L’era digitale e la sua valenza antropologica: i nativi digitali

ROMA, sabato, 17 aprile 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito un articolo del prof. Tonino Cantelmi, docente di Psicologia dello Sviluppo e dell’Educazione alla LUMSA (Roma) e docente di Psicopatologia alla Pontificia Università Gregoriana (Roma).

 

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1. Introduzione: la Rete delle Reti ed il suo impietoso fascino sulla mente umana

Il fascino impietoso e seduttivo di Internet non sembra lasciar scampo: la Rete delle Reti è ora demonizzata ed assimilata ad un invicibile mostro divorante, ora invece esaltata e beatificata per le sue immense potenzialità. No, non c’è dubbio: la Rete delle Reti rappresenta comunque la vera, straordinaria novità del III millennio: presto gran parte dell’umanità sarà in Rete. Stiamo assistendo dunque ad un cambiamento radicale e siamo forse di fronte ad un passaggio evolutivo. L’uomo del terzo millennio, in altri termini, sarà diverso: la mente in Internet produrrà eventi e cambiamenti che non potremo ignorare.

Tuttavia Internet è solo uno dei tanti cambiamenti indotti dalla rivoluzione digitale, la cui tecnologia non può essere semplicemente interpretata come “strumenti”: la rivoluzione digitale è tale perché la tecnologia è divenuta un ambiente da abitare, una estensione della mente umana, un mondo che si intreccia con il mondo reale e che determina vere e proprie ristrutturazioni cognitive, emotive e sociali dell’esperienza, capace di rideterminare la costruzione dell’identità e delle relazioni, nonchè il vissuto dell’esperire.

Come per ogni innovazione tecnologica, accanto agli iniziali entusiasmi giustificati dalle enormi potenzialità di questo media, sempre più specialisti si sono interrogati sui rischi psicopatologici connessi all’uso e soprattutto all’abuso della Rete. In particolare si è ipotizzata l’esistenza di una forma di dipendenza dalla Rete, definita IAD: Internet Addiction Disorder. In realtà non dovremmo trascurare il fatto che tutto nacque per un fantastico scherzo planetario: uno psichiatra americano fece girare in Rete i criteri diagnostici per la dipendenza da Internet, mutuati dal DSM IV. Come spesso succede in Rete, la fantasia fu superata dalla realtà, sia pure virtuale: la dipendenza divenne un argomento straordinariamente attuale. Dibattuta, demonizzata, esaltata: la Rete non colse la differenza fra realtà e scherzo. Altra beffa clamorosa fu l’invenzione di gruppi on line di auto-aiuto per retomani. L’Internet Addiction Disorder, quella vera e non la beffa, divenne un fenomeno noto al di fuori della Rete quando nel 1996 la dottoressa statunitense Kimberly Young, dell’Università di Pittsburg, pubblicò la ricerca “Internet Addiction: the emergence of a new clinical disorder” (1996), relativa allo studio di un campione di soggetti dipendenti dalla Rete. Da allora ad oggi sulla stampa vengono continuamente riportate le vicissitudini dei soggetti affetti da questa nuova patologia. Anche le ricerche che ho presentato in Italia dal 1998 hanno avuto una eco sorprendente sulla stampa, amplificata dalle TV e dalle radio. L’eccessivo clamore dato dai mass media a tale argomento ha giustamente irritato gli utilizzatori di Internet, che hanno percepito una sorta di ingiustificato attacco alla Rete. Cosicchè ho scoperto di essere stato oggetto di discussioni e in alcune chat, ora nei blog e di subire insulti ed attacchi sui più noti social network. Questa reazione, se da un lato è assolutamente comprensibile, dimostra anche che le ricerche sulle cosiddette condotte psicopatologiche on line hanno un reale interesse. Tuttavia, al di là del sensazionalismo, i problemi psicopatologici Internet-correlati sono per alcuni psichiatri e psicologi (sempre più numerosi), tra cui me, affascinanti e nuovi, ma questo non vuol dire affatto che la Rete sia un qualcosa di pericoloso e da evitare: più semplicemente ritengo che sia inevitabile studiare l’impatto che un mezzo così straordinario e, direi, così vitale ha sulla mente umana. Fenomeni che per ora sono descritti come psicopatologici potrebbero in realtà essere gli indicatori di una curiosa ed a tratti incomprensibile evoluzione dell’uomo del terzo millennio (homo tecnodigitalicus).

