Le Costituzioni Quo Primum di san Pio V e Missale Romanum di Paolo VI

Rubrica di teologia liturgica a cura di don Mauro Gagliardi

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ROMA, mercoledì, 21 aprile 2010 (ZENIT.org).- L’articolo di oggi mette a confronto le Costituzioni apostoliche con le quali san Pio V e Paolo VI (nel 1570 e nel 1969) pubblicarono le edizioni del Messale Romano preparate durante i rispettivi pontificati. Dalla breve analisi proposta, si ricava l’impressione che, così come esiste un unico Rito Romano in due forme non opposte tra loro (cf. Benedetto XVI, Summorum Pontificum), allo stesso modo bisogna parlare di due edizioni di un unico libro, entrambe espressive della tradizione liturgica latina. L’Autore dell’articolo studia Diritto Canonico presso la Pontificia Università Gregoriana ed è alunno dell’Almo Collegio Capranica (don Mauro Gagliardi).

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Don Natale Scarpitta

La rubrica «Spirito della Liturgia» si sta soffermando diffusamente lungo quest’anno sulla peculiare indole eucaristica del sacerdozio ministeriale. In questo contributo, desideriamo focalizzare l’attenzione su un elemento importante che permette al presbitero di celebrare debitamente il memoriale del Sacrificio di Cristo: il Messale Romano, il libro liturgico che contiene i testi eucologici del rito della Santa Messa secondo la tradizione liturgica latino-romana.

L’Ordinamento Generale del Messale Romano al n. 399 afferma: «… il Messale Romano, anche nella diversità delle lingue e in una certa varietà di consuetudini, si deve conservare per il futuro come strumento e segno eccellente di integrità e di unità del Rito Romano». Tale auspicio contiene in sé una consapevolezza maturata nella tradizione liturgica della Chiesa già nei secoli precedenti. Fu, infatti, san Pio V (1566-1572) che, con la Costituzione Apostolica Quo Primum (14 luglio 1570), promulgò il Messale Romano offrendolo a tutti i cristiani «come strumento di unità liturgica e insigne monumento del culto genuino e religioso nella Chiesa»[1].

Al fine di comprendere meno superficialmente la rilevanza di tale avvenimento, può risultare opportuno un breve riferimento che inquadri storicamente la Bolla di san Pio V. Prima del Concilio di Trento, esistevano nella Chiesa latina innumerevoli libri liturgici che, osservando consuetudini liturgiche locali (territoriali) e particolari (ordini religiosi, confraternite, ecc.), presentavano un’ampia molteplicità di forme rituali della Celebrazione eucaristica. Essi, pur conservando la medesima struttura celebrativa, differivano per una non identica disposizione consequenziale delle parti della Messa, per l’uso di formulari e preghiere tipiche, per invocazioni a santi specifici, per l’aggiunta inopportuna di elementi aventi non raramente un carattere superstizioso o addirittura eterodosso.

Alla già non perfetta uniformità rituale del culto liturgico nella Chiesa latina e alla precarietà di uno stile celebrativo non ancora ben definito, si aggiungevano pure le sempre più diffuse contaminazioni liturgiche provenienti dalla teologia protestante[2].

In un contesto storico simile, per purificare il rito della Celebrazione eucaristica da elementi impropri, e nel tentativo di promuovere una maggiore unità tra i fedeli mediante l’unificazione rituale, i padri del Concilio di Trento, nella XXV sessione, stabilirono che fosse redatto un nuovo messale[3]. A tal fine fu costituita una commissione di esperti i quali consultarono diligentemente i codici presenti nella Biblioteca Vaticana e le edizioni correnti del messale[4], raccolsero e studiarono antichi libri provenienti da varie chiese locali e considerarono gli scritti dei Padri della Chiesa.

