KATHMANDU (Nepal), lunedì, 19 aprile 2010 (ZENIT.org).- In Nepal, il 75% della popolazione è composta da indù. I cristiani raggiungono solo il 2,5% mentre i cattolici ammontano a circa 7.000.

Nel 2007, Benedetto XVI ha elevato il Nepal allo status di Vicariato apostolico e ha nominato come primo vescovo monsignor Anthony Francis Sharma.

Monsignor Sharma è originario del Nepal, è nato infatti a Gurkha, situata nella parte centrale del Paese, ed è cresciuto come brahmano in una famiglia indù.

Fu la mamma ad entrare nella Chiesa cattolica quando lui aveva circa 4 o 5 anni, e a indirizzarlo subito al Cattolicesimo.

Monsignor Sharma ha parlato della situazione della Chiesa in Nepal, nell’ambito del programma televisivo “Where God Weeps” gestito da Catholic Radio and Television Network (CRTN), in collaborazione con Aiuto alla Chiesa che soffre.

Chi o cosa è stato determinante nella sua decisione di diventare sacerdote?

Mons. Sharma: E' stato determinante il mio contatto con i gesuiti che allora lavoravano a Darjeeling, nella parte Nord dell’India. Vedevo come servivano la nostra gente con tanto amore e tanta cura, e quando mi fu chiesto perché volevo diventare gesuita, la mia risposta fu: “vi vedo fare questo per la mia gente, perché non posso unirmi a voi nello stesso impegno?”. Questo è ciò che determinò la mia scelta. Anche il contatto con i gesuiti, principalmente canadesi, e con i giovani che venivano a Darjeeling, mi stimolava.

La popolazione di cattolici in Nepal è molto esigua, raggiungendo solo le 7.000 unità. Qual è stato secondo lei il principale ostacolo al suo desiderio di diventare sacerdote?

Mons. Sharma: Conclusi gli studi, ho lavorato a Darjeeling. Mi sono unito ai gesuiti presenti in loco dopo aver finito il liceo e ho lavorato lì per quasi 25 anni. Successivamente sono stato rettore di uno dei nostri istituti e preside della St. Joseph’s School. Nel 1984 sono stato nominato primo superiore ecclesiastico in Nepal. Quindi non sono andato in Nepal per mia scelta. Sono stato mandato. Sono stato assegnato al Nepal, mentre ero a Darjeeling.

Probabilmente la mia origine nepalese è stata la motivazione principale. In secondo luogo, perché appartengo alla casta brahmana, una casta molto importante in Nepal. La società è governata da una piccola minoranza di indù. Lei ha parlato del 75%, ma questo dato è oggi oggetto di dibattito. I brahmani erano quelli che governavano il Paese e quindi aver assegnato un brahmano al Nepal probabilmente ha a che fare con questo aspetto.

Essere un brahmano è importante per la comunità cattolica quanto lo è per quella indù. Il fatto che lei non dovesse abbassare lo sguardo, essendo brahmano, ha rappresentato un elemento importante?

Monss Sharma: Era un elemento importante allora, credo, così come quello di essere il preside di una scuola rinomata, che ha avuto i re – quello attuale, quello precedente e quello passato – tra i suoi alunni. Ero noto alla comunità nepalese locale. Sapevano che ero originario del Nepal e non avevano difficoltà a riaccogliermi.

Lei è il primo vescovo del Paese. Qual è stato il suo pensiero quando è stato convocato e nominato?

Mons. Sharma: Non ne ero molto felice. Ho opposto resistenza alla mia nomina per molto tempo perché ritenevo che dovesse essere onorato da questa nomina qualcuno che proveniva dalla comunità etnica. E questo perché la maggioranza della nostra gente in Nepal appartiene alle comunità etniche.

Lei ha indicato prima il 75% e io ho detto che è un dato discutibile perché il 70% della nostra popolazione è etnica, mentre solo il 20% è strettamente indù. Ma gli indù, essendo la classe dirigente, hanno incorporato quel 70% facendolo diventare 90%. Queste comunità etniche, invece, appartengono a caste diverse, hanno i propri rituali, i propri sacerdoti, i propri riti, hano tutto diversificato. E a loro non piace essere contati tra gli indù, ma non avevano altra scelta essendo sottoposti a quella classe dirigente.

Quindi sono stati fusi insieme, e quando ai turisti che vengono viene detto che il 90% della popolazione è indù, il 7% buddista, il 2% musulmana e l’1% cristiana, non è vero. Di quel 70% appartenente alla comunità etnica, il 60% ha maggiori affinità con il Buddismo che con l’Induismo. Quindi, in effetti, il Nepal dovrebbe essere considerato come un Paese buddista e non solo perché è il Paese natale del Buddha, ma anche perché è una realtà di fatto.