In effetti le nuove tecnologie mediatiche, oltre ad essere uno straordinario motore di cambiamento sociale e di trasformazione culturale, stanno aprendo territori sconfinati di studio e di ricerca per antropologi, sociologi, psicologi e psichiatri.

La Rete delle Reti, dunque, è l’unica, vera ed inarrestabile novità del terzo Millennio: come ogni novità porta con sé inevitabili contraddizioni ed ineludibili problematiche. L’effetto dell’incontro tra l’uomo e tecnologie così straordinarie è senza dubbio un oggetto di studio interessante: gli psichiatri non hanno saputo resistere al suo fascino. Ecco perché ci incuriosiscono i net-dipendenti, i depressi della realtà virtuale, i cybersex-dipendenti, i cybertravestiti, i prigionieri delle MUD, gli innamorati in chat e tanti altri ancora, dai protagonisti delle flame wars, le liti furibonde in chat, a coloro che non possono smettere di informarsi, affetti come sono da quella strana patologia definita “Information Overload Addiction”.

La ragnatela mondiale cattura, avanza inarrestabile, esalta ed eccita: è lei la straordinaria protagonista dell’epoca della rivoluzione digitale. Che cos’è la Rete, se non un immenso e sconfinato labirinto, luogo senza centro, anarchicamente disegnato e ridisegnato, spazio di ricerca al servizio di un’impresa conoscitiva straordinaria, ma anche dimensione dello smarrimento del sé e del percorso, attraverso la perdita del fine e dello scopo?

È dunque in atto una rivoluzione, la rivoluzione digitale, che, inaugurando affascinanti universi di conoscenza e di esperienza, ha già da ora modificato il registro delle nostre possibilità mentali e sensoriali, contribuendo a plasmare una nuova cultura e differenti forme e modalità di sentire il rapporto con se stesso, con l’altro da sé e con il mondo. Proprio perché cariche di fascino, queste possibilità devono indurci a percepire ed a riflettere criticamente circa i loro effetti sulla vita psichica e relazionale. Le dinamiche della vita reale si possono rivelare insufficienti ed inadeguate ad una vita in Rete che è davvero tutta da inventare.

La comunicazione virtuale è caratterizzata da ipertestualità, ipermedialità, elevata velocità, sostanziale anonimato, giochi di identità, superamento dei normali vincoli spaziotemporali, parificazione dello status sociale, accesso a relazioni multiple, insorgenza di emozioni imprevedibili, anarchia e libertà di trasgressione: ingredienti straordinari per trasformare il cyberspazio in un’affascinante dimensione del nostro stesso vivere. In Rete, dunque, è possibile amare, studiare, comprare, sognare, è possibile, in altre parole, vivere.

Le caratteristiche della comunicazione virtuale possono rendere la Rete più agevole della realtà, anzi tanto gradevole da instaurare una sorta di dipendenza. Alcuni studi, che ho condotto con la collaborazione di molti psichiatri e psicologi, indicano che il 10% dei navigatori è esposto a questo rischio: un dato inquietante e a mio parere eccessivo. È necessario studiare questo strano fenomeno dei net-dipendenti quando Internet non sarà più un evento ma una ineludibile realtà. Alcuni soggetti poi presentano curiose regressioni. Ecco allora l’insorgere di un ritiro autistico, che prelude a fenomeni dissociativi anche gravi: la Trance Dissociativa da videoterminale, patologia rara, almeno per ora, che in Italia ha colpito poche decine di irriducibili navigatori. Fragilità pregresse impietosamente esaltate dalla Rete? Forse. Potenza straordinaria della Rete stessa? Forse. I prossimi studi definiranno meglio la faccenda. Intanto osserviamo alcune forme di navigazione patologica: cybersex addiction, compulsive on line gambling, cyber relationship addiction, MUDs addiction, information overload addiction. E ancora: come interpre
tare il diffusissimo fenomeno del cybertravestitismo? I mondi virtuali consentono la creazione di identità talmente fluide e multiple da trasformare i limiti del concetto stesso di identità. L’esperienza del cyberspazio è la concretizzazione di un altro modo di considerare il sé, non più come unitario, ma multiplo. Esperienza questa non del tutto negativa, visto che può consentire al nostro io di accedere ed elaborare i nostri molti sé. Il concetto di addiction non mi sembra che possa esaurire un fenomeno così complesso come le condotte psicopatologiche on line. Per questo preferisco parlare di Internet Related Psychopathology (IRP), nella quale comprendere una costellazione di disturbi e di comportamenti molto lontani dall’essere sistematizzati e definiti. Tuttavia tutti questi segnali indicano qualcosa di nuovo: siamo cioè alle soglie di una mutazione dell’umano, che, forse, più che psicologica e sociale, è antropologica.

