JOS (Nigeria), lunedì, 29 marzo 2010 (ZENIT.org).- La Nigeria è uno dei Paesi più popolati dell’Africa, in cui vivono gruppi etnici e religiosi diversi costretti a vivere uniti durante il governo coloniale britannico.
Eppure questa convivenza ha perdurato nonostante le tensioni. Oggi la pace è scomparsa e l’Arcivescovo di Jos, Ignatius Kaigama, si domanda il perché.
Sebbene si dica che i contrasti scaturiscano dalle tensioni tra musulmani e cristiani, il presule di 51 anni sospetta che vi siano altri motivi meno evidenti.
Monsignor Kaigama ha parlato delle difficoltà della Nigeria al programma televisivo “Where God Weeps” gestito da Catholic Radio and Television Network (CRTN), in collaborazione con Aiuto alla Chiesa che soffre.
Effettivamente vi sono state tensioni tra cristiani e musulmani nel Nord della Nigeria e più di recente nella parte centrale, dove si trova Jos. Qual è la radice del problema?
Monsignor Kaigama: Credo che tutto nasca dalla convinzione che una religione debba prevalere sull’altra. Questo tipo di propaganda è in atto sia nell’Islam che nel Cristianesimo: ogni religione vuol controllare, più o meno, l’intero sistema e per questo si crea questa competizione. E dove, per esempio, nell’ultimo periodo è stata introdotta la Sharia, nella sua forma attuale, i cristiani si sono sentiti minacciati e a causa di ciò vi sono state forti tensioni, e i rapporti sono degenerati, con lo scoppio delle violenze. Questo è testimoniato dal fatto che in Nigeria vi sono state numerose crisi religiose, la maggior parte delle quali verificatesi nel Nord. E dall’introduzione della Sharia queste crisi sembrano riaffiorare con regolarità.
Qual è la preoccupazione principale dei cristiani di fronte all’introduzione della legge islamica in Nigeria?
Monsignor Kaigama: La Sharia, così come è stata introdotta di recente, è un po’ diversa da come era in passato. La Sharia esiste da tempo in Nigeria, ma cristiani e musulmani hanno sempre vissuto in pace e convissuto bene. Dalla recente introduzione della Sharia, i cristiani si sentono minacciati perché sono una minoranza in quella zona e hanno perso molto.
Per esempio, se nella tua attività vendi alcolici, la Sharia non lo consente, e quindi devi chiudere. Persino il modo di vestirsi e la libertà di culto e di religione sono minacciati. Quindi i cristiani hanno buoni motivi per essere preoccupati ed è per questo che molti hanno abbandonato quelle zone e chiuso le loro attività. L’incertezza è tale per cui le violenze possono esplodere da un momento all’altro. Per evitare il rischio, la gente se ne va e chiude le proprie attività. È così che stanno andando le cose.
Se non sbaglio nello Stato di Zamfara, per esempio, gli uomini e le donne non possono viaggiare insieme sui trasporti pubblici e devono osservare il codice d’abbigliamento islamico. Esiste quindi una forte pressione sociale, anche sui cristiani, derivante dalla legge islamica?
Monsignor Kaigama: Assolutamente sì. Se devi prendere l’autobus, ti dicono di prendere quello successivo perché questo sta portando solo donne, o solo uomini. È un problema. E quando non è facile fruire dei servizi pubblici, la vita si complica. Credo che tutto ciò abbia veramente creato forti tensioni, perché la gente, dopo una giornata di duro lavoro ha bisogno di potersi rilassare, di andare al cinema o a bere un bicchiere insieme. Ma ciò non è fattibile in questo contesto, la vita diventa molto noiosa e, come ho detto, la violenza può facilmente esplodere in queste circostanze.
Nella parte meridionale della Nigeria, ancora prevalentemente cristiana, un musulmano ha la libertà di convertirsi al Cristianesimo. Ma nel Nord questo non è possibile. Nella pratica cosa succede? Se nel Nord della Nigeria un giovane le si avvicina con il desiderio di convertirsi al Cristianesimo, cosa potrebbe succedere?
