* * *

Dividerò la mia riflessione in due parti. Nella prima, vorrei molto semplicemente presentare la visione cristiana dell’amore; nella seconda richiamare l’attenzione su ciò che oggi insidia questa visione  nella cultura occidentale e nel cuore di un giovane.

1. La visione cristiana dell’amore

Inizio da un testo di K. Wojtyla desunto dalla sua opera drammatica La bottega dell’orefice: «Non esiste nulla che più dell’amore occupi sulla superficie della vita umana più spazio, e non esiste che più dell’amore sia sconosciuto e misterioso. Divergenza tra quello che si trova sulla superficie e quello che è il mistero dell’amore: ecco la fonte del dramma. Questo è uno dei grandi drammi dell’esistenza umana» [In Tutte le opere letterarie, Bompiani ed., Milano 2001, pag. 821].

Noi vogliamo questa mattina entrare in questo “grande dramma dell’esistenza umana”, per scoprire la via che conduce l’uomo fuori dalla “divergenza” e dalla dilacerazione fra “quello che si trova sulla superficie” e quello che è “il mistero dell’amore”. Vorrei percorrere con voi un vero e proprio itinerario  della mente verso la verità e la bellezza dell’amore.

1,1. - Il punto di partenza è singolare ed in un certo senso sconvolgente. Quando la proposta cristiana parla di amore, non parla in primo luogo e principalmente dell’uomo, di un vissuto umano. Parla dello stesso mistero di Dio. Il soggetto del discorso cristiano circa la verità e la bellezza dell’amore non è l’uomo ma Dio stesso. Alla domanda “che cosa è l’amore”, la fede cristiana risponde: è la condotta di Dio verso l’uomo e la radice di questa condotta. La narrazione di questa condotta, e quindi la rivelazione della sua intima verità e bellezza, è la S. Scrittura; ed il vertice di questa rivelazione è Gesù Cristo.

C’è la possibilità per la persona umana di contemplare la bellezza di questo amore e di conoscerne la verità? In realtà, c’è una sola possibilità, una sola via che ci porta alla conoscenza della verità dell’amore: sperimentare l’amore.

L’esperienza dell’amore di Dio  per l’uomo in Cristo è ciò che mi consente di conoscerlo. Questa esperienza ha come due aspetti. Dal punto di vista dell’oggetto, l’amore di Dio in Cristo deve mostrarsi indirizzato a me [«mi ha amato e ha dato se stesso  per me»]. Dal punto di vista del soggetto deve esserci una attitudine di attesa, di domanda [la S. Scrittura, la narrazione obiettiva dell’amore di Dio, termina con un’invocazione: «vieni»]. «La risposta della ragione all’avvenimento appare ultimamente come una domanda, per l’indigenza essenziale che la caratterizza nella sua stessa vitalità: vieni!» [C. Di Martino, La conoscenza è sempre un avvenimento, Mondadori Università, Milano 2009, pag. 33].

Alla domanda pertanto se l’uomo possa conoscere la verità dell’amore potrei rispondere dicendo che l’unica possibilità è sentirsi amato. Teologicamente rispondo: l’unica possibilità è ricevere in sé lo Spirito Santo.

Esiste però un “luogo” in cui il mistero dell’amore di Dio in Cristo si dona all’uomo? Esiste, ed è la celebrazione dell’Eucarestia. Tommaso arriverà quindi a scrivere: «in questo sacramento è la sintesi di tutto il mistero della nostra salvezza» [3,83,4]. La conoscenza per esperienza [non è possibile un’altra] ha la sua sorgente nella partecipazione all’Eucarestia. È una conoscenza mediante l’Eucarestia.

L’amore che Dio in Cristo nutre per l’uomo per farsi capire ha bisogno di dirsi in un linguaggio umano. E così è accaduto. Dio ha detto all’uomo il suo amore servendosi del linguaggio dell’amore coniugale, dell’amore parentale [paterno e materno], dell’amore di amicizia.