Tanti sono ancora gli aspetti da chiarire, tuttavia è prevedibile che in futuro, in considerazione dell’inarrestabile diffusione della Rete, fenomeni, per così dire, “psicopatologici” connessi ad Internet potranno assumere dimensioni più ampie e contorni più definiti. Inoltre presto Internet riguarderà non solo giovani-adulti (la maggioranza degli utenti oggi in Italia), ma anche adolescenti e bambini. È perciò ineludibile la necessità di studiare con attenzione l’impatto che una così potente tecnologia ha sulla psiche dell’uomo.

Non possiamo dunque non chiederci “dove stiamo andando?”: l’espansione della ragnatela è di per sé inarrestabile ed apportatrice di novità straordinarie. Nessuno vorrà rinunciare agli enormi benefici che ne derivano. L’uomo scopre tuttavia nuove ed altrettanto potenti gratificazioni, connesse con le caratteristiche stesse della comunicazione virtuale ed interattiva propria della Rete. Non allarmismi: il popolo della Rete ha protestato contro il clamore che stampa, TV e radio hanno dato agli studi condotti da me e dai collaboratori. Mi sono attirato le critiche del popolo di Facebook quando ho dichiarato che FB è un luogo per “occidentali viziati e narcisisti”, dove il concetto di “amicizia” viene banalizzato in modo estremo e dove prevale la necessità di esporre in vetrina se stessi in modo inconcludente e superficiale. Le critiche sono in parte giustificate: i nostri dati sono ancora incerti, mal definiti e nebulosi e la Rete è un fenomeno così complesso da apparire indescrivibile. E in definitiva non è detto che i “paradisi telematici” siano più dannosi di quelli “artificiali” dell’oppio: anzi, per certi versi, aprono prospettive affascinanti attraverso le quali è possibile intravedere potenzialità davvero interessanti. La Rete delle Reti si propone come una sorta di cervello planetario, dai confini incerti ed indefinibili e dalle potenzialità straordinarie.

Siamo dunque alle soglie di una fase evolutiva dell’umanità, caratterizzata da tecnologie sempre più umanizzate e da uomini sempre più tecnologizzati. I fenomeni che osserviamo e che per ora percepiamo come psicopatologici potrebbero essere i segni di un cambiamento: l’uomo del III millennio, comunque, sarà diverso.

2. La tecnomediazione della relazione nell’epoca della modernità liquida

Molti osservatori hanno evidenziato come l’inizio del III millennio sia stato contrassegnato dalla più straordinaria ed epocale crisi della relazione interpersonale. Cosa ha determinato la crisi della relazione interpersonale? In fondo la tecnologia digitale ne è la risposta e forse anche una concausa, come se, in una sorta di causalità circolare, l’esplodere della rivoluzione digitale avesse intercettato una crisi della relazione in parte già esistente e al tempo stesso ne avesse accelerato drammaticamente lo sviluppo. Tuttavia sostengo che alla base della crisi della relazione interpersonale ci siano almeno tre fenomeni, essi stessi amplificati a dismisura dalla inarrestabile rivoluzione digitale.

