I giovani e il relativismo morale

Le difficoltà e le opportunità della futura generazione

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di Carl Anderson*

NEW HAVEN (Connecticut), mercoledì, 14 aprile 2010 (ZENIT.org).- Venticinque anni fa, Papa Giovanni Paolo II inaugurava la Giornata mondiale della gioventù, da svolgersi nella Domenica delle Palme di ogni anno. Il Papa aveva compreso – come lo ha compreso Benedetto XVI – che il futuro della Chiesa dipende dai giovani, dalla futura generazione di cattolici siano essi genitori, sacerdoti oppure religiosi.

Ma entrare in contatto con la nuova generazione non è sempre facile, soprattutto quando i giovani sono inondati di messaggi che li spingono verso una visione “relativistica” della morale, verso un sistema di valori in cui i valori fondanti sono scelti in modo soggettivo e non sono considerati universalmente validi.

È proprio questa interpretazione relativistica della vita di cui Papa Benedetto XVI aveva parlato nei giorni immediatamente precedenti la sua elezione, mettendo in guardia dalla “dittatura del relativismo”.

Certamente il problema del relativismo esiste tra i giovani di oggi. Secondo un recente sondaggio, svolto dai Cavalieri di Colombo in collaborazione con il Marist Institute for Public Opinion, l’82% dei cattolici tra i 18 e i 29 anni considerano la morale come “relativa”.

Si tratta di un numero sconcertante, ma fortunatamente è più un dato statistico che una realtà effettiva. Anzitutto, la maggioranza dei cattolici “praticanti” non è d’accordo. In secondo luogo, l’82% che si considera relativista, in realtà non applica in modo sistematico il relativismo alle questioni morali.

Quando sono stati messi di fronte a una serie di questioni morali, gli stessi giovani cattolici sedicenti relativisti hanno considerato questioni come l’aborto o l’eutanasia come “moralmente sbagliate”, mentre avrebbero potuto classificarle come “questioni non morali”, come avrebbe logicamente fatto un vero relativista.

Incongruenze

Il relativismo, diversamente dalla verità, conduce proprio verso questo tipo di pensiero incongruente e dunque non può rappresentare in definitiva una filosofia di vita esaustiva.

Papa Benedetto XVI ha continuamente cercato di offrire un messaggio di verità, in grado di superare il fascino del relativismo. In occasione della XXV Giornata mondiale della gioventù, il Pontefice si è rivolto ai giovani radunati in Piazza San Pietro per la Messa della Domenica delle Palme incoraggiandoli ad una vita fondata sulla verità.

Durante l’Angelus successivo alla Messa, egli ha fatto appello “alla nuova generazione, a dare testimonianza con la forza mite e luminosa della verità, perché agli uomini e alle donne del terzo millennio non manchi il modello più autentico: Gesù Cristo”.

La verità, nella persona di Gesù Cristo, è il fondamento per una testimonianza di fede. È un’affermazione semplice ma allo stesso tempo profonda.

Per dare testimonianza alla verità che è Cristo, occorre avere un rapporto personale con lui. Come aveva sottolineato dieci anni fa l’allora cardinale Joseph Ratzinger, rivolgendosi ai catechisti e agli insegnanti di religione, l’arte di vivere “la può comunicare solo chi ha la vita – colui che è il Vangelo in persona”.

Non possiamo pensare di cambiare la cultura o di influenzare le persone se noi stessi non diamo autentica testimonianza a Cristo, conoscendolo personalmente. E non possiamo pretendere dai giovani di dare testimonianza ai propri coetanei, senza avere prima sviluppato un rapporto con Cristo che possa essere presentato in modo autentico.

La Domenica delle Palme, il Papa ha anche ribadito “a tutti i giovani e le giovani […] che l’essere cristiani è un cammino, o meglio: un pellegrinaggio, un andare insieme con Gesù Cristo. Un andare in quella direzione che Egli ci ha indicato e ci indica”.

Questo non significa che sia facile per i giovani essere cristiani di fronte ai propri coetanei.

Non abbiate paura

Il Papa riconosce questa difficoltà quando dice: “non temete quando il seguire Cristo comporta incomprensioni e offese. Servitelo nelle persone più fragili e svantaggiate, in particolare nei vostri coetanei in difficoltà”. Un messaggio che per molti versi può essere condiviso dai giovani.

Chi – persino tra i più relativisti – potrebbe rifiutare o non essere toccato dalla testimonianza di un proprio coetaneo che cerca di aiutare chi è in difficoltà? È la predicazione con le opere, più che con le parole, che spesso può dare i maggiori frutti.

Il messaggio cristiano di amore a Dio e al prossimo è, invece, coerente e appagante. Tuttavia, ciò di cui il messaggio ha bisogno, per essere accolto da coloro che cercano risposte alla loro vita, è la concreta testimonianza dei propri coetanei e delle generazioni precedenti.

Solo alla luce della verità, la Passione di Cristo può avere un senso. Dal punto di vista relativistico, la morte di Cristo per gli altri è priva di senso – a meno che non sia morto per se stesso – poiché il resto dell’umanità non avrebbe bisogno né di lui, né della sua salvezza.

Il compito nostro è di portare la verità a quei giovani cattolici che la cercano, a quei due terzi degli intervistati nel citato sondaggio, che si sono dimostrati desiderosi di approfondire la propria fede.

Nel dare testimonianza alla passione, morte e resurrezione di Cristo, accogliamo quell’amore a Dio e al prossimo per poterlo effettivamente condividere con i nostri coetanei e con le future generazioni.

Facciamo nostre le parole di San Francesco: “Predicate il Vangelo, e se è proprio necessario usate anche le parole”.

——–
Carl Anderson è il Cavaliere supremo dei Cavalieri di Colombo e autore di bestseller secondo la classifica del New York Times.

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ZENIT Staff

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