Lei ha detto che è stata sua madre a portarla verso la Chiesa cattolica quando era ancora piccolo. Qual è stata la reazione di sua madre quando ha saputo della nomina episcopale?

Mons. Sharma: Lei non voleva che mi facessi prete. Anzitutto perché ero l’unico figlio maschio della famiglia e riteneva che avessi degli obblighi. Mia madre è cresciuta secondo la tradizione induista. Conosceva le tradizioni degli indù molto bene. Sebbene fosse analfabeta sapeva recitare il libro di Ramayana dalla prima all’ultima pagina a memoria. Era molto dotata, anche se non sapeva leggere e scrivere. Pensava quindi che avrei dovuto dare continuità alla linea della famiglia e diventare prete era come interromperla. Non mi diede mai il permesso di farlo. Quando questo gesuita canadese che era il mio direttore mi disse che dovevo diventare sacerdote, la mia obiezione fu: “no, Padre, ho il dovere di prendermi cura di mia madre”, ma la sua reazione fu: “Dio stesso se ne farà carico”.

E Dio se ne è fatto carico?

Mons. Sharma: Assolutamente sì. E così sono diventato prete. Ma prima di unirmi ai gesuiti ho portato il mio direttore canadese a trovare mia madre. Quando le ho detto che stavo andando via, mia madre si è prostrata davanti a me dicendo: “se vuoi andare dovrai passarmi sopra”.

Più tardi, quando sono stato ordinato – un figlio è sempre un figlio, a prescindere da quanto sia stato cattivo, per una madre si è sempre bravi figlioli – sono andato a darle la benedizione, ma era strano per me benedire lei, e così ho chiesto la benedizione e le ho detto: “allora nonnina come ci si sente con un figlio prete, cosa che non avresti mai voluto?”.

Mi ha guardato e mi ha detto: “sai cosa ho detto a Dio oggi? Ho perso, hai vinto tu”. Questa è stata la sua ultima rassegnazione e la sua accettazione della volontà di Dio nella sua vita. E così è stato per tutta la sua vita, questo è l’atteggiamento che aveva: non poteva cambiare la determinazione di Dio e così ha dovuto accettarla. Non mi ha mai visto da vescovo. Mia madre è morta prima della mia nomina episcopale, all’età di 89 anni nel 1989, mentre io sono stato nominato solo nel 2007, ma sarebbe stata felice, non ne dubito, ne sarebbe stata fiera.

Essendo nato e cresciuto in Nepal, avrà visto cambiare il Paese in molti modi. Ci può descrivere i cambiamenti positivi e quelli negativi?

Mons. Sharma: All’inizio, prima del 1991, il Paese era completamente indù. I cristiani non potevano essere chiamati per nome e vivevano una vita nascosta.

I cristiani erano perseguitati a quel tempo? Si trattava di persecuzione o di discriminazione?

Mons. Sharma: Forse di discriminazione. E molti cristiani protestanti venivano arrestati perché predicavano il Cristianesimo. Essendo un Paese induista, la predicazione di una religione non indù era vietata dalla legge. Se si trattava di un nepalese, questi era soggetto alla condanna a sei mesi di reclusione. Se si trattava invece di un non-nepalese, la pena era l’espulsione dal territorio. Di conseguenza la predicazione era molto scarsa, ma ciò nonostante erano molti i gruppi fondamentali. La Chiesa era entrata in Nepal nel 1951 su invito del nonno del re dell’epoca.

Perché l’ha invitata se il Nepal era uno Stato induista?

Mons. Sharma: Perché voleva dare maggiore istruzione alla popolazione nepalese. Molti nepalesi infatti frequentavano le nostre scuole in India: Calcutta, Darjeeling e Patna. Per questo i gesuiti di Patna, gesuiti americani, furono invitati ad aprire e gestire delle scuole. Inoltre gli fu messo a disposizione il Palazzo estivo dei Primi Ministri Rana [il Palazzo Singha Durbar], che è ancora lì e può essere utilizzato solo a fini di istruzione.

La Chiesa, quindi, nonostante le leggi anti predicazione, ricevette un certo status e una certa possibilità di presenza nel territorio nepalese, per insegnare. Ma al contempo gli fu vietato espressamente di predicare ai nepalesi. Potevano servire i cattolici, ma non potevano predicare il Cristianesimo ai nepalesi. Gli fu chiesto di sottoscrivere questa regola, ma loro non la firmarono. Tuttavia, in qualche modo agirono sulla base di questa indicazione e questo ha determinato il nostro comportamento da allora.

Recentemente vi è stato un cambiamento epocale. Il Nepal è stato dichiarato uno Stato laico e i re indù che avevano governato il Paese per secoli, sono stati estromessi. Si tratta di un passo positivo per il Nepal?