I tre fenomeni sono i seguenti:

– l’incremento del tema narcisistico nelle società postmoderne (di cui gli innamoramenti in chat e le amicizia in facebook sembrano essere i corrispettivi telematici), sostenuto da una civiltà dell’immagine senza precedenti nella storia dell’umanità;

– il fenomeno del sensation seeking, caratterizzato da una sorta di ricerca di emozioni, anche estreme, capace di parcellizzare e scomporre l’esperienza interumana facendola coincidere con l’emozione stessa (è come se tutta la relazione interpersonale coincidesse con l’emozione);

– il tema dell’ambiguità, cioè la rinuncia all’identità e al ruolo in favore di una assoluta fluidità dell’identità stessa e dei ruoli, con la conseguente rinuncia alla responsabilità della relazione ed alle sue caratteristiche generative.

Il trionfo dell’ambiguità e della fluidità dell’identità impedisce una stabile assunzione di identità (esserci), che a sua volta si riflette nella instabilità della relazione (esserci con), la quale infine mina profondamente le possibilità generative e progettuali della relazione stessa (esserci per).

Questi fenomeni, unitamente al tema della “velocità”, sono alla base della profonda crisi della relazione interpersonale, che sempre più acquista modalità “liquide”, indefinite, instabili e provvisorie. In questo senso la tecnomediazione della relazione (chat, blog, sms, social network) offre all’uomo del III millennio una risposta formidabile e affascinante: alla relazione si sostituisce la “connessione”, che costituisce la nuova privilegiata forma di relazione interpersonale. E’ fluida, consente espressioni narcisistiche di sé, esalta l’”emotivismo”, è provvisoria, liquida e senza garanzie di durata, è ambigua e indefinita: la connessione (cioè l’insieme della tecnomediazione della relazione grazie alla tecnologia digitale) è dunque la più straordinaria ed efficace forma di relazione per l’uomo “liquido”.

3. La crisi dell’identità nella società postmoderna e la tecnologia digitale

Esserci, esserci-con, esserci-per: questa è la “progressione magnifica” che permette di partire da un Io (l’esserci), per passare ad un Tu (l’esserci-con) e infine giungere ad un Noi (l’esserci-per), dimensione ultima e sola che apre alla generatività, alla creatività ed all’oblatività. Il punto di partenza della “progressione magnifica” è l’esserci, che in ultima analisi richiama all’identità. Nella “cultura del narcisismo”, per usare la definizione di Christopher Lash, anche le espressioni più progressiste dell’identità sono contaminate da una straordinaria enfatizzazione dell’ego, dalla elefantiasi dei bisogni di autoaffermazione e da una sorta di emergenza di uomini e donne “senza qualità”, come direbbe Robert Musil. Ma cosa vuol dire “esserci” nella società liquida di cui parla Baumann? Esserci vuol dire rinunciare ad una identità stabile, per entrare nell’unica dimensione possibile: quella della liquidità, ovverossia dell’identità mutevole, difforme, dissociata e continuamente ambigua di chi è e al tempo stesso non è. In fondo la tecnologia digitalica consente all’uomo ed alla donna del terzo millennio di essere senza vincoli, di tecnomediare la relazione senza essere in relazione, di connettersi e di costruire legami liquidi, mutevoli, cangianti e in ogni istante fragili, privi di sostanza e di verifica, pronti ad essere interrotti. Cosicché si è passati dall’uomo-senza-qualità di Musil all’uomo-senza-legami di Baumann in una sorta di continuità-sovrapposizione che viene a definire il nuovo orizzonte del tema identitario. Ed ecco che l’esserci è minato alla sua origine. La crisi dell’identità maschile e femminile, per esempio, ne è l’espressione più evidente. L’identità, ci
oè l’idea che ognuno di noi ha di se stesso e il sentirsi che ognuno di noi sente di se stesso, è dunque in profonda crisi, e il nuovo paradigma è l’ambiguità. La crisi dell’esserci ha una prima conseguenza. Se all’uomo d’oggi è precluso il raggiungimento di una identità stabile, che si articola e si declina nelle varie dimensioni, come in quella psicoaffettiva e sessuale, la conseguenza prima è che l’esserci-con (per esempio la coppia) assume nuove e multiformi manifestazioni. L’esserci-con non è più il reciproco relazionarsi fra identità complementari (maschio-femmina per esempio), sul quale costruire dimensioni progettuali nelle quali si dispiegano legittime attese esistenziali, ma diviene l’occasionale incontro tra bisogni individuali che vanno reciprocamente a soddisfarsi, per un tempo minimo, al di là di impegni reciproci e di progetti che superino l’istante. L’esserci-con è fatalmente legato alla soddisfazione di bisogni individuali che solo occasionalmente e per aspetti parziali corrispondono. In altri termini l’incontro tra due persone è fondamentalmente basato sulla soddisfazione narcisistica, individuale e direi solipsistica di un bisogno che incontra un altro bisogno, altrettanto narcisistico, individuale e solipsistico. Questo incontro si dispiega per un tempo limitato alla soddisfazione dei bisogni e l’emergere di nuovi e contrastanti bisogni determina inevitabilmente la rottura del legame e la ricerca di nuovi incontri. La fragilità dell’essere-con dei nostri tempi si evidenzia attraverso la estrema debolezza dei legami affettivi, che manifestano una ampia instabilità ed una straordinaria conflittualità. Se l’identità è liquida, anche il legame interpersonale è liquido, cangiante, mutevole, individualista e fragile. L’uomo del terzo millennio sembra rinunciare alla possibilità di un futuro e concentrasi sull’unica opzione possibile, quella del presente occasionale, del momento, dell’istante.

