relazione (con gli altri, con l’ambiente che attraverso le relazioni prende forma) configurano un universo comune e abitabile, dove “abitare” è il modo propriamente umano di esistere nel mondo30.
Anche rispetto al tempo, come si è visto, è necessario un ripensamento e un re-embedding nelle pratiche, capaci di gestire la “complessità degli eccessi” attraverso figure spazio-temporali che organizzano, danno stabilità e visibilità al proprio universo relazionale. Come si è visto, possiamo identificare, nelle pratiche, dei “cronotopi” che legano spazio, tempo e relazione, superando la frammentazione degli spazio e l’implosione del tempo nell’istante 31 e riaprendo l’arco delle tre “estasi” del tempo.
Il focalizzarsi sui regimi di impegno nel mondo condiviso, e sulle grammatiche della prossimità che questo comporta, ci ha consentito di rileggere altri termini chiave dell’analisi sociale, come quello di “autonomia”: crediamo che alla luce di un nuovo umanesimo l’idea liberista di autonomia come libertà dai vincoli vada ripensata, e che la ricerca offra, seppure in embrione, gli elementi per pensare a un’autonomia in chiave intersoggettiva e relazionale, come capacità di esercitare libertà e responsabilità precisamente dentro i vincoli (relazionali e ambientali) che caratterizzano l’abitare: l’attenzione agli altri (sia nell’evitare eccessi nella presentazione di sé, sia nel rifuggire argomenti potenzialmente conflittuali, sia semplicemente nel posizionarsi rispetto a un mondo che si trova già organizzato dalle relazioni preesistenti, solo per fare qualche esempio, evidenziano una consapevolezza relazionale ed ecologica, oltre che consentire al mondo comune, attraverso i reciproci aggiustamenti continui e gli sforzi di sintonizzazione, di restare perennemente in divenire. Come scrive Irigaray ““[La libertà] è, in ogni istante, costretta a ri-definirsi o modularsi in funzione degli enti o esistenti, umani o n
on, che la circondano. Non deve, nondimeno, rinunciare al suo impulso proprio, ma scoprirgli un’economia compatibile con quella dell’altro (…) La libertà deve , in ogni momento, limitare la sua espansione per rispettare gli altri esistenti e, ancor più, trovare il modo di formare con loro un mondo sempre in divenire” (Irigaray 2009: 16). E ancora: “La prossimità all’altro, si scopre nella possibilità di elaborare con lui, o lei, un mondo comune che non distrugga il mondo proprio a ciascuno. Questo mondo comune è sempre in divenire” (Ivi, 27).
L’autonomia, dunque, non solo non è incompatibile con i vincoli della relazione, ma non può esprimersi al di fuori di essa; di più, non può esprimersi fuori della costruzione relazionale di un mondo comune.
Se la comunicazione “fatica”, così abbondantemente presente nelle modalità di abitare la rete, può sembrare a prima vista un chiacchiericcio fine a se stesso, un accessibile e poco impegnativo riempitivo del vuoto esistenziale (e occorre vigilare perché non si riduca a questo, che è un rischio sempre presente), guardata più da vicino può svolgere la funzione di “manutenzione del luogo comune”, preliminare alla costruzione di una comunanza più consapevole, o addirittura di una prossimità32.
Le pratiche che abbiamo potuto ricostruire a partire dalla prospettiva scelta ci hanno confermato l’importanza della dimensione del “comune” sul “proprio”33. Più in particolare, ci hanno consentito di identificare, a partire dall’intensità di coinvolgimento e dalle loro gradazioni34, diversi regimi di spazio-temporalità, diversamente investiti dal punto di vista emotivo-valutativo e collegati a diverse grammatiche comunicative (per esempio nascondimento-disvelamento, tipo di accessibilità etc.). In particolare penso si possano distinguere tre regimi di impegno e intensità relazionale-esperienziale, che definirei prossimo (o intimo), comune e pubblico. Mi pare che la dimensione della “commonality” sia particolarmente rilevante perché, anche s e si esprime attraverso forme “leggere” e prevalentemente ludiche come appartenenze deboli a gruppi o delimitazione flessibile di cerchie relazionali stabili ma implementabili, esprime un bisogno di superamento dell’atomizzazione sociale, e mette in campo risorse, ancorché limitate, per rispondervi.
