Coscienza e dignità della persona alla luce delle Neuroscienze

Al centro di un seminario tenutosi presso l’Ateneo Pontificio Regina “Apostolorum”

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di Mirko Testa

ROMA, lunedì, 5 ottobre 2009 (ZENIT.org).- L’applicazione all’uomo delle recenti scoperte nell’ambito delle Neuroscienze e delle ricerche che si propongono di svelare i segreti del cervello e della mente suscita valutazioni contrastanti.

Infatti, se da un lato questi studi aprono molteplici possibilità per le terapie mediche e per il miglioramento della qualità della vita, dall’altro non mancano timori per gli eventuali rischi per la salute, e anche interrogativi etici di complessa soluzione.

Per fare luce su tali questioni, il 18 settembre, presso l’Ateneo Pontificio Regina “Apostolorum”, si è tenuto il seminario “Studi sulla coscienza e dignità della persona”, organizzato dal Master in Scienza e Fede e dalle Facoltà di Filosofia e Bioetica dello stesso ateneo, in collaborazione con STOQ e The John Templeton Foundation.

Si è trattato del primo seminario del Gruppo di studio e di ricerca sulla Neurobioetica che dal marzo scorso fa parte delle attività del Master in Scienza e Fede della Regina “Apostolorum” e si propone di creare un forum di professionisti e studiosi provenienti dai vari ambiti, per adottare un approccio veramente interdisciplinare sulle questioni etiche delle Neuroscienze e sulle Neuroscienze dell’etica.

Ad aprire i lavori ci ha pensato Adriana Gini, dirigente medico neuroradiologo dell’Azienda Ospedaliera San Camillo-Forlanini, la quale ha spiegato da subito che il termine Neurobioetica è la traduzione italiana della parola inglese “Neurobioethics”, un neologismo introdotto nel 2005 da James Giordano, neuroscienziato e neuroeticista statunitense, per indicare l’importanza delle scienze umane e sociali nella valutazione delle questioni di natura etica suscitate dalle recenti scoperte delle Neuroscienze.

Sebbene derivi dalla Bioetica la metodologia multidisciplinare, l’attenzione ai dati scientifici e riconosca alla Persona una sua multi-dimensionalità ontologica e un’organicità teleologica, la Neurobioetica si distingue per una riflessione critica più specifica e particolareggiata, sulla Natura (“self”) della Persona, nel suo dinamismo e capacità di relazionarsi e sul significato che rivestono, alla luce delle recenti scoperte delle Neuroscienze, uno sviluppo umano integrale e i modi per realizzarlo (“human flourishing”).

Nel suo intervento, Paola Ciadamidaro, dirigente medico anestesista-rianimatore dell’unità di terapia sub-intensiva presso l’Ospedale Cristo Re di Roma ha spiegato che “dalla creazione ai giorni nostri, l’uomo ha sempre cercato di esplorare la coscienza e soprattutto di ricercarne le caratteristiche e l’organo corporeo che la contiene”, tanto che “già Ippocrate, nel 400 d.C. ne individuava la sede nel cervello”.

Successivamente – ha spiegato – la coscienza è stata divisa nelle sue due componenti, la “vigilanza (wakefulness)”, cioè lo stare svegli e vigili, e il ”contenuto (awareness)”, cioè tutto il bagaglio cognitivo, psichico, emozionale ed esperienziale precipuo di ognuno di noi.

“Quando, per traumi cranici o malattie acquisite, si ha la perdita di tutt’e due queste componenti, si parla di coma, situazione clinica grave, per la quale il paziente perde il contatto con l’ambiente e con se stesso”, ha aggiunto.

“Da questa condizione si può ‘uscire’, ma, viceversa, si può passare, proprio per il perdurare del ‘sonno’, alle gravi sindrome neurologiche, altamente invalidanti, che questo gruppo di Neurobioetica preferisce definire come post-coma, cioè lo stato vegetativo, la sindrome di minima coscienza e la sindrome di locked-in, in italiano ‘del chiavistello o del chiuso dentro’”.

A questo proposito, ha proseguito, “in modo particolare negli ultimi anni dello scorso secolo, a tutt’oggi, molta confusione di natura strumentale è stata costruita intorno a questi termini, ma esiste la certezza che tali sindromi non configurano la morte cerebrale e quindi, meno che mai, la morte dell’individuo”.

Tuttavia, ha precisato, “esistono ancora gravi incertezze su queste sindromi, in quanto mancano dati scientifici inoppugnabili. Mentre per i dati esistenti non c’è univocità di interpretazione e, soprattutto, non esiste un malato che presenta lo stesso decorso di un altro”

“E’ dunque indispensabile approcciarsi a queste persone con la giusta mentalità, cioè quella olistica-riabilitativa, che si basa sul doppio rifiuto, sia dell’accanimento terapeutico sia dell’abbandono delle cure”, ha affermato.

“Queste – ha sottolineato Paola Ciadamidaro – devono essere sempre proseguite, calibrando le procedure sulle effettive e indispensabili necessità del paziente, come l’alimentazione e l’idratazione e giungere così alla difesa della vita, che è e rimane un bene indisponibile”.

Nel prendere la parola Andrea Soddu, ricercatore del Coma Science Group dell’Università di Liegi, in Belgio, ha spiegato che “l’approccio clinico a pazienti con disordini di coscienza è molto impegnativo, ma che nuovi sviluppi nelle tecniche di immagine in Neuroscienza e i nuovi approcci di interfacciamento cervello-computer con l’elettroencelografia offrono nuove metodologie con valore diagnostico, prognostico e terapeutico”.

