di Viktoria Somogyi
CITTA' DEL VATICANO, mercoledì, 28 ottobre 2009 (ZENIT.org).- Tra i partecipanti al Sinodo dei Vescovi per l'Africa, chiuso questa domenica da Benedetto XVI, c'era anche il Cardinale Péter Erdö, Arcivescovo di Esztergom-Budapest, che è intervenuto all'assise in qualità di Presidente del Consiglio delle Conferenze Episcopali d'Europa (CCEE).
Una opportunità privilegiata, come riconosce il porporato stesso in questa intervista a ZENIT, in cui delinea la situazione della Chiesa in Africa e spiega che cosa l'Europa può apprendere da questo continente.
È finito il Sinodo per l’Africa che nei media internazionali è passato quasi inosservato. Come riassumerebbe i risultati di queste tre settimane di lavori?
Card. Erdő: I risultati sono in parte già nel Messaggio finale che costituisce un riassunto dei lavori, degli interventi e delle preoccupazioni del Sinodo. Poi certamente sono raccolti anche nelle Proposizioni che il Sinodo ha trasmesso al Santo Padre nella speranza che tra alcuni anni avremo anche una Esortazione apostolica post-sinodale. I risultati sono e saranno sicuramente non soltanto destinati per l’Africa ma per la Chiesa universale.
Non è un caso che tutti i continenti, tutti cattolici dei singoli continenti siano stati rappresentati al Sinodo perché i problemi qui trattati hanno sempre un aspetto universale o se vogliamo globale. Per fare un esempio il sistema economico-finanziario o il mercato delle materie prime collega il mondo ricco con l’Africa e con la Cina e così via. Ma anche l’emigrazione è un fenomeno che da una parte colpisce i paesi africani da cui partono tanti intellettuali, molti poveri e perseguitati - tutto ciò non indipendentemente dagli effetti brutali della politica internazionale e dell'economia globale - e dall’altra si presenta come una questione umanitaria per gli immigrati che si recano nei paesi occidentali.
Naturalmente esiste anche un aspetto interecclesiale di tutto ciò come già indicato dal tema del Sinodo. La Chiesa considera, infatti, come compito della propia missione la promozione della riconciliazione, della giustizia e della pace e non soltanto in Africa. Perché ormai la giustizia di una regione non può essere separata dal giusto comportamento di tanti altri paesi.
Poi anche l’aspetto pastorale appartiene agli elementi che ricollegano il Sinodo al mondo, perché sicuramente nei paesi dove ci sono immigrati provenienti dall’Africa, tra i quali parecchi cattolici, è anche giusto e necessario che arrivino alcuni sacerdoti in grado di accompagnarli pastoralmente. Poi naturamente siamo anche collegati nella questione delle vocazioni, così come dei progetti pastorali e culturali. Quindi tra i risultati del Sinodo troviamo anche indicazioni chiare di certi compiti che richiedono uno sforzo speciale da parte delle Chiese del mondo ricco, del mondo occidentale, non soltanto della Chiesa in Africa.
A 15 anni dal primo Sinodo speciale per l’Africa come è cambiata la situazione in quel continente?
Card. Erdő: Prima di tutto, la situazione della sicurezza, della democrazia, dell’economia non è migliorata, anzi in molte parti c’è stato un peggioramento. Non pochi hanno preso atto del degrado della pubblica istruzione, della sanità in diverse parti del continente. A minacciare alcuni paesi è inoltre la profonda corruzione, la violenza non soltanto politica ma di radice economica a volte incitata dall’estero che però rende molto difficile se non impossibile la vita della povera gente.
Eppure ci sono degli sviluppi positivi. Alcuni dei paesi africani sono riusciti a risolvere il problema dell’alimentazione della propria popolazione che è un passo in avanti molto significativo, mentre altri purtroppo non sanno ancora come uscire da questo problema. Per quanto riguarda il numero delle diocesi, dei Vescovi, dei sacerdoti e delle comunità religiose, la Chiesa africana negli ultimi 15 anni è cresciuta fortemente. È un segno della grazia divina.
Possiamo dire anche che la Chiesa africana è una Chiesa missionaria, una Chiesa piena di energia e naturalmente in questa Chiesa giovane esistono problemi pastorali antichi che hanno accompagnato anche la storia della Chiesa degli altri continenti come per esempio la stregoneria, il problema delle superstizioni, il problema della trasmissione chiara della fede, ma anche le tradizioni popolari, tribali che da una parte vanno molto apprezzate, vanno riconosciute anche all’interno della vita ecclesiale perché forniscono modelli, che possono essere battezzati alla luce del Vangelo e acquisire anche un maggiore significato, come per esempio le ceremonie della riconciliazione tra i diversi gruppi
Dall'altra parte, però, ci sono delle usanze e tradizioni che vanno proprio superate o illuminate con la fede. Ci sono aspetti delle condizioni sociali della donna nel quadro della poligamia o delle tradizioni tribali che non sono sostenibili né da una prospettiva cristiana né da quella dell’uguale dignità delle persone umane. Pure qui esiste una grande diversità tra i paesi del continente.