Naturalmente fin qui si sono evidenziate soprattutto le opportunità, e le possibili premesse, per lo sviluppo di un nuovo umanesimo digitale. I rischi non mancano, e ne elenco solo qualcuno: il rischio della banalità (nel linguaggio, nei contenuti, che rischia di rendere “povero” il luogo comune che si costruisce insieme, tanto povero da impedire, anziché agevolare, l’incontro35; il rischio che la dimensione della nostalgia, molto presente sia in riferimento alle relazioni, che alle tecnologie come marcatori di una fase rimpianta del sé, finisca con l’assumere una funzione regressiva e consolatoria, facendo nuovamente implodere le tre dimensioni del tempo, anziché nel presente assoluto, in una mitica età dell’oro36; una certo sbilanciamento della relazione sulla dimensione della philìa, dell’affinità con il simile, che potrebbe limitare le potenzialità di costruzione di prossimità nell’ambiente digitale, e impoverire la comunicazione lasciando ai margini ciò che più propriamente la costituisce, ovvero il rapporto con l’alterità (e, auspicabilmente, anche con l’Alterità con la A maiuscola, almeno come orizzonte di possibilità: senza di essa, infatti, è difficile fondare una fraternità con chi è totalmente “altro”). Quella alterità che sola, come scrive Lévinas, inaugura la possibilità di prossimità e di fratellanza: “L’alterità che infinitamente obbliga fende il tempo con un intervallo – un frattempo – insuperabile: l’”uno” è per l’altro di un essere che si dis-tacca, senza fare di sé il contemporaneo dell’altro, senza potersi mettere accanto a lui in una sintesi esponibile come un tema; l’uno-per-l’altro, in quanto l’uno-guardiano-di-suo-fratello, in quanto l’uno-responsabile-dell’altro. Tra l’uno che io sono e l’altro di cui rispondo, che è anche la non-indifferenza della responsabilità, significanza del significato, irriducibile a un sistema qualsiasi, si spalanca una differenza senza fondo. Non-in-differenza che è la prossimità stessa del prossimo, nella quale soltanto si delinea uno sfondo di comunanza tra l’uno e l’altro, l’unità del genere umano, tributaria alla fratellanza degli uomini. (Lévinas 2009: 24).
Tuttavia, a fronte di queste ambivalenze, ci pare di poter affermare che i presupposti per un nuovo umanesimo sono più favorevoli rispetto alla cultura di cui è portatrice la generazione degli adulti.
Se è vero che il risultato più significativo della nostra ricerca è stata la centralità della dimensione relazionale ( e la sua capacità di operare una serie di ricomposizioni, prima fra tutte quella tra online e offline) , questo rappresenta una buona notizia: come scrive Benedetto XVI, infatti “La rivelazione cristiana sull’unità del genere umano presuppone un’interpretazione metafisica dell’humanum in cui la relazionalità è un elemento essenziale” (CV 55).
Come è sempre stato, ma oggi più che mai, sono allora i giovani la speranza per un futuro più umano:
“Giovane sta a indicare il sovrappiù del senso rispetto all’essere che lo regge (…) La giovinezza è autenticità. Giovinezza però definita dalla sincerità, che non è la brutalità della confessione, né la violenza dell’atto, ma è il farsi incontro agli altri, farsi carico del prossimo, sincerità che nasce dalla vulnerabilità umana. Capace di ritrovare le responsabilità sotto la spessa coltre delle letterature che ce ne assolvono, la gioventù (…) cessa di essere l’età della transizione e del passaggio, per rivelarsi l’umanità dell’uomo” (Lévinas 2009: 156).