Mons. Sharma: Io credo che sia un passo positivo. Il Nepal in questo modo si sta avvicinando alla comunità internazionale e si spera, per esempio, che le giornate di sabato e domenica, che oggi sono giornate lavorative, per cui abbiamo la funzione domenicale il sabato, possano seguire il calendario internazionale così che anche noi potremo beneficiarne.

Credo inoltre che in questo modo potremmo ricevere anche maggiore riconoscimento. Ancora, però, non è stato dichiarato per iscritto lo Stato laico. Quando due anni fa la proposta venne fuori, i parlamentari, in segno di approvazione, iniziarono a battere sui propri banchi dicendo “sì”: era ciò che volevano. Furono soprattutto i maoisti e i comunisti. Il Congresso e gli altri partiti non erano del tutto favorevoli, ma vedendo il battere sui banchi si unirono anche loro.

Ma lei crede che avverrà?

Mons. Sharma: Avverrà con la redazione della nuova costituzione. Questa ci darà, spero, un certo grado di libertà per poter predicare liberamente, non ci saranno ostacoli, ma questa domanda mi è stata posta spesso e la mia risposta è: che il Nepal rimanga un Paese indù o che diventi un Paese laico non farà alcuna differenza per noi. Noi continueremo a fare ciò che stiamo facendo, servendo la gente con i nostri programmi sociali ed educativi.

Avrete quindi maggiore libertà?

Mons. Sharma: Avremo più libertà. Non saremo ostacolati. In passato, prima del 1990, quando si aprivano le scuole, io mi dovevo imprescindibilmente presentare alle autorità civili per giustificare la mia presenza, perché pensavano che io intendessi solo diffondere il Cristianesimo nel Paese.

Nel 2007, Benedetto XVI ha elevato il Nepal allo status di Vicariato apostolico. Perché ha scelto questo particolare momento successivo al rovesciamento del governo? È una mossa strategica o politica per radicare la Chiesa più profondamente nel Paese?

Mons. Sharma: La Chiesa cattolica è entrata nella scena politica del Nepal non nel 2007, ma nel 1984. Nel 1982, il re Birendra, prima di essere massacrato insieme alla sua famiglia, era andato a trovare il Papa con sua moglie e il suo entourage. Il motivo della sua visita al Papa era per chiedergli di riconoscere il Nepal come una zona di pace. Il Nepal è un minuscolo Paese di 147.000 chilometri quadrati, schiacciato tra la Cina al nord e l’India al sud, est e ovest, e il rischio era che questi Paesi potessero inghiottirlo.

Il riconoscimento del Nepal come zona di pace, gli avrebbe assicurato la tutela della comunità internazionale, e il riconoscimento del Papa e della Santa Sede avrebbe consentito al Nepal di essere riconosciuto anche dagli altri Paesi come zone di pace. Di fatto l’iniziativa del re ha avuto buon esito e il Nepal è stato riconosciuto come zona di pace.

La seconda è che quando il re ha richiesto questo riconoscimento, il Papa ha rilevato che la Chiesa non era presente nel Paese in forma ufficiale. Così si è dovuta creare una Chiesa che era “missio sui iuris” e io allora sono stato nominato primo Superiore ecclesiastico nel 1984.

La creazione di un Vicariato apostolico avrà certamente avuto implicazioni simboliche se non anche giuridiche, per la Chiesa, consolidando le sue radici nel Paese...

Mons. Sharma: Ha certamente dato riconoscimento alla nostra presenza. È stato un onore concesso alla nostra gente. E anche, credo, un riconoscimento degli sforzi profusi dai nostri pionieri. I pionieri che sono approdati nel Paese nel 1750, i cappuccini, i cui sforzi e sogni sono stati in questo modo coronati. La seconda cosa è che la politica del Vaticano sta procedendo come dovrebbe, portando il Nepal da Missione ecclesiastica, “missio sui iuris” (missione autonoma), a Prefettura apostolica nel 1997, a Vicariato nel 2007. Con il passo successivo, chi verrà dopo di me avrà la gioia di vedere in Nepal una vera e propria diocesi.

Negli Stati indiani di Orissa, Bangalore e altri è in atto una crescita del fondamentalismo indù. Non avete il timore che questo fenomeno possa superare le frontiere e sconfinare nel Nepal?

Mons. Sharma: Ha già superato le frontiere. Esistono dei gruppi di persone noti come NDA (Nepal Defense Army), che dicono di essere gruppi militanti indù, ma che in realtà non lo sono. Sono dei criminali. Estorcono il denaro alla gente per il proprio arricchimento, per fini propri. Non ha nulla a che vedere con l’Induismo. Credo che in Nepal ci dovremo aspettare qualche forma di comportamento aggressivo dalle nostre comunità indù.