Fatalmente, il trionfo dell’ambiguità identitaria, la rinuncia al ruolo ed alla conseguente responsabilità, il ridursi dell’esserci-con all’istante ed al bisogno, fatalmente tutto questo mina l’esserci-per, cioè la dimensione generativa e oblativa dell’uomo e della donna. Per esempio, se decliniamo tutto ciò nell’ambito psicoaffettivo e psicosessuale, la rinuncia all’esserci (identità sessuale e relativi ruoli) non può non trasmettersi in una inevitabile mutazione critica della dimensione coniugale (esserci-con), che a sua volta precipita in una crisi senza speranze la dimensione genitoriale (esserci-per). Ed infatti la transizione al ruolo genitoriale sembra divenire una sorta di utopia: la rinuncia alla genitorialità o il suo semplice rimandarlo nel tempo sono un fenomeno sociale tipico dei nostri tempi. Perciò identità liquide fanno coppie liquide, che a loro volta fanno genitori liquidi, dove per liquido possiamo intendere molte cose, ma una soprattutto, la debolezza del legame. La “progressione magnifica”, di cui parlavo all’inizio, diviene dunque una progressione “liquida”. Ma il punto di partenza è nell’esserci, ovvero nel tema dell’identità. Nell’epoca di Facebook, l’identità si virtualizza, come anche le emozioni, l’amore e l’amicizia. La virtualizzazione è la forma massima di ambiguità, perché consente il superamento di vincoli e di confronti, aprendo a dimensioni narcisistiche imperiose e prepotenti. Eppure qualcosa non funziona. Lo avvertiamo dall’incremento del disagio psichico, dal sempre più pressante senso di smarrimento dell’uomo liquido, dalla ricerca affannose di vie brevi per la felicità, dall’aumento del consumo di alcol e stupefacenti negli stessi opulenti ragazzi della società di Facebook, dall’affermarsi di una cupa cultura della morte, dall’inquietante incremento dei suicidi, dal malessere diffuso. Qualcosa dunque non funziona: la liquidità dell’identità, con tutte le sue conseguenze, non aumenta il senso di felicità dell’uomo contemporaneo. Alcuni studi sul benessere fanno osservare che la felicità non è correlata con l’incremento delle possibilità di scelta. Questi dati fanno saltare una convinzione che sembrava imbattibile. La felicità dunque non è correlata con l’incremento delle possibili scelte dell’uomo (una visione ovviamente molto legata al capitalismo). Gli stessi studi correlano la felicità con il possedere invece un “criterio” per scegliere. Avere un criterio per scegliere rimanda ad altro: avere un progetto, delle idee, una identità. Ed ecco che il cerchio si chiude: il tema della liquidità è sostanzialmente il tema della rinuncia ad avere criteri (cioè dimensioni di senso). Ma questa rinuncia ha un prezzo: l’infelicità. Ecco perché la “magnifica progressione” mantiene anche oggi, e direi soprattutto oggi, un alto valore, proprio per il suo portato anti-liquidità. Costruire dimensioni identitarie stabili e non ambigue, instaurare relazioni solide e che si dispiegano lungo progetti esistenziali che consentono l’apertura alla generatività ed all’oblatività, sono ancora, in ultima analisi, l’unico orizzonte di speranza che si apre per l’uomo del terzo millennio, immerso nel cupo e doloroso paradigma della liquidità.