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1) Ricordo che la ricerca è basata su 50 interviste telefoniche semistrutturate, della durata di 60-75 minuti, somministrate a un campione di 50 ragazzi (25 maschi e 25 femmine) tra i 18 i 24 anni, su tutto il territorio nazionale, equamente ripartiti tra studenti e lavoratori, abitanti i piccoli centri e grandi città.
2) D’ora in avanti si utilizzeranno le seguenti abbreviazioni: Facebook = FB; Messenger = MSN.
3) Non potendo riferire qui in modo esaustivo su tutti gli aspetti della ricerca, rimando in ogni caso al sito di Testimoni Digitali, dove è possibile trovare una nota metodologica, i file audio delle interviste, la codifica delle interviste secondo una griglia focalizzata sugli aspetti di interesse della ricerca e il rapporto di ricerca completo. Ricordo inoltre che le relazioni dei giovani ricercatori che mi seguiranno, e che saranno parimenti a disposizione sul sito, offrono ulteriori approfondimenti rispetto a importanti aspetti emersi.
4) Mi pare moto pertinente a questo riguardo quanto affermava Bourdieu a proposito della coincidenza tra “habitus” e “habitat”, tra le disposizioni e le consuetudini che sviluppiamo in relazione all’ambiente e il nostro senso di essere “a casa propria”: “Il fascino indiscutibile delle società stabili e poco dfiferenziate, luoghi per eccellenza, secondo Hegel, della libertà concreta come ‘essere-a-casa-propria in ciò che è, trova la sua origine e il suo fondamento nella coincidenza quasi perfetta tra habitus e habitat, per esempio tra gli schemi della visione miitica del mondo e la struttura dello spazio domestico, organizzato secondo le stesse opposizioni” (Bourdieu, 2000:155).
5) M. Augé, Non-luoghi, Milano, Eleuthera, 1983.
6) Inoltre, le modalità online e offline della relazione, ed eventualmente il prevalere della componente affettivo-relazionale su quella funzionale-strumentale non sono sempre nettamente separabili: mentre ci si trova onli
ne per organizzare un incontro offline, per esempio, si compie un’azione strumentale che nel contempo cementa la relazione e sottolinea la “transitività” (come attraversabilità nei due sensi, passaggio reversibile) tra i due livelli dell’esperienza, mentre quando si commentano online eventi o incontri offline si usa l’esperienza faccia a faccia per nutrire e animare lo spazio digitale.
7) “Monocronico” e “policronico” sono due modelli di organizzazione temporale identificati dall’antropologo E.T. Hall nella sua analisi cross-culturale: il modello monocronico è più tipico delle società occidentali e dei mondi industrializzati, dove prevale l’individualismo; quello policronico delle culture orientali o latine e dei mondi più “tribali”, dove prevale il collettivismo. Per una trattazione più approfondita mi permetto di rimandare a C. Giaccardi, Comunicazione interculturale, Bologna, Il Mulino, 2006, cap. 2.
8) M. Bachkin, L’estetica del Romanzo, Torino, Einaudi. Il cronotopo è in realtà un concetto di derivazione fisica, che utilizza un approccio quadridimensionale, dove alle tre classiche dimensioni altezza, lunghezza, profondità si aggiunge quella del tempo. Il cronotopo, nella fisica di Einstein, è l’unità di misura dello spazio-tempo definito dalle 4 dimensioni.
9) L. Mumford in Tecnica e cultura scriveva che gli orologi sono macchine per produrre ore, minuti e secondi, una celebre definizione ripresa poi anche da McLuhan in Gli strumenti del comunicare.