Una volta completato il lavoro, l’opera[5] fu sottoposta a san Pio V, il quale stabilì immediatamente che il nuovo Messale entrasse in vigore e sostituisse obbligatoriamente tutti quei libri liturgici che erano stati precedentemente utilizzati nelle comunità di rito latino. La netta determinazione con la quale il Pontefice espresse la sua volontà possiamo facilmente dedurla dalle solenni espressioni che Egli stesso utilizzò nella Quo Primum:

«[…] I sacerdoti comprendano di quali preghiere, di qui innanzi, dovranno servirsi nella celebrazione della Messa, quali riti e cerimonie osservare. […] Ordiniamo che nelle chiese di tutte le Provincie dell’orbe cristiano […] dove a norma di diritto o per consuetudine si celebra secondo il rito della Chiesa Romana, in avvenire e senza limiti di tempo, la Messa […] non potrà essere cantata o recitata in altro modo da quello prescritto dall’ordinamento del Messale da Noi pubblicato».

Nella stessa Costituzione Pio V ordinò anche che gli ecclesiastici

«in avvenire abbandonino del tutto e completamente rigettino tutti gli altri ordinamenti e riti, senza alcuna eccezione, contenuti negli altri messali, per quanto antichi essi siano e finora soliti ad essere usati, e cantino e leggano la Messa secondo il rito, la forma e la norma, che Noi abbiamo prescritto nel presente Messale; e, pertanto, non abbiano l’audacia di aggiungere altre cerimonie o recitare altre preghiere che quelle contenute in questo Messale».

Va tuttavia notato che il Missale Romanum fu introdotto obbligatoriamente dovunque ad eccezione delle diocesi e degli ordini religiosi che avevano un rito proprio da almeno duecento anni. Era questo il caso del rito mozarabico di Toledo, del rito di Braga, di quello di Lione e del rito ambrosiano di Milano; ma anche delle tradizioni liturgiche di ordini religiosi quali i certosini, i cistercensi, i domenicani e i carmelitani.

Se la prima editio typica del Messale Romano post-tridentino nacque per attuare i decreti di quel concilio ecumenico, quattro secoli più tardi[6], in ossequio alla richiesta di riforma liturgica fatta dal concilio Vaticano II, venne alla luce il Novus Ordo Missae.

I padri conciliari, nel solco del movimento liturgico, fissarono, infatti, alcuni principi generali che avrebbero dovuto portare ad una revisione dei libri liturgici. L’obiettivo primario che si prefissero era quello di una liturgia che fosse maggiormente comprensibile, mediante l’uso di un linguaggio rituale (simboli, gesti, parole) che potesse favorire l’actuosa participatio dei fedeli. Una prima riforma del Messale Romano vide la luce nel 1964-1965, quando fu pubblicata una versione bilingue del rito riformato della Messa. Non ci soffermiamo ora ad analizzare le possibili ragioni per cui tale Messale sia stato ritenuto non pienamente attuativo della volontà espressa dai padri del Vaticano II e sia perciò stato ritenuto necessario approntare un’ulteriore riforma del Messale.

E così, il 3 aprile 1969, nella Costituzione Apostolica Missale Romanum, Paolo VI presentò la nuova composizione dell’editio typica del Messale Romano, evidenziandone ciò che era stato rivisto e modificato rispetto all’ultima edizione (1962) del Vetus Ordo (o Usus antiquior) di san Pio V.

Un semplice confronto tra le due Costituzioni permette di notare come ambedue siano scaturite dalla volontà rinnovatrice dei Concili che avevano preceduto la loro redazione. Ambedue, quindi, sono il frutto di due contesti storico-ecclesiali in fermento: la Controriforma, da una parte, e il movimento liturgico dall’altra.

Comune ai due atti pontifici è stato anche il riferimento espresso alla volontà che i riti liturgici attingessero alla medesima fonte dell’antica tradizione dei santi Padri[7]. Tale elemento acquista un significato profondo se si pensa come la medesima traditio abbia inciso profondamente sulla composizione delle due edizioni del Messale Romano.

È ora comprensibile come i due Ordines Missae rappresentino la norma circa l’uso delle due forme celebrative di un unico rito liturgico (lex orandi), quello romano, patrimonio dell’unica ed immutata fede (lex credendi) della Chiesa. Ciò è quanto insegnava anche Benedetto XVI nel Motu proprio Summorum Pontificum (7 luglio 2007), nel quale offriva un’ampia regolamentaz
ione giuridica sull’uso della liturgia romana anteriore alla riforma del 1970 e mai abrogata.