Un valore tradizionale che va assolutamente battezzato e che è un tema centrale della teologia africana è la famiglia. La famiglia africana e la famiglia come modello anche della teologia della Chiesa, modello dell’ecclesiologia: la Chiesa come famiglia di Dio era un tema centrale al primo Sinodo africano ed è riemerso anche in questo Sinodo. Per questo è importante che ideologie importate da altre regioni del mondo non distruggano la famiglia, che non introducano nella legislazione cambiamenti che sono contrari alla famiglia.
Dal punto di vista del CCEE in quali campi ci possono essere delle collaborazioni tra i due continenti?
Card. Erdő: Esiste da lunghi anni una collaborazione istituzionale con il SECAM (Simposio delle Conferenze episcopali di Africa e Madagascar). Abbiamo una commissione mista che organizza il lavoro in comune, il cui momento culminante sono le conferenze che si ripetono quasi ogni anno. Ultimamente si è sviluppata un’alternanza nelle sedi degli incontri: una volta in Africa e una volta in Europa. Per esempio abbiamo trattato i temi della schiavitù, dell'emigrazione - che è un problema evidentemente comune -, e dei sacerdoti fidei donum, che vengono inviati da una diocesi all’altra per lavorare nell'ambito pastorale.
Molti sacerdoti africani vivono in Europa ma non tutti hanno un contratto o una situazione regolata tra le due diocesi che da una parte garantisca l’inserimento, l’integrazione del sacerdote nella vita della diocesi del luogo, e dall’altra garantisca anche la sicurezza giuridica, l’assistenza sanitaria ecc. Certo è vero che ci sono sacerdoti che sono sfuggiti dalla loro patria per ragioni politiche, ma ci sono anche sacerdoti che si trattengono in Europa per ragioni di studio o per cura medica per cui è necessario che i Vescovi prendano in considerazione la condizione di tutti questi sacerdoti e li accompagnino.
Poi è importante anche, per esempio, che i novizi, ovvero coloro che si preparano alla vocazione religiosa non lascino troppo presto la loro patria prima di aver concluso la formazione, perché durante la formazione in un altro ambiente culturale molti o perdono la vocazione oppure scoprono di non avere quella vocazione o ancora, a giudizio dell’ordine religioso, non sono adatti a quel tipo di vita. Così vengono mandati via da quell’istituto religioso e si trovano in una società che è molto fredda e non li accoglie e allo stesso tempo non fanno ritorno a casa. Quindi queste situazioni sono sicuramente da evitare. I nostri fratelli africani propongono che la prima parte della formazione avvenga necessariamente in Africa.
Esistono anche collaborazioni nell'ambito della scienza, della teologia e dell'educazione. In Africa sono nati infatti numerosi centri di ricerca e di formazione e numerose università cattoliche. Anche in questo campo registriamo quindi uno sviluppo molto positivo.
Per i Vescovi europei qual è l’importanza di questo Sinodo per l’Africa?
Card. Erdő: Prima di tutto, vediamo che questo Sinodo è rivolto anche a noi. Ci aiuta a comprendere la funzione del mondo occidentale nella vita dell’umanità. Ci fa vedere meglio la nostra responsabilità e la nostra debolezza. La nostra responsabilità nei riguardi dei politici, nei riguardi di coloro che prendono decisioni nell'ambito della vita economica affinché possiamo procedere in modo responsabile anche all’estero per quanto riguarda, per esempio, i beni naturali a partire dalle foreste fino ad arrivare alle materie prime che vengono estratte ed esportate dall’Africa. Anche lo sviluppo dell’agricultura è una grande sfida perché in Africa ci sono moltissimi poveri ed affamati che praticamente vivono al di sotto della soglia di sussistenza. Quindi serve maggiore responsabilità e maggiore realismo. Non basta un comportamento ideologico, neppure da parte nostra. Certo non dobbiamo imporre il nostro aiuto ma dobbiamo procedere sempre in comunione con la Chiesa locale e senza prescindere da essa o creare progetti che non hanno niente a che fare con la vita dei cristiani di quella Chiesa.
Che cosa può imparare la Chiesa in Europa da quella africana?
Card. Erdő: Molto. Da una parte può imparare una grande elasticità ed energia, un’intensità della vita religiosa anche della liturgia a volte. Può imparare la grande capacità di lavorare in circostanze difficili. Può anche imparare l’umiltà e fedeltà di quanti sono perseguitati per la fede cristiana; può imparare una visione cristiana illuminata dalla fede perché proprio in caso di conflitti etnici, nazionali, razziali ci sono quei testimoni del Vangelo che hanno il coraggio di dire ai soldati che uccidono: anche voi siete cristiani. E i soldati rispondono: sì, siamo cristiani ma prima di essere cristiani apparteniamo a una tribù. E ci sono cristiani che dicono: ciò non è giusto. Dobbiamo riflettere anche sui nostri sentimenti in Europa, dove a volte le appartenenze umane sembrano occupare in parecchi cristiani il primo posto. Quindi, sì all’identità culturale ma no all’idolatria della razza e della nazione perché siamo comunque fratelli e sorelle, figli dello stesso Dio. Anche questo sentimento familiare si esprime molto bene nella teologia africana.