4. Predigitali, generazione di mezzo, nativi digitali: il silenzio degli adulti e la sfida educativa

Come ho già detto nei paragrafi precedenti, il III millennio sembra essere caratterizzato dalla più clamorosa crisi della “relazione interpersonale”, alla quale sembra rispondere la tecnologia attraverso tutte le nuove modalità di relazione (sms, chat, social network, ecc…). La relazione interpersonale face-to-face sembra lasciare il passo a forme di tecnomediazione della stessa, che l’uomo e la donna sembrano gradire di più. Questa tecnomediazione ha rapidamente guadagnato terreno in molte forme di relazione: l’amicizia, l’amore, l’apprendimento, l’informazione e molti altri ambiti dei rapporti interumani sono profondamente sconvolti dall’incursione della tecnologia digitale. La rivoluzione digitale sembra inoltre essere alla base di una sorta di mutazione antropologica: per questo ho definito gli adulti di oggi “generazione-di-mezzo” (affascinati dalla tecnologia ed alti utilizzatori della stessa, ma dotati di un sistema mente-cervello predigitale e figli di una generazione pre-digitale oggi in estinzione) e i bambini di oggi “nativi-digitali” (cresciuti cioè in costanti immersioni telematiche attraverso i videogiochi, il cellulare, il computer, l’MP3 e pertanto dotati di nuove organizzazioni cognitive-emotive e forse di un cervello diverso). Dal mio punto di vista siamo alle soglie di una sorta di mutazione antropologica. Chi sono dunque i “nativi digitali”?

In alcuni precedenti lavori ho definito “nativi digitali” quanti nati nel III millennio e sottoposti a profonde, pervasive e precoci immersioni nella tecnologia digitale ed ho dichiarato che le osservazioni attuali già ci consentono di notare vere e proprie mutazioni del sistema cervello-mente. I nativi digitali imparano subito a manipolare parti di sé nel virtuale attraverso gli avatar e i personaggi dei videogiochi, sviluppano ampie abilità visuospaziali grazie ad un apprendimento prevalentemente percettivo, viceversa non sviluppano adeguate capacità simboliche (con qualche modificazione di tipo metacognitivo), utilizzano il cervello in modalità multitasking (cioè sanno utilizzare più canali sensoriali e più modalità motorie contemporaneamente), sono abilissimi nel rappresentare le emozioni (attraverso la tecnomediazione della relazione), un po’ meno nel viverle (anzi apprendono a scomporre l’esperienza emotiva e a viverla su due binari spesso non paralleli, quello dell’esperienza propria e quello della sua rappresentazione), sono meno abili nella relazione face-to-face, ma molto capaci nella relazione tecnomediata, e, infine, sono in grado di vivere su due re
gistri cognitivi e socioemotivi, quello reale e quello virtuale. Inoltre non hanno come riferimento la comunità degli adulti, poiché, grazie alla tecnologia, vivono in comunità tecnoreferenziate e prevalentemente virtuali, nelle quali costruiscono autonomamente i percorsi del sapere e della conoscenza.

E’ in questo contesto che si assiste ad un fenomeno straordinario: il silenzio degli adulti e lo smarrimento dei figli, che potremmo definire “figli orfani di maestri”. I “figli orfani di maestri” sono però “nativi digitali”, dunque capaci costruire comunità tecnoreferenziate di bambini e di adolescenti, dotate di tecnologie e saperi propri, che non hanno più bisogno di adulti. Ed ecco profilarsi una nuova emergenza: l’emergenza educativa.