10) E’ l’atteggiamento che Augé definisce “lo splendore dei ricominciamenti”, in M. Augé, La memoria e l’oblio,
11) Ricordiamo che nello schema dei “riti di passaggio”, quelli che segnano il cambiamento irreversibile di status nel mondo sociale la fase liminale è la più delicata, perché il soggetto vive un momento di separazione dalla sua condizione abituale, ma non è ancora “riaggregato” a un nuovo ordine di riferimento (cfr. A. van Gennep, I riti di passaggio,Torino, Bollati Boringhieri e V. Turner, Dal rito al teatro, Boogna, Il Mulino).
12) Per questo aspetto rimando all’interevento di Massimo Scaglioni.
13) Su questo si veda l’intervento di Matteo Tarantino.
14) Si riconosce infatti una differenza di postura tra gli adulti, tendenzialmente iperindividualisti e giovani, molto più socio-oriented. Come riporta la ricerca del Censis (2009), con il web 2.0 i giovani usano la rete per fare rete.
15) Su questo aspetto scenderà in maggiori dettagli l’intervento di Matteo Tarantino.
16) Come si è detto, l’attenzione per la privacy è comunque generalmente molto più bassa di come ci saremmo aspettati, soprattutto per chi vive nei grandi centri urbani.
17) R. Jakobson, Poetica e linguistica, 1958, cit. in R. Ronchi, Teoria critica della comunicazione, Milano, Bruno Mondadori, 2003, p. 38.
18) B. Malinowski, “Il problema del significato nei linguaggi primitivi” (1923), in C.K. Odgen, I.A. Richards, Il significato del significato, Milano, Il Saggiatore, 1966, cit. in Ronchi 2003.
19) Le parole di Malinowski a riguardo sono estremamente significative: “La rottura del silenzio, la comunione delle parole il primo atto per stabilire quei vincoli di amicizia che si consolidano durevolmente solo con la rottura del pane e con la condivisione del cibo” (1923, p. 354, cit. in Ronchi 2003:42).
20) L’espressione è di Ivan Illich, che però la riferisce esclusivamente alla parola pronunciata, o anche al suono (come quello della campana della chiesa).
21) Si veda a riguardo l’intervento di MatteoTarantino.
22) Lo stesso modello di costruzione di familiarità si verifica anche rispetto ai personaggi mediali, in particolare attraverso il fenomeno del fandom, che collega l’uso dei vecchi e dei nuovi media (si veda a riguardo l’intervento di Massimo Scaglioni).
23) La bassa normatività, e un essere-con fondato più sulla dimensione ludico-relazioanle piuttosto che valoriale, ci hanno fatto abbandonare l’ipotesi di un “neotribalismo”: piuttosto, si verifica un forte investimento personale nel “luogo comune”, senza percepire una contraddizione tra questi due livelli, ma anzi fondando sul secondo la “autenticità” del primo.
24) Su questi aspetti scenderà in maggiori dettagli l’intervento di Simone Carlo.
25) Caritas in Veritate 11: “L’autentico sviluppo dell’uomo riguarda unitariamente la totalità della persona in ogni sua dimensione (…) Un tale sviluppo richiede, inoltre, una visione trascendente della persona, ha bisogno di Dio: senza di Lui lo sviluppo o viene negato, o viene affidato unicamente alle mani dell’uomo, che cade nella presunzione dell’auto-salvezza e finisce per promuovere uno sviluppo disumanizzato”
26) S. Benhabib, The claims of culture,
27) E questo si riflette anche nei consumi culturali, cfr. l’ intervento di Scaglioni.
28) Al n. 32 della CV si parla appunto di “progressiva erosione del ‘capitale sociale’, ossia quell’insieme di relazioni di fiducia, di affidabilità, di rispetto delle regole, indispensabili a ogni convivenza civile”.
29) Ci atteniamo qui alla definizione di Impegno (engagement) proposta da Laurent Thevenot, come “rapporto a un mondo attualizzato dalla persona (Thevenot 2006: 238).
