L'umanesimo “simbolico” e integrale di Tommaso D'Aquino

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AQUINO, sabato, 6 marzo 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il testo della conferenza tenuta questo venerdì da mons. Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura, nel ricevere nella Chiesa di Santa Maria della Libera di Aquino il premio internazionale “Tommaso d’Aquino”.

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Nel prologo della Prima Secundae del suo capolavoro teologico, san Tommaso d’Aquino propone questa dichiarazione programmatica: «Ci interesseremo dell’uomo in quanto egli è il principio del suo operare, essendo dotato di libero arbitrio e quindi della sovranità delle proprie azioni». Al centro della sua investigazione, espressa in quella sorta di oceano testuale che sono gli scritti del Dottore Angelico, brilla senz’altro la figura di Dio perché quella di Tommaso è pur sempre una teologia e non una pura e semplice speculazione filosofica sistematica; ma la luce che emana da quel centro irradia la prima delle sue creature per eccellenza e dignità, cioè l’uomo.

L’umanesimo di Tommaso è, perciò, squisitamente teologico e cristiano, eppure si articola tenendo conto anche del contributo della natura umana, della razionalità, una delle ali per il volo nell’orizzonte dell’essere. Un intreccio, quindi, sapiente tra fede e ragione. Egli è, certo, cosciente della fragilità della nostra conoscenza perché noi «imperfettamente conosciamo e imperfettamente amiamo» (Summa Theologiae I-II, 68,2). Nel proemio all’Expositio in Symbolum – con una metafora divenuta celebre – egli riconosce che «la nostra conoscenza è talmente debole che nessun filosofo ha mai potuto investigare in modo esaustivo la natura di una singola mosca». È la consapevolezza della nostra creaturalità che impedisce l’hybris di un umanesimo immanentista e autosufficiente: «Come gli occhi della nottola sono abbagliati dalla luce del sole che non riescono a vedere, ma vedono bene le cose poco illuminate, così si comporta l’intelletto umano di fronte ai primi principi che sono tra tutte le cose, per natura, le più manifeste» (In Metaphysicam II, 1,10).

Questo senso del limite esorcizza, dunque, nel pensiero di Tommaso la deriva in un umanesimo razionalistico e autoreferenziale (sia pure “teologico” alla maniera hegeliana), ma esclude anche la caduta nel gorgo oscuro di un umanesimo esistenzialistico pessimistico alla Sartre o in un umanesimo soggettivistico, rinchiuso nel baluardo di un “io” solipsistico, incapace di uscire nel dialogo varcando la porta della sua torre d’avorio. C’è, invece, in Tommaso d’Aquino un ottimismo di fondo davanti all’essere, alla creazione e alle capacità conoscitive dell’uomo, per usare un’idea di un suo grande ammiratore, lo scrittore inglese Gilbert K. Chesterton nel suo saggio St. Thomas Aquinas (1933). Infatti, alla creatura umana è riconosciuta la possibilità di raggiungere la verità sia pure non nella sua pienezza esaustiva. Con la ragione essa può approdare almeno alla spiaggia di mondi tematici immensi come l’esistenza di Dio, la creazione dell’universo, la spiritualità dell’anima. Inoltre, c’è nell’uomo una potenza etica positiva, anche se non assoluta; la creazione è dotata di ordine e bellezza così da poter condividere l’asserto del libro biblico della Sapienza secondo il quale «dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si contempla il loro autore» (13,5), asserto ripreso da san Paolo, convinto che le divine «perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da lui compiute» (Romani 1,20).

Per questo, lo stesso Chesterton suggeriva di assegnare al Dottore Angelico il titolo di san Tommaso del Creatore, così come si avrà san Giovanni della Croce e così come ci sarà santa Elisabetta della Trinità e ci sono le “Suore dello Spirito Santo”. In questa luce è da marcare anche la famosa tesi tomista dell’intima e sostanziale unione tra anima e corpo, esaltata sulla scia di Aristotele, ma con un’impronta profondamente cristiana e biblica, consapevoli come siamo dell’unità psicofisica celebrata nelle Sacre Scritture contro ogni antitesi di matrice dualistica. Il corpo cessa, allora, di essere prigione o tomba dell’anima, ma è la materia necessaria di cui l’anima è forma in un nesso inscindibile, è la potenza di cui l’anima è atto, è la carne che è vivificata dallo spirito. Le alte espressioni della persona come l’amore, l’arte, la stessa preghiera si svolgono attraverso la corporeità che è, così, epifania dell’intera grandezza della creatura umana.