Monsignor Kaigama: Effettivamente ho incontrato giovani che sono venuti da me chiedendomi aiuto. Erano giovani hausa o fulani che erano venuti a dirmi: noi siamo musulmani ma vorremmo diventare cristiani. E mi hanno detto che erano già stati minacciati di morte. Erano stati buttati fuori dalle loro case, minacciati di morte e ora erano da me a chiedere aiuto.
Non è facile perché quando accogli queste persone, diventi un possibile bersaglio di aggressioni. Quindi cerchiamo di distinguere chi ha un autentico desiderio di conversione, perché qualcuno potrebbe presentarsi con l’intenzione di infiltrarsi. Una volta che siamo sicuri della buona fede cerchiamo di aiutarli. In moti casi chiedo ai miei catechisti di assisterli nel loro cammino e la cosa funziona. Ma in alcuni casi ti accorgi che hanno qualche altra motivazione non del tutto chiara. Allora gli si dice chiaramente che possono tornare alla loro religione, essere bravi musulmani ed è tutto a posto. In quei momenti scopri che sono mossi da qualche altra motivazione.
Perché gli eventi di carattere internazionale hanno ripercussioni così violente in Nigeria?
Monsignor Kaigama: Credo per ignoranza. Siamo rimasti tutti sconcertati dalle dimostrazioni violente contro le vignette danesi. Pensavamo che non avessero nulla a che fare con noi, ma come ho detto, forse per ignoranza, l’intolleranza è sfociata in queste violenze.
Abbiamo convissuto per lungo tempo, senza che vi fosse mai stato un episodio chiaro di violenza religiosa. D’improvviso esplode. E noi continuiamo a chiederci perché. Siamo sicuri che questa è religione? Potrebbero esserci altri motivi. Forse i politici, per raggiungere i propri scopi, usano la religione come strumento. E questo è successo. Alle volte sono i fattori economici a creare queste tensioni, come i giovani disoccupati che reagiscono in questo modo contro cose che in realtà non li riguardano.
Trovo quindi difficile credere che sia la religione a generare queste terribili violenze e distrazioni. L’ignoranza e poi forse anche la religione, strumentalizzata come arma politica o etnica da alcune personalità, potrebbero essere un motivo.
Più di 300 chiese sono state distrutte in quattro anni, se non vado errato. Come è possibile per i cattolici vivere la loro fede in questo contesto?
Monsignor Kaigama: Bisogna vivere giorno per giorno e imparare a sopravvivere. Non credo che tutte queste aggressioni e persecuzioni ci porteranno a rinnegare Nostro Signore Gesù Cristo o a rinnegare la nostra fede. La vita deve andare avanti.
Quando una chiesa viene distrutta, se ne raccolgono i pezzi e si va avanti. Nell’Arcidiocesi di Jos esistono in questo momento molte chiese che sono state distrutte. Ma negli ultimi sei mesi abbiamo cercato di ricostruirle. Ci possono distruggere le chiese, ma non ci possono distruggere lo spirito cristiano che ci anima. E questo è ciò che continuiamo a fare. Incoraggiamo i nostri cristiani a difendere la nostra fede. Li incoraggiamo a evitare la vendetta, a evitare la violenza. Sempre predichiamo la cultura della non violenza, perché è a questo che la nostra fede ci chiama. È a questo che Nostro Signore Gesù Cristo ci invita: a porgere l’altra guancia. E noi continuiamo a porgere, forse lo stomaco, forse la gamba. Ma questo non significa che i cristiani siano stupidi. Sappiamo bene cosa facciamo. È per il bene comune e dobbiamo evitare di rispondere con la stessa moneta. Se lottiamo, attacchiamo e uccidiamo, l’intera zona verrebbe annientata. Quindi proponiamo il dialogo come l’unica opzione fattibile.