Vogliamo concludere questo contributo con qualche osservazione di stampo canonistico in merito proprio alla quaestio disputata circa l’abrogazione. La Summorum Pontificum, essendo una Lettera Apostolica sotto forma di Motu proprio, ha il valore giuridico di legge universale. Essa abroga le leggi contrarie e quelle anteriori ad esse che riguardano il medesimo argomento. Nel nostro caso, le norme abrogate sono quelle prescritte da Giovanni Paolo II (1978-2005) nella Lettera Quattuor abhinc annos[8] e nel Motu proprio Ecclesia Dei Adflicta[9].

Bisogna poi distinguere tra le rubriche che regolano lo svolgimento pratico della liturgia e le leggi liturgiche che governano la disciplina liturgica in generale. Le rubriche indicano al ministro celebrante cosa deve fare durante la celebrazione del rito; esse rimangono in vigore per coloro che celebrano la Messa secondo la forma straordinaria. Tuttavia, le leggi liturgiche del Codice del 1917, così come alcune norme inserite nel Messale del 1962, sono state abrogate dalla recente legislazione ecclesiale. Pertanto queste leggi disciplinari possono non essere più osservate quando la legge in vigore permette qualcosa di diverso. Un semplicissimo esempio ci aiuterà a capire meglio la questione: nella legge vigente nel 1962, la Messa non poteva essere celebrata nel pomeriggio o alla sera senza permesso dell’Ordinario del luogo. Questa restrizione non è più valida, anche quando si celebra secondo la forma straordinaria. Possiamo quindi concludere che le leggi liturgiche, universali e vigenti, devono essere osservate anche nella celebrazione del rito in forma straordinaria, mentre rimangono chiaramente valide le rubriche previste dal rito stesso.

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[1] A. Bugnini, La riforma liturgica, Roma 1983, p. 380.

[2] La fede cattolica era stata seriamente minacciata dall’eresia protestante nei suoi dogmi centrali quali la natura sacrificale della Messa, il sacerdozio ministeriale, la presenza reale e permanente di Cristo nelle specie eucaristiche.

[3] Per approfondire segnaliamo: M. Midali, «La tradizione liturgica alla quarta sessione del Concilio di Trento», Ephemerides Liturgicae 87 (1973), 501-525; A. Bugnini, «La liturgia dei sacramenti al Concilio di Trento», ibid. 59 (1945), 39-51.

[4] Non dimentichiamo che sin dall’XI secolo appaiono i primi libri contenenti le varie parti della Messa (il Missale, il Liber missalis o il Missale plenarium). Il più conosciuto e diffuso fu il Missale secundum consuetudinem curiae, stampato a Milano nel 1474, che riprende fedelmente il Messale del tempo di Innocenzo III.

[5] A. P. Frutas afferma che la Commissione incaricata «non creò un nuovo Messale, ma ritoccò e aggiornò il Messale della Curia, più volte stampato dopo il 1474. In genere le parti essenziali del Messale di s. Pio V differiscono poco da quelle dell’ed. del 1474, anzi talvolta ci sono le identiche varianti nei testi scritturali […]»: (Messale, in Enciclopedia Cattolica VIII, 836).

[6] Il Messale Romano subì in questo arco di tempo lievi revisioni ad opera di alcuni Pontefici come Clemente VIII (1604); Urbano VIII (1634); Leone XIII (1884); Benedetto XV (1920) e Giovanni XXIII (1962). La modifica più rilevante fu apportata ai riti della Settimana Santa da Pio XII, nel 1955.

[7] Dopo la pubblicazione del Messale Romano del 1570, la tradizione liturgica (d’Oriente e d’Occidente) presente negli antichi libri e documenti liturgici (soprattutto romani, ambrosiani, ispanici, gallicani) fu notevolmente approfondita da studi specifici. Le ricchezze dottrinali e spirituali contenute in quelle fonti hanno offerto un contributo prezioso alla redazione del Messale Romano del 1970. Pare, tuttavia, che almeno in alcuni casi la ripresa delle fonti antiche sia avvenuta in modo creativo, o semplicemente ispirazionale, e non letterale.

[8] Con questo documento il Papa accordò ai Vescovi diocesani la facoltà di permettere ai preti di celebrare la Messa seguendo il Messale romano del 1962.

[9] Cfr. anche Benedetto XVI, Summorum Pontificum, art. 1.

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ZENIT Staff

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