Questo triplice linguaggio è però come attraversato da un significato che lo trascende smisuratamente. Questo triplice linguaggio veicola un significato che lo rende indicativo di una realtà che non ha paragoni [«chi è pari al Signore nostro Dio?»]: la gratuità, la pura gratuità. È questa la cifra propria dell’amore di Dio. Tommaso dice profondamente che il primo dono che Dio ci ha fatto è di aver deciso di amarci; e tutti gli altri doni sono una conseguenza. E decidere di amarci significa decidere di comunicare Se stesso all’uomo, la sua Vita stessa.

Tuttavia “gratuità” non significa “indifferenza alla risposta” dell’uomo: un Dio che non mi desidera e veramente non si appassiona per la mia risposta, non mi amerebbe veramente. L’amore di Dio in  Cristo è gratuità e desiderio.

1,2. - La Rivelazione cristiana quando parla dell’amore non parla però soltanto dell’amore di Dio. Come scrive Benedetto XVI, «la fede biblica non costruisce un mondo parallelo o un mondo contrapposto rispetto a quell’originario fenomeno umano che è l’amore, ma accetta tutto l’uomo intervenendo nella sua ricerca di amore per purificarla, dischiudendogli al contempo nuove dimensioni» [Lett. Enc. Deus caritas est 8].

Questo testo è assai importante. Esso fa tre affermazioni fondamentali: l’amore è un fenomeno umano originario ; la rivelazione biblica ha una funzione purificatrice; la medesima ha una funzione elevante. Brevemente: la capacità di amore è costitutiva della persona umana, ma essa ha bisogno di essere sanata ed elevata.

Esiste un testo di S. Basilio che ci può aiutare ad una comprensione profonda di tutto questo. Esso dice: «abbiamo insita in noi, fin dal primo momento in cui siamo plasmati, la capacità di amare. E la prova di questo non viene dall’esterno, ciascuno può rendersene conto da sé e dentro di sé. Di ciò che è buono infatti proviamo naturalmente desiderio» [Le regole, Ed. Qiqaion, Bose 1993, pag. 79]. L’esperienza che ciascuno ha in sé dell’amore è di un desiderio, di un movimento [ad-petitus] verso ciò che è buono, verso ciò che è bello. Il tempo a disposizione non mi consente di approfondire questa definizione di amore – l’amore è il desiderio naturale del bene – come meriterebbe. Mi limito ad alcune osservazioni fondamentali.

Quando si dice “bene” [«di ciò che è buono … proviamo naturalmente desiderio»]si intende qualcosa/qualcuno che ha in sé una perfezione tale [morale, estetica, fisica …] da non lasciarci indifferenti, da attirare la nostra attenzione, da suscitare in noi e motivare una risposta [von Hildebrandt la chiama Beruehrens-beziehung]. Il nostro desiderio e sempre risposta a qualcosa/qualcuno che ha in sé ragione di essere desiderato.

Quando però parliamo di amore intendiamo la risposta [nel senso suddetto] di una persona ad una persona: è una relazione inter-personale. Ma nel senso forte: non solo a causa dei valori [morali, estetici, fisici…] posseduti dalla persona, ma è relazione alla persona stessa come tale. È una risposta spirituale, che implica cioè la conoscenza-valutazione [del valore] della persona: non del tipo stimolo-risposta, bisogno-soddisfazione. È una risposta del cuore, eminentemente affettiva: per dire con verità “amo” non basta dire “voglio amare”. È un coinvolgimento della persona trasportata verso l’altra.