Accennava al fatto che state lavorando alla ricostruzione delle chiese, ma che anche questo è difficile. Riuscite ad ottenere i permessi per costruire. Come è, per esempio, la situazione con il governo locale nella vostra zona?
Monsignor Kaigama: Nella mia Arcidiocesi non è un problema, perché abbiamo una forte presenza cristiana. Ma se consideriamo zone come Kano o Sokoto, lì non è facile ottenere i permessi per costruire una
chiesa. Possono autorizzare la costruzione di un ospedale, una clinica o una scuola, perché sono servizi sociali per la popolazione, ma quando si parla di costruire una chiesa, pensano che lo scopo sia quello di propagare la fede cristiana e questo viene contrastato.
Quindi, direttamente o indirettamente, viene negato l’accesso alla terra o il permesso di costruire per portare la gente in chiesa. Questo è indubbio. Per esempio, a Kano sono state costruite chiese durante la notte e alcune persone della zona sono venute a distruggerle. Allora si deve iniziare tutto da capo. Il problema quindi esiste, ma questo non raffredda il nostro spirito cristiano.
Molti cristiani, impauriti da questa recente esplosione di violenze, hanno fatto i bagagli e sono partiti per il Sud. Questo mette a rischio la presenza del Cristianesimo nel Nord della Nigeria?
Monsignor Kaigama: Sì, molti cristiani del Sud, che vivono e lavorano al Nord, ritornano a casa nei periodi di crisi, perché quando le loro attività economiche vengono distrutte, e le loro case rase al suolo, non hanno motivo di continuare a restare.
Ma questo non significa che il Cristianesimo sia morto nel Nord, perché esistono sempre le popolazioni indigene. Per esempio, a Kano, c’è l’etnia maguzawa. Sono hausa, anche se normalmente si pensa che siano tutti musulmani. Aderiscono alla religione tradizionale, ma quando non sono di quella religione, sono cattolici, anglicani o altro. Quindi stanno lì e non si spostano.
L’unico problema è che soffrono molto a causa della loro identità e fede cristiane. Gli viene negato l’accesso all’istruzione, non possono arrivare ai vertici della pubblica amministrazione, solitamente sono impiegati come guardiani, fanno le pulizie, e cose simili. Difficilmente arrivano più in alto. E questo è ciò che subiscono per essere cristiani.
La Chiesa è accorsa ad aiutarli in modo incisivo, per dargli la possibilità di crescere, avviando scuole primarie, costruendo chiese nella foresta, per favorirne l’unione, la consapevolezza, la vitalità. E sta funzionando. Attualmente abbiamo almeno cinque persone provenienti da questo gruppo etnico che sono diventati sacerdoti e che stanno lavorando molto bene. Questo per dire a che punto siamo riusciti ad arrivare e che nonostante la Chiesa cattolica sia perseguitata, vi sono persone che vivono lì e che sono ancora pronte a sacrificare tutto per proclamare la loro fede e identità cristiane.
Lei ha scritto un libro intitolato “The Dialogue of Life”, in cui manifesta la speranza che il dialogo della vita possa rappresentare uno strumento attraverso il quale unire cristiani e musulmani. Cosa è il “dialogo della vita”?
Monsignor Kaigama: Diversamente da un approccio teorico e intellettuale, io propongo un dialogo della vita, basato su quei momenti di contatto tra cristiani e musulmani che vivono insieme e interagiscono quotidianamente. Cristiani e musulmani si ritrovano insieme in alcuni impegni sociali. Si ritrovano insieme – quindi non stiamo parlando di teoria – per le attività di ogni giorno: per la celebrazione dei matrimoni, dei diplomi scolastici, per il conferimento di un titolo di capo tribù. Spesso si ritrovano insieme, e per me questo rappresenta una via d’uscita. Quando tu tocchi la mia vita come musulmano e io tocco la tua come cristiano, credo che qualcosa avvenga e credo che questo possa portare a una maggiore comprensione e creare un’atmosfera di pacifica coesistenza. Io credo nel dialogo della vita. Non nel dialogo in senso teorico, ma a come questo incide sulla vita nella sua esistenza quotidiana.
