di Mirko Testa
ROMA, domenica, 14 marzo 2010 (ZENIT.org).- Il confessore deve evitare il pericolo di creare l’“angoscia del peccato” o il “complesso di colpa” nel penitente e rendere visibile l’amore misericordioso di Dio. E’ quanto ha detto mons. Gianfranco Girotti, Reggente della Penitenzieria Apostolica, intervenendo l’8 marzo al “Corso sul Foro interno” tenutosi presso il Papalazzo della Cancelleria a Roma.
Nel prendere la parola durante le recenti giornate di Studio sul Sacramento della Penitenza, promosse ormai da 21 anni dalla Penitenzieria Apostolica, mons. Girotti ha posto da subito l’accento sulla necessità che i sacerdoti siano consapevoli di essere “depositari di un ministero prezioso e insostituibile”.
Inoltre, ha aggiunto, “è assolutamente necessario che, per svolgere bene e fedelmente il suo ministero, ogni confessore, con uno studio assiduo, sotto la guida del magistero della Chiesa, e soprattutto con la preghiera, deve procurarsi la scienza e la prudenza necessaria a questo scopo”.
“Nei seminari, è vero, l’approccio alla confessione è solo quello della teologia o della morale”, ha ammesso. Tuttavia, per fare ben il confessore “occorrono anche conoscenze precise su quanto stabilisce la Chiesa riguardo a determinate situazioni che possono presentarsi in confessionale”.
Da qui la necessità per i sacerdoti “di prepararsi sotto il profilo culturale, psicologico e soprattutto ascetico, pensando che sono chiamati ad interessarsi di cose che non esaltano ma rivelano tutta la debolezza e talvolta la bassezza della condizione umana”.
Senza dimenticare, inoltre, che “la realtà umana è storica e dinamica, cosicché mentre il giudizio astratto può restare immutato, la valutazione degli atti concreti esige una sensibilità teologica e morale molto alta, per non accrescere l’evidente scollamento tra i fedeli e il Sacramento della Penitenza”.
In confessionale, ha continuato, si possono presentare anche i casi più impensati, che possono cogliere impreparato il sacerdote, come quando si affrontano i temi relativi alla bioetica.
Per questo ha invitato a non dimenticare “che il presbitero ha sempre una parola autorevole da dire nelle delicate questioni odierne riguardanti aspetti della pratica medica”.
“Può chiedere allora un po’ di tempo, di pronunziarsi sull’accusa, e consultare la Penitenzieria Apostolica, che entra in causa nelle situazioni in cui il sacerdote non ha la facoltà di assolvere, e nei casi in cui si può trovare impreparato o a disagio”, ha suggerito.
Tra i consigli offerti ai sacerdoti il Reggente della Penitenzieria Apostolica ha evidenziato il fatto che il penitente “ha bisogno di essere incoraggiato a riporre tutta la sua fiducia nell’infinita misericordia di Dio”, per cui ogni confessione dei peccati “deve prorompere in un canto gioioso di lode e di ringraziamento al Padre che ‘per primo ci ha amati’”.
Inoltre, ha ricordato, “nell’imporre la penitenza bisogna badare alla sua concreta fattibilità da parte del penitente, privilegiando quelle forme che aiutano a crescere spiritualmente, come l’assistere a una S. Messa, il fare la comunione, o anche aiutare il prossimo in difficoltà o contribuire a sostenere le opere parrocchiali, coniugando vita interiore e impegno sociale, come via maestra del cristiano impegnato”.
“Ad un penitente che torna a confessarsi dopo lunghi anni che è stato lontano dalla Chiesa è imprudente dare penitenze complesse e defaticanti, mentre ad una buona monaca di clausura ordinariamente si può assegnare una diuturna preghiera”, ha aggiunto.
Nel penitente occorre però anche “curare la consapevolezza del peccato e delle sue conseguenze e far nascere la ferma decisione di aprire un nuovo capitolo nei rapporti con Dio e con il prossimo nel cuore della Chiesa”.
“E’ bene poi ricordare che il fedele che ha raggiunto l’età della discrezione è tenuto a confessare i peccati gravi almeno una volta l’anno”, e che il penitente “ha la possibilità di confessare i peccati al confessore che preferisce, legittimamente approvato, anche di altro rito”.
In più, il penitente “ha la possibilità di servirsi di un interprete”, “evitati ovviamente gli abusi e gli scandali e fermo restando l’obbligo del segreto”.
Mons. Girotti ha quindi passato in rassegna gli obblighi legati al sigillo sacramentale e al segreto dei penitenti, un tema che la Chiesa ha avuto sempre a cuore e per la cui violazione stabilisce pene severissime che risalgono al IV Concilio Lateranense del 1125, che promulgò la prima legge universale in materia.
A questo proposito, ha sottolineato che il Codice di Diritto Canonico (Can. 1550, §2, 2°) esclude, infatti, “come incapaci dal rendere testimonianza in giudizio i sacerdoti, relativamente a tutto ciò che hanno appreso nella confessione sacramentale, anche nel caso in cui sia stato il penitente a chiedere la deposizione”.
Diversamente, ha osservato, il confessore “peccherebbe d’ingiustizia verso il penitente e di sacrilegio nei confronti del sacramento stesso”, tradendo “la fiducia che il fedele ripone in lui, in quanto ministro di Dio” e rendendo “odioso il Sacramento della Penitenza agli occhi dei fedeli”.
Mons. Girotti ha poi ricordato che il Nuovo Codice di Procedura Penale entrato in vigore in Italia nel 1989 “riconosce il sigillo sacramentale, come parte del segreto professionale accordandovi una particolare tutela” e vincola al sigillo sacramentale esclusivamente il confessore, mentre “tutte le altre persone che per qualsiasi ragione venissero a conoscenza del contenuto di una confessione, come per es. l’interprete o altri che eventualmente ascoltassero, sono vincolati, invece dal segreto”.
“Tale distinzione di responsabilità determina, infatti, in caso di violazione, una diversità di pena”, ha spiegato.
Inoltre, ha proseguito mons. Girotti, “il sacerdote è tenuto al sigillo sacramentale verso chiunque, compreso il penitente. Se, infatti, il confessore desidera parlare con il penitente dei peccati confessati occorrerà il suo permesso, a meno che ciò non avvenga immediatamente dopo la confessione – in tale ipotesi questo sarebbe da considerarsi come la continuazione morale della confessione – oppure il penitente stesso, in successivi incontri, ritorni su qualche considerazione relativa alla precedente confessione”.
Inoltre, ha precisato, “neppure la morte del penitente potrà sciogliere il confessore da questo vincolo.
Infine, mons. Girotti ha ricordato che la Chiesa, a partire da un decreto emanato nel 1988 dalla Congregazione per la Dottrina della Fede, punisce con particolare severità anche “chi viola il segreto relativo alla confessione, registrando per mezzo di strumenti tecnici oppure divulgando per mezzo di strumenti di comunicazione sociale, ciò che viene detto dal confessore e dal penitente”.
“In questo caso – ha concluso –, l’interessato incorre nella pena specifica della scomunica latae sententiae”.