Si ha in tal modo un umanesimo veramente personalistico che, prescindendo dalle appartenenze alle diverse etnie, culture o società, assegna alla persona in quanto tale una radicale dignità e nobiltà: «la persona è quanto di più perfetto esista in tutta la natura» (Summa Theologiae I, 28,3). A differenza di Averroè e di altri commentatori di Aristotele che concepivano l’intelletto come una sostanza separata, destinata a trasmettere le idee alle singole anime, Tommaso afferma che l’intelletto, essendo strutturale alla natura umana, è una facoltà personale che ogni uomo e donna posseggono ed esercitano in proprio. In sintesi possiamo dire che nel pensiero dell’Aquinate si ha una piena conferma dell’interrogativo biblico colmo di ammirazione per la grandezza di questa che rimane pur sempre una creatura limitata ma dotata di gloria: «Che cos’è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi? Davvero l’hai fatto poco meno di un dio, di gloria e di onore lo hai coronato!» (Salmo 8, 5-6).

Certo, ripetiamo che questo umanesimo è monco e incompleto se non riconosce l’ordine della grazia. Nel De veritate il Dottore Angelico afferma: «Tu non possiedi la Verità, ma è la Verità che possiede te». La Verità ci precede e ci eccede, ci è svelata e rivelata e in essa noi ci inoltriamo, di luce in luce, attraverso la nostra ragione. Come scriveva Adorno nei Minima moralia, «la verità è come la felicità: non la si ha, ci si è», o come aveva già dichiarato Robert Musil nell’Uomo senza qualità, «la verità non è una gemma da mettere in tasca, è un mare infinito in cui ci si immerge». La trascendenza è necessaria non solo per la verità, ma anche e soprattutto per la redenzione e la salvezza ed è, quindi, fondamentale per una corretta concezione umana. La grazia non cancella la libertà, ma la porta a pienezza, la soprannatura non elide la natura ma la trasfigura, la Verità divina non si oppone alla verità umana ma la unisce a sé, conducendola a pienezza, l’immagine divina nell’uomo e nella donna (Genesi 1,27) non elimina l’identità creaturale coi suoi limiti e il suo peccato, ma ne rivela la grandezza.

Quello di Tommaso è, perciò, un vero umanesimo “simbolico” e integrale che permette di concludere che «il modo di esistere che comporta la persona umana è il più degno di tutti» (De potentia 9,4). Vorremmo porre qui, a suggello di questa minima antropologia tomistica da noi ritagliata all’interno di un immenso orizzonte ideale, la voce stessa dell’Aquinate al quale, tra l’altro, mi unisce un particolare legame personale, avendo per anni custodito, come Prefetto della Biblioteca Ambrosiana di Milano, un importante anche se parziale autografo della Summa contra Gentiles (II, 42-44, segnatura S.P. 38), proveniente dal Convento dei Domenicani di Bergamo e donato al cardinale Federico Borromeo dal Provinciale di Lombardia dei Frati Predicatori, p. Paolo da Garessio. Lo facciamo attraverso alcuni brevi frammenti testuali che possono diventare un appello rivolto alla nostra ricerca: «Tra gli impegni a cui si possa dedicare un uomo nessuno è più perfetto, più sublime, più fruttuoso e più dolce della ricerca della Sapienza… Il sapiente onora l’intelletto perch
é, tra le realtà umane, è quella a cui Dio riserva l’amore più intenso». Dobbiamo, tuttavia, invocare Dio perché «penetri le tenebre del nostro intelletto con un raggio della sua luce, allontanando da noi le doppie tenebre in mezzo alle quali siamo nati, quelle del peccato e dell’ignoranza». E di ogni nostro pensare e agire Dio «ispiri l’inizio, guidi il progresso e coroni la fine».

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ZENIT Staff

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