Ho definito i genitori di oggi, utilizzando una metafora altrui divenuta ormai famosa, quella della liquidità, “genitori liquidi”. Si tratta di genitori che appartengono alla generazione-di-mezzo, capaci di utilizzare la tecnologia digitale ed anzi da essa affascinati, che hanno un profilo su facebook come i loro figli, che scimmiottano i figli stessi utilizzando il dialetto tecnologico degli adolescenti e che sono pienamente avvolti dalle dinamiche narcisistiche del contesto attuale. Sono genitori affettuosi, preoccupati per i loro figli, accudenti, ma hanno rinunciato ad educare, cioè a trasmettere visioni della vita, narrazioni, assetti valoriali e di significato, riflessioni di senso. In altri termini vogliono bene ai loro figli, sono affettuosi, accudenti ma non educanti. Il rapporto educativo è sempre l’incontro tra due libertà, tuttavia nell’ambito del rapporto genitori-figli esiste uno sbilanciamento, progressivamente riequilibrato, proprio dei due ruoli. Il genitore liquido però subisce il tema dell’ambiguità, della fluidità dei ruoli, del narcisismo e del bisogno di emozioni e la relazione educativa ne risulta sbiadita proprio nella sua essenza. In questo senso il genitore liquido è un genitore silente, che rinuncia a narrare e a narrarsi, rinuncia a trasmettere una visione della vita, a dare criteri di senso per le scelte, limitandosi ad offrire una molteplicità di scelte che non possono non determinare un profondo smarrimento nel figlio.

D’altro canto la generazione attuale vive due fenomeni a tenaglia, capaci di spegnere progressivamente la fiducia e la speranza. Il primo fenomeno è il silenziamento del desiderio: il bambino “viziato” è quel bambino i cui desideri sono soddisfatti prima ancora che li possa manifestare, sono cioè prevenuti e pertanto privi di desideri. Il secondo fenomeno è caratterizzato dall’affermarsi di una visione del futuro nella quale il futuro stesso è percepito come una minaccia e non come una attesa. I due fenomeni sono alla base di un nichilismo psicologico, che si aggira fra i giovani come un fantasma inquietante e che penetra nelle profondità dell’anima. In questo senso potremmo definire questa epoca come l’epoca delle passioni tristi, in cui sta crescendo una generazione orfana di maestri, profondamente segregata dal mondo degli adulti e, però, capace di riorganizzarsi attraverso comunità tecnoreferenziate, dotate di propri saperi, percorsi, costruzioni della conoscenza e visioni grazie ad una tecnologia capace di costruire ragnatele relazionali nuove, liquide, leggere e infinite.

A proposito dell’educazione si parla oggi di “emergenza educativa”. Gli adulti da almeno un decennio hanno progressivamente rinunciato ad educare. Ma cosa significa educare, se non farsi carico dell’altro attraverso una relazione autentica, piena, autorevole e aperta alla trasmissione di una visione valoriale e densa di significati della vita? In questo senso educare vuol dire riscoprire il valore della relazione e avviene attraverso la riscoperta della narrazione. Narrare se stessi, la propria vita, la vita della famiglia e della società nella quale viviamo significa trasmettere valori e visioni della vita. Questo richiede agli adulti una capacità innanzitutto di stare con i figli, di essere-per e di essere-con, di entrarci in relazione, di essere significativi ed anche affascinanti. Educare vuol dire anche accettare il rischio della libertà dell’altro, che può determinare momenti difficili e conflittuali. Educare vuol dire trasmettere qualcosa che ci è proprio, che è fatto nostro e dunque significa anche mettersi in discussione, perchè educare vuol dire essere autorevoli, e quindi competenti, esperti, ma soprattutto coerenti e responsabili. Se dopo il tempo della liquidità, tornerà il tempo della riscoperta del valore del legame e della relazione, questo sarà perché alcuni adulti coraggiosi avranno accettato la sfida dell’educazione, restituendo così all’umanità del terzo millennio la fiducia nella vita e la speranza nel futuro.