E quindi è una risposta che implica il desiderio unitivo; che desidera la felicità della persona amata; ed anela ad essere corrisposto. Platone per primo ha visto profondamente che l’amore – lo possiamo ora definire: la risposta affettiva al valore [della], che è la persona dell’altro, fatta propria dalla libertà – ha in sé un enigmatico paradosso: è figlio di Póros, la ricchezza, e di Penía, la povertà. Il paradosso consiste nella tensione insita nell’amore al dono di sé, da una parte; e dall’altra,  nella tensione che l’altro corrisponda, che l’altro accetti il dono, vi corrisponda donandosi. L’intenzione oblativa sembra contrariare l’intenzione possessiva.
Il S. Padre scrive, come abbiamo visto, che tutto l’uomo è accettato: dunque ambedue le intenzioni sono costitutive dell’amore umano. Nessuna delle due va negata. È questa dialettica fra oblazione e possesso che costituisce il punto di aggancio nell’uomo della rivelazione biblica dell’amore con l’amore in quanto originario fenomeno umano. Per comprendere ciò partiamo da un testo paolino che recita: «la speranza non delude, poiché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori mediante lo Spirito Santo che ci è stato donato» [Rom 5,5].


L’amore di Dio non significa: l’amore con cui noi amiamo Dio; ma significa: con cui Dio ama noi. Si parla dunque dell’amore divino stesso. Di esso l’Apostolo dice che è stato «riversato nei nostri cuori». Dio fa “sentire” l’amore – la sua misura e la sua qualità – che nutre per noi: ce ne dona l’esperienza. Non solo nel senso che ce lo fa conoscere: il testo non dice lo “riversa nella mente”. Ma nel senso che lo fa sentire in quello che è l’organo proprio dell’amore, il cuore, che è la sintesi nell’io-persona di intelligenza, libertà, affettività. Il cuore dell’uomo diventa partecipe dell’amore con cui Dio ama.


Questa partecipazione è dovuta ad un fatto: il dono dello Spirito Santo che viene ad abitare nel cuore. È la divina persona dello Spirito la nostra partecipazione allo stesso amore con cui Dio ama. Nel senso che noi diventiamo partecipi dell’amore divino in quanto lo Spirito Santo diventa “possessore” del nostro cuore, della nostra capacità di amare. È questa “spiritualizzazione” che purifica il nostro amore e gli dischiude nuove dimensioni: tutto l’umano è salvato, custodito ed elevato. S. Ireneo scrive: «gli uomini sono spirituali grazie alla partecipazione dello Spirito, ma non grazie alla privazione ed eliminazione della carne» [adv Haereses V, 6; SCh 153, pag. 74].

Il desiderio di possedere la persona umana è integrato nel movimento di auto-donazione nella medesima. Non è negato, ma custodito nella sua verità più profonda. Concludo questo primo punto. Due sono le dimensioni essenziali dell’idea cristiana di amore. Essa esprime il volto del mistero di Dio: Dio  nel suo mistero e nella rivelazione che fa di Se è amore. Essa esprime il mistero dell’uomo: la persona umana è resa capace di amare come Dio stesso ama, senza essere “privata della carne”.


2. L’amore insidiato

In questa seconda parte della mia riflessione vorrei riflettere, brevemente, su ciò che insidia oggi il cuore del giovane impedendogli, o comunque rendendo assai difficoltosa la comprensione della visione cristiana dell’amore. Perché l’annuncio cristiano dell’amore trovi il terreno in cui radicarsi, la persona che l’ascolta deve possedere una vera coscienza di se stessa e vivere una conseguente esperienza di libertà. Fra le due realtà – coscienza di sé e modo di essere liberi – c’è una connessione inscindibile e come una sorta di reciproca inabitazione.

Ora la coscienza di sé nel  mondo occidentale è andata progressivamente oscurandosi, nel senso che il «sé»  si è come nascosto agli occhi della coscienza in ciò che ha di più nobile e proprio. Che cosa è accaduto? Che «vittime dello scientismo, non crediamo più in noi stessi, chi e che cosa siamo, quando ci lasciamo persuadere di essere soltanto macchine per la diffusione dei nostri geni, quando consideriamo la nostra ragione soltanto come prodotto di un adattamento evolutivo, che non ha nulla a che fare con la verità» [R. Spaemann]. La soggettività sostanziale della persona è andata progressivamente “rottamata”.