30) Come scrive Ivan Illich “In numerose lingue, ‘vivere’ è sinonimo di abitare. Chiedere ‘dove vivi?’ significa chiedere qual è il luogo dove la tua esistenza quotidiana forma il mondo. Dimmi come abiti e ti dirò chi sei. Questa equazione di abitare e vivere risale a tempi in cui il mondo era ancora abitabile e gli esseri umani erano abitanti. Abitare allora significava essere presenti nelle proprie tracce, lasciare che la vita quotidiana iscrivesse la rama della propria biografia nel paesaggio” (Illich 1992: 53), enfasi mia.
31) Uno dei cronotopi individuati è quelo di “soglia”, sulle cui implicazioni relazionali vorrei riferire le parole di Luce Irigaray: ““Più che di traiettorie intersecantesi all’infinito (…) sarebbe meglio parlare della costruzione di aperture deliberatamente allestite per l’accesso all’altro – di soglie, dunque” (…) Costruire simili aperture, richiede attività, ma anche passività: un’economia poco nota nella nostra tradizione occidentale, che l’incontro con l’altro ci costringe a scoprire, a coltivare. (…) Fidarci dell’apporto che la sua alterità ci fornirà, accettare di ricevere fino aesseren modificati, senza però rinunciare a noi stessi, ecco ciò a cui la soglia deve darci accesso. Aprendoci all’ospitalità grazie a un lavoro di appropriamento a noi stessi di raccoglimento in noi” (Irigaray 2009: 27-28).
32) Come scrive anche Irigaray: “La prossimità all’altro non può ridursi alla condivisione di un territorio, a una vicinanza spaziale. L’altro come altro ci resta lontano, qualunque sia la vicinanza dove ci collochiamo. Ed è nella misura in cui riconosceremo di essere lontani l’un l’altro che potremo cominciare ad avvicinarci” (Irigaray 2009: ).
33) Che, lo ripeto, sono due modalità diverse rispetto a individuale e collettivo, poiché entrambe hanno una forte componente relazionale e si collocano in una temporalità diacronica, nella dimensione del durare, del permanere.
34) Che tendono a corrispondere anche all’utilizzo di certe piattaforme, o di certe applicazioni all’interno delle diverse piattaforme, cfr. intervento di Tarantino.
35) Anche su questo aspetto mi sembrano pertinenti alcune osservazioni di Irigaray: “Nessuna parola raggiungerà il ritmo, o meglio la melodia, che consente l’approc
cio dell’altro se essa proviene da un discorso già esistente. Rischia anche di perdere ogni significato e di diventare una culla non di vita, di crescita e di amore, ma solo di illusioni e sortilegi. In ogni momento, la parola deve articolare, per ciascuno e in ciascuno, quanto ha di terrestre e di celeste, di umano e di divino.”(Irigaray 2009:31). E ancora, è opportuno tenere presente il rischio di restare prigionieri di “un cerchio già definito del discorso in cui ciascuno di noi deve prendere posto (…) Se non riusciamo a liberarcene, l’incontro con l’altro in quanto altro ci resta inaccessibili. Non possiamo farne esperienza.I luoghi dell’incontro, in origine possibili, non esistono più. Certo, possiamo chiacchierare entro un orizzonte determinato dal medesimo” (Ivi, 34).
36) D’altra parte, la nostalgia può avere una funzione positiva, se serve a mantenere vivo il ricordo “caldo” di ciò che appartiene al passato ma entra nella costituzione del nostro sé presente; se ci aiuta, in altre parole, a permanere in quella “fedeltà a noi stessi”, pur nel cambiamento, senza la quale anche la relazione con l’altro non è più possibile: come scrive Irigaray, infatti, “Prima di cominciare ad avvicinare l’altro conviene interrogarsi su sé e sul soggiorno dove si abita. Importa scoprire a quale fedeltà ci atteniamo rispetto a quanto ci è proprio. E sarà spesso necessario rifare il cammino per interrogare ciò dove già ci situiamo. Se non stiamo laddove dovremmo essere (…) non siamo preparati a un incontro con l’altro” (Irigaray 2009: 27).