Per 240 anni il Nepal è stato un regno indù e d’improvviso è stato dichiarato uno Stato laico. La minaccia quindi è grande. Il re ha perso il suo impero. È stato incoronato imperatore del regno indù, che adesso non esiste più. Il carattere indù è stato rimosso e ciò è visto come una minaccia dalla comunità indù. Dovremmo quindi aspettarci qualche forma di turbolenza come questo fondamentalismo crescente.

Lei dice che si tratta di un gruppo di estremisti. Tuttavia ha detto pubblicamente al Governo che se non fosse intervenuto, avreste chiuso le scuole, cosa che avrebbe portato a una situazione alquanto drammatica vista l’importanza delle scuole in Nepal.

Mons. Sharma: Sono stato costretto a scrivere quella lettera al Governo. A quel tempo non esisteva un governo in carica in Nepal. I diversi partiti erano in lite tra loro e quindi non era stato formato nessun governo. Per questo sono andato al Ministero dell’interno con una lettera suddivisa in tre parti. Nella prima descrivevo la situazione e le uccisioni che erano avvenute. Nella seconda, le conseguenze di ciò e le minacce telefoniche che avevamo ricevuto. Nella terza parte dicevo che se non ci veniva assicurata una adeguata protezione contro queste minacce, saremmo dovuti andare dai genitori dei nostri alunni per dirgli che non eravamo più in grado di fornire e gestire i servizi portati avanti finora, a meno che il governo non avesse fatto qualcosa al riguardo. Era questo il motivo della lettera.

Il lavoro della Chiesa è apprezzato e forse questo ha costretto il Governo a fare qualcosa di concreto. La lettera ha prodotto dei risultati. Infatti, alcuni membri di questo gruppo sono stati arrestati; il personaggio principale, che mi minacciava per telefono, è ancora latitante. La polizia sa chi è e ha la sua foto. Esiste quindi un movimento, ma questo ci ha dato dei buoni risultati.

Qual è il suo auspicio per il Nepal? Le sue speranza per la Chiesa in Nepal?

Mons. Sharma: I nostri sogni e le nostre sfide? La Chiesa vorrebbe arrivare alle zone meno sviluppate del Nepal. I cappuccini del XVII e XVIII secolo stanno tornando. I pionieri delle imprese missionarie in Nepal stanno tornando. Ad oggi c’è un cappuccino che sta imparando il nepalese in un villaggio. La comunità sta procedendo e noi ci s tiamo muovendo vero ovest, verso le parti meno sviluppate del Nepal, dove la gente non ha nemmeno l’erba da mangiare.

Non hanno cibo? Perché?

Mons. Sharma: Perché il cibo scarseggia. Ha mai sentito parlare del nettle bush? È una piccola pianta molto urticante. Viene cotta e data in pasto ai porci. È molto nutriente e ha molta proteina. Questo intendevo quando parlavo di erba. Ma neanche questo è disponibile tra questa gente affamata. Nei luoghi più remoti avere il riso sta diventando un problema. Una volta il Nepal riusciva a produrre quantità sufficienti di riso per sfamare la popolazione. Oggi invece dobbiamo importare il riso dall’India.

Alcuni posti sono ancora così lontani e tagliati fuori. Non esistono strade e ci vogliono giorni per raggiungerli. Luoghi in cui è possibile far arrivare del cibo solo lanciandolo dagli elicotteri, ma questi non possono alzarsi in volo ogni volta. In alcuni di questi posti la gente soffre per la mancanza di cibo e in particolare di riso. Il riso è il nostro alimento base. La gente mangia il riso per riempirsi lo stomaco. Potrà non essere sufficiente come nutrimento, ma almeno riempie lo stomaco.

La nostra scelta di andare verso ovest risponde quindi al desiderio di animare la gente, di aiutarla a coltivare, ad avviare il proprio orto e a farlo per conto proprio. La Caritas è impegnata in questo e anche nel fornire istruzione alla gente a cui il governo non ha dato questa opportunità. Il nostro governo dipende pesantemente dall’aiuto straniero e ai luoghi periferici questo aiuto non arriva.

Riguardo alla Chiesa e alle sue necessità, quale è il suo appello ai cattolici?

Mons. Sharma: Vorremmo proseguire nel nostro impegno educativo. Vorremmo avviare un programma sanitario, perché non esiste una sanità. Vorremmo arrivare alle comunità etniche e tribali, che stanno morendo come le etnie raute, bhote, o Chepang; gente che vive nella foresta e si ciba di radici. Gente che non ha l’opportunità di istruirsi. È a loro che vorremmo portare il nostro lavoro; ricondurli nell’ambito della vita del Paese.

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Questa intervista è stata realizzata da Mark Riedemann per “Where God Weeps”, un programma settimanale prodotto da Catholic Radio and Television Network in collaborazione con l’organizzazione caritativa internazionale Aiuto alla Chiesa che soffre.



Per maggiori informazioni: www.WhereGodWeeps.org