“Un trattamento appropriato incomincia con il fare una buona diagnosi – ha avvertito – . E i pazienti in stato vegetativo possono muoversi vistosamente. Studi clinici a livello del letto del paziente hanno mostrato quanto sia difficile distinguere un movimento riflesso o ‘automatico’ da un movimento volontario o ‘voluto’”.

“Questo comporta una sottostima dei segni comportamentali dello stato di coscienza e porta ad una diagnosi inappropriata o erronea in un terzo, da quanto stimato, dei pazienti in stato vegetativo cronico”, ha detto Andrea Soddu.

Per il ricercatore, “studi con la tomografia ad emissione di positroni (PET) e la risonanza magnetica funzionale (fMRI) hanno permesso di confutare l’opinione comune riguardo lo stato vegetativo come cerebralmente morto o ‘apallico’”.

“Esperimenti con stimolazioni diverse – ha continuato –, dall’uditiva alla visuale o stimoli dolorifici hanno mostrato la presenza di attività cerebrale residua nelle cortecce primarie di pazienti in stato vegetativo”, confermando “una maggiore integrazione della attività corticale rispetto ai pazienti in stato vegetativo”.

“Comunque – ha osservato –, in assenza di un indice dell’attività neuronale che correli completamente con il livello di coscienza, anche una quasi normale attività cerebrale in risposta ad una stimolazione passiva non può essere interpretata come evidenza della presenza di coscienza”.

“Al contrario – ha continuato Soddu – cambiamenti nell’attività cerebrale rilevati nel paziente di seguito alla richiesta di esecuzione di un qualsiasi esercizio mentale possono essere interpretati come segni positivi della presenza di coscienza”.

“Diventa allora fondamentale offrire ai pazienti la possibilità di comunicare usando un interfacciamento cervello-computer che non richiede alcun atto motorio” e che attualmente consente a pazienti con sindrome di locked-in di “interagire con il loro ambiente esterno migliorando di gran lunga il loro livello di integrazione”.

E’ poi stata la volta di padre Jesús Villagrasa, L.C., docente ordinario di Metafisica all’Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” e membro del gruppo di Neurobioetica, il quale ha spiegato che “la persona è un soggetto ontologico (un individuo sussistente) di natura razionale, e per questa sua natura spirituale, gode di una dignità e di un’autonomia che si manifesta nella coscienza di sé”.

Alla luce di ciò, risulta quindi immediatamente comprensibile che “la persona che perde la coscienza, anche in modo presumibilmente definitivo, non perde la propria dignità intrinseca, né i diritti umani ch
e naturalmente le appartengono”.

Nel suo intervento, Padre Villagrasa ha illustrato i tre principali significati di persona in Bioetica: soggettivista di origine razionalista, funzionalista-utilitarista di origine sensista e ontologico.

A questo proposito, il docente di Metafisica ha criticato la tesi riduzionista “che riconduce interamente la coscienza ai fenomeni fisici del cervello”.

“Infatti, come conciliare la soggettività delle nostre esperienze coscienti con l’oggettività prescritta dal metodo d’indagine scientifica? Come conciliare l’autonomia della volontà e il determinismo delle leggi fisiche?”, si è chiesto.

“Altro problema è quello dell’accertabilità in alcuni casi della presenza di tale consapevolezza in un soggetto – ha osservatore il sacerdote –; vale a dire, se di fatto e di diritto sia possibile stabilire una rapporto causale tra l’esperienza interna e spirituale e il rilevamento empirico di attività neuronale”.

Nella tesi separazionista, invece, “l’uomo è una cosa, e la persona è un’altra. E quindi: non ogni individuo umano è una persona; certi animali e anche oggetti non-umani potrebbero essere persone; ed esiste una gradazione nell’essere (più o meno) persona”.

“La radice filosofica della tesi separazionista è il funzionalismo, che definisce la persona per una funzione e non per la sua natura – ha spiegato –. Si stipula per convenzione (perché non si fa riferimento alla sua natura) che un ente è persona se si rivela esternamente il possesso o la capacità di possesso di certe funzioni considerate rilevanti, quali la sensitività, la consapevolezza, la volontà”.

Per questo, ha continuato, “la tesi funzionalista va criticata perché la presenza di una funzione presuppone l’esistenza di un soggetto che possiede una natura specifica”. Ma “le funzioni non sono ‘il’ soggetto, semmai sono ‘del’ soggetto”.

Ci sono poi le filosofie di ispirazione specificamente moderna, cioè humiana e kantiana, che “tendono rispettivamente a ‘sottodeterminare’ il concetto di persona, riducendola semplicemente ad una successione di stati di coscienza, oppure a ‘sovradeterminarlo’, caricandolo di profondi significati morali”.

A questi filoni di pensiero, padre Jesús Villagrasa contrappone il personalismo ontologicamente fondato, che esprime il concetto di ‘persona’ nella classica definizione di Boezio – sostanza individuale di natura razionale –.

Infatti, ha concluso, “tutti gli esseri umani sono persone” e “la natura ha il primato sulla funzione, perché la natura ontologica è la causa delle diverse capacità e funzioni della persona, benché non si riduca ad esse, né alla presenza delle condizioni per la loro manifestazione (p. es. la corteccia cerebrale)”.

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ZENIT Staff

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