di Gilberto Hernández García
CITTA’ DEL MESSICO, aprile 2010 (ZENIT.org).- Il Messico ha chiuso il 2009 con un saldo di oltre 7.000 morti collegati alla violenza del crimine organizzato, secondo quanto ha riferito il quotidiano El Universal.
Il clima di violenza diffuso ha portato a considerarlo uno dei Paesi con il più alto indice di criminalità del pianeta, secondo solo all’Iraq.
Se la violenza è molto legata al narcotraffico e alle sanguinose lotte tra i cartelli per il controllo dei territori, non mancano altre attività criminali come sequestri, tratta di persone, riciclaggio di denaro, traffico di armi, esecuzioni intimidatorie…
Nell’esortazione pastorale “Che in Cristo, nostra pace, il Messico abbia una vita degna”, diffusa a febbraio, i Vescovi messicani segnalano che “non si tratta di fatti isolati o infrequenti, ma di una situazione che è diventata abituale, strutturale”.
I presuli denunciano l’aumento della violenza causata da organizzazioni criminali, ma sottolineano anche quella contro le donne e i bambini, la discriminazione nei confronti delle popolazioni indigene, il maltrattamento degli immigrati, l’aborto e l’omofobia.
Questa situazione, osservano, si ripercuote “negativamente sulla vita delle persone, delle famiglie, delle comunità e di tutta la società. Intacca l’economia, altera la pace pubblica e semina sfiducia nelle relazioni” sociali. Secondo uno studio dell’Università Autonoma del Messico (UAM), infatti, solo il 19% dei messicani si sente al sicuro nel Paese.
I Vescovi segnalano che “la violenza può trasformarsi in una forma di sociabilità”. “Il comportamento violento non è innato, si acquisisce, si apprende e si sviluppa; su questo influisce il contesto culturale in cui crescono le persone”.
Tra gli elementi che lo favoriscono, citano, tra gli altri, “la crisi di valori etici, il predominio dell’edonismo, dell’individualismo e della competizione, la perdita di rispetto dei simboli dell’autorità, la svalutazione delle istituzioni – educative, religiose, politiche, giudiziarie e di polizia -, atteggiamenti discriminatori e machisti”.
Allo stesso modo, ricordano “la disuguaglianza, l’esclusione sociale, la povertà, la disoccupazione, i bassi salari, la discriminazione, le migrazioni forzate e i livelli disumani di vita”, che “espongono alla violenza molte persone” “per l’irritazione sociale che implicano” e “perché le rendono vulnerabili alla proposte di attività illecite”.
Un’altra causa della violenza è “la dissimulazione e la tolleranza nei confronti dei crimini da parte di alcune autorità”, per incapacità, irresponsabilità o corruzione.
C’è poi l’ “emergenza educativa” più volte citata da Papa Benedetto XVI, che non riguarda solo l’insufficienza di risorse e strutture per offrire un’istruzione di qualità, ma anche “il fallimento dello sforzo di formare persone solide, capaci di collaborare con gli altri e di dare un senso alla propria vita”.
Intervento urgente
I Vescovi segnalano tre fattori di rischio sui quali bisogna intervenire urgentemente, iniziando con constatare che si vive “una crisi di legalità”: “si è diffuso l’atteggiamento di considerare la legge come norma non da rispettare, ma da negoziare. Si esige il rispetto dei propri diritti, ma si ignorano i propri doveri e i diritti degli altri”.
Si è poi “debilitato il tessuto sociale”: “si sono allentate le norme sociali, così come le regole non scritte della convivenza”.
“Viviamo una crisi di moralità”, aggiungono. “Quando si indebolisce o si relativizza l’esperienza religiosa di un popolo, si indebolisce la sua cultura ed entrano in crisi le istituzioni della società”.
Il ruolo della religione
La violenza che sconvolge il Messico sembra dar ragione a chi afferma che “il fatto che una società sia eminentemente religiosa o credente in Dio non la rende più morale o più civile, né più etica, più giusta, più egualitaria o più rispettosa dell’ordine pubblico”.
In questo contesto, i presuli sottolineano che nella popolazione cattolica si percepisce “una crescente manifestazione di superficialità nell’esperienza di fede”, se non “una perdita del senso si Dio”.
Per molti la Chiesa, intendendo anche ogni cristiano, dovrebbe dedicarsi solo a un “compito spirituale”, inteso in senso ristretto.
In varie occasioni, tuttavia, l’episcopato ha affermato che ciò disconosce la dimensione della fede in un Dio che è Padre e Creatore di tutti gli uomini e di ogni uomo, e che la fede cristiana si basa sulla testimonianza e sulla parola di Cristo, che ha rivelato la grandezza della vita dell’uomo, che deve lottare per costruire un mondo più giusto, fraterno, solidale e pacifico.
Conversione, impegno e perdono
Per i pastori cattolici, la via per superare la situazione di violenza del Messico passa per l'”incontro vivo con Gesù Cristo”.
“Il discepolo di Gesù deve amare gratuitamente e senza interesse, come ama Dio, con un amore al di sopra di ogni calcolo e reciprocità”.
Anche se nel Paese c’è un chiaro tentativo di eliminare la religione dalla scena pubblica, confinandola alle chiese e alla coscienza dei fedeli, è inoltre necessaria “un’incidenza significativa dei cristiani in politica, economia, cultura e in ogni campo della vita sociale”.
I cristiani, ricordano i Vescovi, hanno il compito di essere “costruttori di pace nei luoghi in cui vivono e lavorano”.
E’ poi fondamentale la riconciliazione sociale, per sanare gli effetti della violenza e prevenirla. “La riconciliazione non implica l’oblio, ma affrontare la storia in verità e giustizia”, “comporta autocritica, se siamo stati ingiusti, ed empatia con gli altri, riconoscendone il punto di vista e la sofferenza”.
I Vescovi esortano infine al perdono, atteggiamento che a molti risulta scomodo.
“Chiede perdono ci riconcilia con noi stessi, ci permette di accettarci per come siamo”, “ci libera dal rancore e dall’attaccamento al passato, permettendoci di assumere la responsabilità di creare in modo nuovo le relazioni interpersonali e sociali”, concludono.
[Traduzione dallo spagnolo e adattamento di Roberta Sciamplicotti]