Sta funzionando?
Monsignor Kaigama: Funziona. Per questo ho scritto quel libretto sul dialogo della vita, che racconta della mia esperienza nel rapporto con i musulmani. Ed ha funzionato.
Per esempio, con l’emiro di Wase è di recente nata un’amicizia. Egli è il presidente dei musulmani nello Stato di Plateau. È un emiro potente e da quando sono diventato Arcivescovo abbiamo lavorato insieme. Sono andato a visitarlo molte volte. Recentemente ho celebrato il 25° anniversario della mia ordinazione e lui era presente e ben rappresentato. Mi ha persino fatto recapitare in dono una grande mucca. E questo come è stato possibile? Chi ci vede dice: sono grandi amici. E questo perché io sono andato da lui e lui è venuto da me. Io gli ho fatto visita in occasione della Sallah (una celebrazione islamica), andando a casa sua, tra la sua gente. Io ero lì, ho portato alcuni sacerdoti, suore e fedeli cristiani. Siamo andati a salutarlo e a offrirgli la nostra amicizia. E lui ha ricambiato.
Quando ho ricevuto una lettera dal Vaticano sulla celebrazione della Sallah, ne ho portato una copia alla moschea. Anche lì, ho invitato alcuni musulmani a cui ho presentato la lettera del Papa indirizzata a loro. Erano molto felici di vedere che ci avvicinavamo a loro. L’anno seguente sono venuti da me, nel mio ufficio, per farmi gli auguri di Natale.
Quindi come vede stiamo facendo progressi. Recentemente sono stato nuovamente ospitato dall’emiro di Wase. Sono rimasto a casa sua per due giorni. Lui mi ha offerto alloggio e abbiamo parlato di tante cose. Abbiamo visitato i villaggi per predicare il messaggio della pace e della pacifica convivenza tra cristiani e musulmani. E credo che stia funzionando.
Il suo brano preferito della Bibbia è Filippesi 3,10. [“...Conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte...”]. Perché questo brano è così importante per lei?
Monsignor Kaigama: Perché per essere partecipi della resurrezione di Cristo dobbiamo partecipare alle sue sofferenze. Tra l’altro questo è anche il mio motto episcopale: Per Crucem ad Dei Gloria – Attraverso la croce, alla gloria di Dio.
Io credo che dopo la sofferenza, la persecuzione, dopo tante difficoltà, possiamo essere elevati alla gloria di Dio, come ha fatto Cristo, il quale ha dovuto soffrire. Ha dovuto morire. Ha dovuto soffrire molto per noi ed è stato elevato nella gloria.
Io credo che nessun risultato arrivi senza sforzo. Il mio rapporto con i musulmani non è facile. Il mio lavoro pastorale è pieno di difficoltà. Quando vado sul campo vedo la sofferenza della gente. Vedo la fame e la malattia. Vedo la gente che non può soddisfare i bisogni basilari. Vedo persone che soffrono l’ingiustizia. Vorrei identificarmi con loro ed è per questo che, come pastore, vado da loro e sto con loro. Bevo la loro acqua sporca. Mangio il loro cibo per condividere la loro agonia e i loro patimenti. E credo che vi sia una ricompensa per questo. Quando soffriamo per Cristo credo che vi sia una grande ricompensa che ci aspetta. Non dovremmo considerare la sofferenza come una condanna di Dio, ma come una sfida e un cammino verso la gloria.
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Questa intervista è stata condotta da Mark Riedemann per "Where God Weeps", un programma televisivo e radiofonico settimanale, prodotto da Catholic Radio and Television Network in collaborazione con l'organizzazione internazionale Aiuto alla Chiesa che soffre.