di Jesús Colina
ROMA, martedì, 13 aprile 2010 (ZENIT.org).- Un affascinante “giallo” avvolge il cosiddetto “velo della Veronica”, la reliquia che mostra l’immagine del volto di Cristo. Non una “seconda” Sindone, quasi in contrapposizione al Telo torinese, ma un complementare tessuto funerario di Gesù che il Vangelo di Giovanni identifica come “il sudario, che era stato sul suo capo”.
È questa, secondo il giornalista Saverio Gaeta, la reale essenza del Volto Santo, il finissimo velo attualmente custodito nel santuario abruzzese di Manoppello.
Gaeta, caporedattore di Famiglia Cristiana e autore di numerosi saggi di ambito religioso (fra cui la recente biografia su Giovanni Paolo II Perché è santo), ha approfondito questa affascinante tematica nel libro L’enigma del volto di Gesù (Rizzoli, 270 pagine, 18,50 euro), pubblicato in contemporanea con l’ostensione della Sindone a Torino.
Secondo la sua ricostruzione, in che modo queste due reliquie convivevano in Medio Oriente nei primi secoli cristiani?
Gaeta: A metà del primo millennio l’attuale Sindone era conosciuta come Mandylion e si trovava a Edessa (oggi Urfa, in Turchia), mentre il Volto Santo era custodito a Camulia (presso l’attuale città turca di Kayseri). La loro contiguità è dimostrata dalla sequenza di monete a Costantinopoli. Nel 692 l’imperatore bizantino Giustiniano II fece incidere un volto di Cristo di tipo “semitico”, come quello di Manoppello. Nel 705, dopo che il velo era stato portato a Roma dal patriarca Callinico accecato ed esiliato, il nuovo volto divenne più simile all’immagine degli dèi della tradizione “ellenistica”. Nell’869, alla cessazione delle lotte iconoclaste, sulle monete prevalse la rappresentazione dell’Uomo sindonico, come è mostrato nel solidus aureo di Basilio I. Lo dimostrano i piedi che sporgono dal manto regale, il sinistro proteso in avanti e il destro ruotato di 90°: proprio l’impressione che offre la Sindone, dove una gamba sembra più corta dell’altra a causa della rigidità cadaverica che fissò la sovrapposizione del piede sinistro sul destro.
C’è un legame della Sindone e del Volto Santo con l’iconografia di Gesù?
Gaeta: Certamente. Proprio queste due immagini sono state all’origine dell’iconografia cristiana. Lo ha dimostrato padre Heinrich Pfeiffer, docente di Storia dell’arte cristiana nella Pontificia università gregoriana, il quale ha documentato come il volto della Sindone sottolinei più la struttura ossea, mentre quello di Manoppello appaia più rotondo. Così tutti i mosaici del Cristo Pantocratore a Costantinopoli, in Grecia e in Sicilia rappresentano il tipo che palesa principalmente la Sindone come modello. Le immagini di Cristo dell’arte fiamminga del Quattrocento sono invece piuttosto da mettere in rapporto con il Volto Santo di Manoppello.
La copertina del suo libro mostra una sovrapposizione fra il viso della Sindone e il Volto Santo. Di che cosa si tratta?
Gaeta: È la scoperta fatta dalla trappista Blandina Schlomer, che ha trovato numerosi “punti di congruenza” fra il volto della Sindone e quello di Manoppello, dopo aver individuato alcuni precisi criteri come denominatore comune delle antiche icone raffiguranti Gesù: il viso asimmetrico, la barba rada a doppia punta, le alette asimmetriche del naso, l’orbita oculare visibile anche al di sotto dell’iride, la ciocca di capelli al centro della scriminatura. Successivamente padre Andreas Resch, lavorando al computer, ha raffinato ancor più la sovrapposizione, delineando diverse aree che rappresentano i “punti di riferimento” utili anche per paragonare le due immagini con le antiche raffigurazioni artistiche. Si è così giunti a un perfetto livello di sovrapposizione, che mostra una vera e propria fusione tra i due Volti.
Secondo la sua ricostruzione, il Volto Santo giunse a Roma nell’VIII secolo e poi cominciò a essere esposto in San Pietro nel XIII secolo. Che cosa accadde in seguito?
Gaeta: Nell’immaginario collettivo il Volto Santo ha sempre rivestito una grande importanza. Fu così soprattutto a partire dal 1300, quando venne proclamato il primo Giubileo della storia cristiana, che proprio nella frequente esposizione del cosiddetto «velo della Veronica» ebbe uno dei suoi aspetti più qualificanti. Il 6 maggio 1527 si verificò a Roma il cosiddetto «sacco» durante il quale moltissimi oggetti preziosi furono depredati anche da San Pietro: fra essi ci fu certamente il Volto Santo. Il Vaticano, però, non ammise mai questa sparizione, in quanto era in corso la costruzione della nuova basilica di San Pietro e occorreva far continuare l’afflusso dei pellegrini che giungevano per vedere il Volto Santo, le cui offerte erano indispensabili per far fronte ai costosissimi lavori.
E intanto il velo aveva raggiunto l’Abruzzo?
Gaeta: Sì, la vera immagine di Cristo, dopo alcune peripezie, arrivò a Manoppello nel 1618, con l’acquisto da parte del dottor Donato Antonio De Fabritiis, il quale nel 1638 lo donò ai cappuccini. Il 6 aprile 1646 fu esposto per la prima volta alla pubblica venerazione dei fedeli. Il 1° settembre 2006, durante la visita nel santuario, Benedetto XVI è stato il primo Papa a poter rivedere e venerare la reliquia mezzo millennio dopo la sparizione dalla basilica di San Pietro.
Ci sono anche delle prove scientifiche che confermano le straordinarie caratteristiche del tessuto?
Gaeta: Proprio così, sul velo sono state fatte diverse analisi. Il professor Donato Vittore ha dimostrato che nell’interspazio tra il filo dell’ordito e il filo della trama non si evidenziano residui di colore. Il professor Giulio Fanti, dell’Università di Padova, ha rilevato che l’immagine sui due lati del velo non è identica. Per esempio la ciocca di capelli nel mezzo della fronte è una delle particolarità che giocano a favore delle ipotesi di un’immagine non realizzata da mano d’uomo. Non si spiega come un artista abbia potuto dipingere un segno sul volto di questo velo molto sottile e un segno diverso sul volto opposto. Indagini con la lampada di Wood hanno inoltre consentito di affermare che sul tessuto non ci sono sostanze organiche naturali come olii, grassi e cere, tradizionali leganti pittorici, mentre la spettroscopia Raman ha evidenziato che la natura della fibra è di tipo proteico (come il bisso marino) e non vegetale (come sarebbe invece il lino).