di Adriano Dell’Asta*

MILANO, venerdì, 30 ottobre 2009 (ZENIT.org).- In un tribunale sovietico, all’inizio degli anni Settanta ci fu un incredibile scambio di battute tra un giovane credente e il giudice che stava per condannarlo a diversi anni di lager: «Noi cristiani vogliamo tutto il mondo». «Cosa volete, voi cristiani?». «Tutto il mondo».Difficilmente progettando il convegno sul monachesimo che la Fondazione Russia Cristiana ha recentemente tenuto a Seriate avremmo potuto immaginare di risentire questo dialogo.

Eppure a ben pensarci questa professione di fede di un giovane laico, già sposato e padre, che sta per vedersi togliere tutto, è una perfetta descrizione della vocazione del monaco che, nella totale donazione di sé a Cristo, non perde il mondo ma lo recupera in pienezza e, anzi, non solo lo recupera, ma lo trasfigura, rendendo ogni fatto e ogni circostanza un’occasione di crescita per sé e per tutti quelli che lo circondano.

È stata questa, del resto, la storia del monachesimo, che non voleva salvare o creare una civiltà, voleva «soltanto» cercare Dio e, alla fine, ha offerto agli uomini lo spazio di una libertà e di una creatività nelle quali ancora non abbiamo smesso di produrre civiltà e cultura, vita unità e bellezza là dove sembrano attenderci ad ogni passo la divisione, la morte e il non senso.

Questa storia è stata ripercorsa dalle diverse relazioni presentate al convegno, mostrando come la fede e l’amore per Cristo abbiano sempre avuto questo esito di piena trasfigurazione della vita.

Lo si è visto innanzitutto trattando il rapporto tra fede e ragione, che oggi spesso viene presentato come conflittuale e generatore di conflitti e invece produce esattamente il contrario, poiché proprio la fede autentica, l’incontro con Cristo, il Figlio di Dio fatto uomo, rende possibile la realizzazione del desiderio di infinito che caratterizza la ragione dell’uomo e la sua sete di conoscere la realtà secondo la complessità dei suoi fattori.

La conoscenza della realtà, la pienezza della ragione, hanno sottolineato diverse relazioni, non è questione che possa essere ridotta a un semplice discorso teorico o puramente funzionale: ha a che fare con la bellezza e con la poesia che, destando uno stupore infinito, strappano le cose a una quotidianità troppo alla mano e ci impediscono di avere la pretesa di possederle fino a dominarle e a ridurle alla nostra misura; è quanto è stato mostrato attraverso la storia dell’arte, ma anche attraverso una sorprendente rilettura della lingua liturgica e dei suoi inesauribili significati, come attraverso la rivisitazione del senso del lavoro e della creatività umana, nei quali l’essenziale non è il fare, ma l’agire, quel modo d’essere che «non è solo fare qualcosa per un altro ma anche fare qualcosa con un altro».

Anche attraverso il tema del lavoro, così evidentemente legato alla tradizione monastica dell’«ora et labora», si è aperto dunque uno spazio sorprendente rispetto a chi si immagina il monaco come definito da una solitudine egoisticamente chiusa in se stessa: nel rapporto con Cristo, ogni uomo ritrova il proprio volto in una civiltà sempre più anonima e in quello che è stato chiamato il deserto delle grandi città: riscoperta di una comunione possibile che è fraternità e prima ancora paternità, nel superamento della vecchia dialettica servo-padrone e della vecchia contrapposizione tra padri e figli.

La storia del monachesimo è stata così ritrovata come la storia di un realismo ultimo, di un’esperienza nella quale la realtà viene ritrovata nella sua integralità e radicata in un’eternità che neppure le persecuzioni più dure dell’epoca sovietica hanno potuto eliminare, come è stato mostrato dalla storia del monachesimo clandestino in Unione Sovietica.

[Tutte le relazioni saranno pubblicate negli Atti che usciranno sul numero 1/2010 della rivista «La Nuova Europa»]


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*Adriano Dell’Asta è professore associato di Lingua e Letteratura Russa all’Università Cattolica di Brescia e di Milano

Vita, famiglia e sviluppo: l'unità antropologica della Caritas in veritate

ROMA, giovedì, 29 ottobre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’articolo di David L. Schindler, Preside dell’Istituto Giovanni Paolo II per gli studi su matrimonio e famiglia di Washington, apparso nell’ultimo “Bollettino di Dottrina sociale della Chiesa” (V (2009) 93-97) dell’Osservatorio internazionale Cardinale Van Thuân, dedicato alla “Caritas in veritate” di Benedetto XVI.

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«La verità dello sviluppo consiste nella sua integralità: se non è di tutto l’uomo e di ogni uomo, lo sviluppo non è vero sviluppo» (Caritas in veritate n. 18). Questo, dice Benedetto XVI nella sua nuova enciclica, è «il messaggio centrale della Populorum progressio, valido oggi e sempre» (18). Lo sviluppo umano integrale sul piano naturale, risposta a una vocazione di Dio creatore1, domanda il proprio inveramento in un “umanesimo trascendente, che … conferisce [all’uomo] la sua più grande pienezza: questa è la finalità suprema dello sviluppo personale”2. La vocazione cristiana a tale sviluppo riguarda dunque sia il piano naturale sia quello soprannaturale (n. 18).

Secondo Benedetto, la carità nella verità incentrata in Dio è la chiave di questo “sviluppo umano integrale”. «Dalla carità di Dio tutto proviene, per essa tutto prende forma, ad essa tutto tende» (n. 2). La carità è così «il principio non solo delle micro-relazioni: rapporti amicali, familiari, di piccolo gruppo, ma anche delle macro-relazioni: rapporti sociali, economici, politici» (n. 1).

La chiamata all’amore, in altre parole, non è qualcosa di imposto all’uomo dall’esterno, come una aggiunta estrinseca al suo essere. Al contrario, la carità pulsa nel cuore di ogni uomo. «L’interiore impulso ad amare» è «la vocazione posta da Dio nel cuore e nella mente di ogni uomo», proprio mentre è “purificato e liberato da Gesù Cristo,” che ci rivela la sua pienezza (n. 1). «In Cristo, la carità nella verità diventa il Volto della sua Persona» (n. 1). La Dottrina sociale della Chiesa così, in una parola, è «caritas in veritate in re sociali: annuncio della verità dell’amore di Cristo nella società» (n. 5).

In questo contributo mi propongo di esaminare il legame tra lo sviluppo, la famiglia e le problematiche della vita nella Caritas in veritate. Per introdurre questa riflessione, propongo tre osservazioni relative all’unità antropologica della Dottrina sociale della Chiesa che sono implicate nelle citazioni dell’enciclica appena viste.