5. Chiesa e byte

In una recente indagine ho analizzato i numerosi siti cattolici, istituzionali e non, presenti in Rete. La Chiesa Cattolica si propone dunque in Rete con già una evidente efficacia, anche se il popolo on line sembra per certi versi ignorare questo sforzo. In Internet, come è noto, c’è tutto ed il contrario di tutto. Cosicché proliferano siti più o meno ambiguamente “religiosi”. Se da una parte la Chiesa Cattolica ha senz’altro colto l’importanza di una pastorale in Rete e non mancano tentativi di evangelizzare la Rete, d’altro canto Internet è come un mondo parallelo, dove accadono cose piuttosto strane, che si declinano nel virtuale con modalità narcisistiche, ambigue ed emozionali proprie di una visione antropologica che sembra appartenere all’abitante della società liquida postmoderna. Per esempio in Rete c’è una sorta di tentativo di dar vita a forme religiose nuove, più adatte alla tecnomediazione: la ricerca di emozioni, che la Rete esalta, può dar corso a varie forme di pseudoreligioni intriganti e inquietanti, senza contare il proliferare degli psicosantoni on line e di tante altre proposte confusive. Osservando però il popolo dei navigatori, credo che potremmo leggere quelle forme esasperate di abuso della Rete come una inconsapevole domanda di senso: è come se l’uomo d’oggi, attraverso forme di ipertecnologia, si interrogasse sul senso profondo della vita. La realtà virtuale costituisce una sorta di sfida e, a modo suo, esprime il perenne bisogno di senso dell’uomo. Tuttavia il senso di onnipotenza che la Rete può far provare può essere un profondo inganno per l’uomo e la rivoluzione digitale promette, in ultima analisi, di sollevare l’uomo dal peso fastidioso di relazioni interpersonali reali e di consegnargli narcisistiche illusioni di felicità.

Poiché dunque il rapporto con i tecnomondi oggi disponibili è ineludibile e nessuno potrà fermare la rivoluzione digitale, la domanda sul tappeto è: come è possibile abitare i mondi telematici e interagire con i nativi digitali senza scolorire o contaminare in modo fatale l’annuncio del vangelo? Il rischio infatti quello di cedere alle modalità narcisistiche, emozionali e ambigue della tecnologia digitale, rinunciando all’autenticità della relazione interpersonale e alla sua feconda generatività.

6. Quale sarà il futuro prossimo venturo?

L’intrecciarsi della rivoluzione digitale con il tema della liquidità appare come un abbraccio fatale tra due fenomeni profondamente complementari, capaci di sostenere una sorta di mutazione antropologica, che ho cercato di descrivere nei paragrafi precedenti e che trova il suo cortocircuito nell’impatto tra il sistema mente-cervello e la tecnologia digitale, disegnando così l’emergere di una generazione che ho definito “nativi digitali”. La tecnomediazione del vangelo, come modalità semplice di interazione con i nativi digitali, ha in sé un rischio: quello di assimilare alla liquidità l’annuncio evangelico, contaminandolo forse in modo fatale con la visione antropologica narcisistico-emotiva pro
pria della rivoluzione digitale. Ovviamente questo non significa ignorare le enormi potenzialità comunicative della tecnologia digitale, ma piuttosto piegarle alle esigenze di un uso più strumentale che collusivo. Tuttavia rimane necessario individuare su quali pilastri rifondare una possibile trama che consenta di articolare risposte risananti ai bisogni dell’uomo, che i paradisi telematici prossimi venturi non potranno comunque colmare. In più circostanze, sollecitato a dare risposte a questo interrogativo, ho sostenuto che occorre puntare su tre processi irrinunciabili:

la necessità di ricostruire percorsi narrativi dell’identità, che consiste nel dare la possibilità di elaborare trame narrative nelle quali connettere i tanti frammenti identitari dell’uomo liquido: questo significa che dopo l’impatto emotivo di ogni risposta-proposta occorre recuperare la fascinazione della narrazione di sé, del proprio gruppo e del mondo, come modalità propria per la costruzione dell’identità;

la necessità di recuperare il gusto del bello: la tecnologia manifesta tutto e utilizza la percezione in modo esaustivo, il bello rimanda sempre a qualcos’altro e utilizza la percezione in modo simbolico e metaforico;

la necessità, questa sì assoluta ed irrinunciabile, di accogliere l’altro nell’ambito di relazioni interpersonali sane e risananti, riscoprendo la potenzialità terapeutica della relazione umana.

Su questi tre punti a mio parere vanno ricostruiti mondi, anche telematici, oltre che reali, che declinino queste necessità nei luoghi, nel tempo e nell’organizzazione sociale.

Bibliografia

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ZENIT Staff

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