La prima conseguenza di questa “rottamazione del’io” è la deformazione della relazione con l’altro: una relazione ridotta a stimolo-risposta. L’io rottamato, direbbe Hume, è incapace di fare un passo oltre se stesso. Il segno più evidente di questa condizione è la riduzione della libertà a spontaneità.
Esiste una differenza sostanziale fra l’una e l’altra: la libertà non è una spontaneità … più spontanea! È un modo di agire essenzialmente diverso. Il tema esigerebbe una lunga riflessione. Mi limito a due riflessioni.

Ciò che distingue agire libero e agire spontaneo è che il primo rivela la trascendenza della persona sul suo agire e nel suo agire. È la persona che decide di agire, al di sopra ed anche contro ciò che accade nella sua psiche. La nostra lingua italiana ha due espressioni che ci aiutano a capire: «io voglio» ha un significato profondamente diverso da «mi viene voglia». Col primo denoto l’esperienza della persona che decide auto-determinandosi; nel secondo denoto piuttosto un essere-determinati ad agire da qualcosa d’altro.

La seconda riflessione per cogliere la diversità fra libertà e spontaneità è ancora più importante. L’atto del volere [«io voglio»] è sempre intenzionale: è cioè rivolto ad un oggetto [per es. “voglio studiare”]. La persona si determina ad agire poiché riconosce in ciò che vuole [“studiare piuttosto che divertirsi”] una bontà intrinseca all’oggetto voluto, un “valore” suo proprio [“è bene che io ora studi”]. L’autodeterminazione e la trascendenza della persona è fondata e condizionata dalla conoscenza, dalla  relazione della persona con la verità sul bene. La radice di tutta la  libertà, scrisse S. Tommaso, è il giudizio della ragione. L’affermazione teorica e pratica della libertà; la costituzione dell’io che agisce; la capacità dell’uomo di conoscere la verità circa il bene, stanno e cadono insieme.

Proviamo ora a riassumere quanto detto finora. Mi ero chiesto: che cosa insidia oggi la capacità di un giovane di ascoltare la proposta cristiana dell’amore? Ho risposto: la rottamazione cui è stato sottoposto il suo io. Una rottamazione che ha deformato la relazione dell’altro, riducendola ad una relazione spontanea e non libera: “mi viene voglia di relazionarmi a …”; e non “io voglio relazionarmi a …”. E l’amore può essere solo libero; solo la persona libera è capace di amare.
Non procedo oltre su questi temi, poiché altri li riprenderanno, e vengo alla conclusione.
Da ciò che ho detto si deve concludere che il destino della proposta cristiana è la totale estraneità dalla coscienza che di sé ha l’uomo in Occidente? Si e no.

L’apostolo Paolo e l’apostolo Giovanni insistono con grande forza sulla estraneità, anzi sul contrasto che vige fra il Vangelo e il mondo. Ma quando dicono questo, i due apostoli pensano che dentro alla creazione si è costituita un anti-creazione. E l’uomo nasce collocato nella seconda: nasce radicato nella solidarietà ingiusta con Adamo.

Ma è questo il vero uomo? o questi non è piuttosto l’uomo estraneo a se stesso? La proposta cristiana è rivolta all’uomo perché ritorni nella verità della sua prima origine. È dono di grazia che rigenera, poiché  è l’uomo in Cristo che non “vive più per se stesso” [cfr. Rom  14,8], che diventa capace di amare. Alla fine: proporre l’amore è proporre di convertirsi a Cristo e di vivere in Lui. Solo così l’uomo ritrova se stesso, perché ritrova la capacità di amare. «Poiché solo nell’amore l’uomo si desta alla sua piena esistenza personale, solo nell’amore egli attualizza la totale pienezza della sua essenza» [D. von Hildebrandt, Man and Woman, Franciscan Herald Press, Chicago 1986, pag. 32].