di Nieves San Martín
LONDRA, lunedì, 15 marzo 2010 (ZENIT.org).- La rivista britannica “The Economist”, nel suo numero del 4 marzo, pubblica un articolo in cui si denuncia il massacro di bambine nel mondo, che arriva almeno a cento milioni e viene definito “genericidio”.
L’articolo è intitolato “The war on baby girls. Gendercide. Killed, aborted or neglected, at least 100m girls have disappeared – and the number is rising” (“La guerra contro le bambine. ‘Genericidio’. Assassinate, abortite o abbandonate, almeno cento milioni di bambine sono scomparse – e il numero sta aumentado”).
Il testo evoca la situazione di una giovane coppia che aspetta il primo figlio in una regione povera del mondo ma in forte sviluppo. I costumi tradizionali hanno insegnato loro a preferire i figli maschi rispetto alle femmine. La giovane coppia può accedere a un’ecografia che rivela che aspettano una bambina. Che cosa fa?
Per milioni di coppie, afferma “The Economist”, “la risposta è: aborto per le bambine, vita per i maschi. In Cina e nel nord dell’India, nascono 120 maschi per ogni 100 femmine. La natura dimostra che i maschi, anche se di poco, sono più esposti alle malattie infantili, ma sul piatto della bilancia questo non conta”.
“Per quanti si oppongono all’aborto, è un vero genocidio”, afferma “The Economist”. Per la rivista, anche quando ci si pronuncia per un aborto “sicuro, legale ed eccezionale”, “la somma delle azioni individuali ha un effetto catastrofico per la società”.
Solo la Cina, indica, ha un numero di uomini non sposati – i cosiddetti “rami spogli” – equivalente al numero dei giovani maschi di tutta l’America. In alcune zone questo provoca anche seri problemi: nelle società asiatiche, in cui sposarsi e avere figli è l’unica via riconosciuta a livello sociale, gli uomini celibi sono come criminali. La delinquenza, il traffico di donne, le violenze sessuali, al di là dei suicidi femminili, sono in continua crescita e aumenteranno man mano che le generazioni squilibrate giungeranno alla maturità.
“The Economist” osserva che “non è un’esagerazione parlare di ‘genericidio’. Le donne stanno scomparendo – abortite, assassinate, spinte alla morte. Nel 1990, l’economista indiano Amartya Sen ha calcolato la cifra di 100 milioni, che oggi è molto più alta.
La rivista dà per scontato che molte persone sappiano che in Cina e nel nord dell’India “c’è un numero innaturale di maschi”, ma aggiunge che “pochi si rendono conto della profondità di questo problema e di quanto stia aumentando”.
In Cina, il rapporto tra i sessi è di 108 maschi contro 100 femmine nella generazione nata nel 1980. Per le generazioni del 2000 è di 124 a 100. In alcune province cinesi arriva a 130 contro 100. La
situazione è ai massimi livelli in Cina, ma è diffusa anche in altri luoghi. In altre regioni dell’Asia orientale, come Taiwan e Singapore, in alcuni Stati ex comunisti nei Balcani occidentali e nel Caucaso e in alcuni gruppi della popolazione americana (i sinoamericani o i giapponesi, ad esempio), c’è una ratio distorta di selezione sessuale.
“Il ‘genericidio’ esiste in quasi tutti i continenti. Interessa allo stesso modo poveri e ricchi, ignoranti e istruiti, indù, musulmani e confuciani”, sostiene la rivista.
Neanche la ricchezza frena il fenomeno: Taiwan o Singapore hanno economie floride; in Cina e in India, le zone con i più gravi casi di “genericidio” sono quelle più ricche e con livelli di istruzione più elevati. La politica del figlio unico in Cina può essere solo una parte del problema, visto che la questione interessa altri Paesi che non hanno questa ideologia.
L’eliminazione dei feti femminili, ricorda “The Economist”, è una conseguenza di tre fattori: la radicata e antica preferenza per i figli maschi, la moderna propensione a creare famiglie piccole e l’uso di tecnologie a ultrasuoni che permettono di identificare con certezza il sesso del bambino con una diagnosi prenatale.
Solo un Paese ha deciso di invertire la tendenza. Nel 1990 la Corea del Sud aveva un rapporto tra maschi e femmine uguale o superiore a quello cinese, mentre oggi sta tornando ai livelli normali.
Ciò non si è verificato per scelta, ma perché è cambiata la cultura della popolazione. Istruzione femminile, atteggiamenti antidiscriminatori e leggi a favore della parità dei diritti hanno fatto sì che la preferenza per i figli maschi sia diventata anacronistica.
Questo, avverte la rivista, è tuttavia accaduto quando la Corea del Sud era un Paese ricco. Perché la Cina e l’India – con entrate di un quarto e un decimo rispetto a quelle della Corea – raggiungano lo stesso livello economico, dovranno passare molte generazioni.
Per favorire il cambiamento, osserva “The Economist”, si devono compiere alcune azioni: “La Cina dovrebbe ritirare la politica del figlio unico, ma le autorità si opporranno in quanto temono l’aumento della popolazione, così come hanno respinto la preoccupazione dell’Occidente per i diritti umani”.
Ad ogni modo, la pubblicazione prevede che “la limitazione del figlio unico non sarà utilizzata per molto tempo per ridurre la fertilità (altri Paesi dell’Asia hanno ridotto la pressione della popolazione tanto quanto la Cina)”. Il Presidente cinese Hu Jintao, ricorda, ha dichiarato che una delle sue principali intenzioni è quella di “creare una società armonica”, “e questo non si potrà ottenere se permarrà una politica così profondamente ostile alla famiglia”.
“The Economist” conclude proponendo che tutti i Paesi promuovano “il valore del sesso femminile”. “Bisogna incoraggiare l’istruzione delle donne; abolire le leggi e gli usi che impediscono alle donne di ereditare; abolire i limiti relativi al sesso negli ospedali e nelle cliniche; inserire le donne nella vita pubblica in qualsiasi funzione – dalle annunciatrici televisive alle poliziotte”.
“Mao Zedong affermava: ‘Le donne sostengono la metà del cielo’. Il mondo deve far di più che prevenire un ‘genericidio’, deve evitare che il cielo ci cada sulla testa!”.
Per leggere l’articolo completo, http://www.economist.com/opinion/displaystory.cfm?story_id=15606229.
[Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]