No alle facili interpretazioni del testamento biologico


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di Renzo Puccetti*

ROMA, domenica, 27 settembre 2009 (ZENIT.org).- C’è un aforisma del moralista Gomez Dávila che mi pare si adatti bene al dibattito che ruota attorno al cosiddetto testamento biologico: “ciò che non è complicato è falso“. Come in tutte le questioni bioetiche, sono così tanti gli interrogativi sollevati, così numerosi gli aspetti da considerare, clinici, giuridici, sociali, morali, deontologici, filosofici, politici (nel senso più nobile del termine), che davvero sarebbe temerario pensare di esaminarli in uno spazio che necessariamente deve essere breve. Che cos’è l’autonomia? Quale rapporto tra medico e paziente? Che razza di strumento è il testamento biologico? Mantiene quello che promette? Quale relazione tra legge morale e legge civile? Quale spazio riconoscere al pluralismo etico? Fede e ragione collidono? Quali conseguenze si possono intravedere se la vita diventa un bene disponibile? Sono solo alcuni dei numerosi interrogativi evocati dalla discussione sul fine-vita. Dicevo che le cose sono complesse, lo si intuisce già da queste poche righe e se di questo riuscirò a persuadere qualche lettore ritengo che sarà stato fatto già tanto contro un potente apparato mass-mediatico che lavora alacremente per ridurre tutto a facili, ma fuorvianti schematismi.

In un recente intervento un direttore di giornale, a cui non si può certo imputare la mancanza di chiarezza, affermava il primato dell’autonomia dell’individuo tratteggiando l’analogia del testamento biologico con un qualsiasi testamento patrimoniale: “Non esiste ragione al mondo per cui debba delegare allo Stato la scelta se rimanere in vita ad ogni costo o se morire. Perché la vita e la morte sono mie“, scriveva [1].

Argomentare, questo del giornalista, che riprende sostanzialmente l’accusa di intromissione delle gerarchie religiose in fatti che non li riguardano avanzata da quell’eminente politologo che non disdegnando di emanare giudizi da preclaro epidemiologo clinico, molto discetta di bioetica e bolla come “raccapricciante” l’opposizione al morire quale diritto [2]. Parole come “libertà”, “dignità”, “coscienza” vengono così spesso usate in un modo artefatto che ricorda quegli sciroppi medicinali ad uso pediatrico; se all’inizio possono trasmettere un piacevole ed invitante gusto dolce, subito dopo rivelano il pestifero amaro del vero sapore. Senza addentrarsi a confutare quella logora e puerile definizione di libertà quale arbitrio limitato dall’altrui arbitrio che niente dice della libertà, sembrerebbe tutto semplice: l’uomo si possiede e quindi ha il diritto di autodeterminare il suo destino; le forze che a ciò si oppongono sono mosse da una visione dogmatica ed oscurantista, da una prospettiva inaccettabile per l’uomo moderno, si devono espellere quale scoria inutile di un mondo ormai passato. Non si è forse scritto infatti che è in gioco una nuova «breccia che pone fine al potere (medico e religioso) sui corpi delle persone e (soprattutto) alla concezione “sacrale” della vita»? [3]. “Io sono mio” è la formula usata per comunicare la prospettiva bioetica libertaria. Però che questo che viene raffigurato non è l’uomo, ma una sua caricaturale idealizzazione. L’uomo non è una monade, la fonte stessa dell’autodeterminazione, il pensiero umano, non potrebbe esistere senza un opportuno linguaggio. E come acquisiamo il linguaggio se non attraverso il dono gratuito di un altro essere umano che ci parla e ci ascolta? “Nessun uomo è un’isola [4], con le sue azioni egli modifica il mondo che lo circonda, ma ha anche occhi per vedere, orecchie per udire, tatto, gusto e olfatto attraverso cui il mondo modificato da altri o da se stesso entra dentro di lui e lo plasma. Non avviene forse che dopo avere ascoltato un certo discorso, o visto una determinata scena non solo cambiamo idea, ma addirittura diciamo che siamo molto cambiati e giungiamo a dire che siamo diventati persone diverse? Se è vero che l’uomo non è solo relazionalità, è certo che l’uomo è anche relazionalità, alla cui sussistenza basta la sola presenza di un’altra persona. Nessuno può negare che quella giovane donna silenziosa la cui vita è cessata dopo l’interruzione della nutrizione e idratazione, in un senso o nell’altro, con la sua sola presenza abbia parlato con voce potente a milioni di persone. Non era un cadavere, non era solo un corpo che aveva perso l’attributo personale, la personalità era la stoffa di cui era fatta. L’uomo in carne ed ossa non è questa caricatura schizofrenica che si tenta di propinare; solo nella psicosi il proprio corpo non è riconosciuto come parte integrante di se stessi. Quanti reclamano a vedersi riconoscere quale diritto l’affermazione che la vita propria o di quelli affidati alla loro tutela non è più degna di essere vissuta, omettono di esplicitare che nello stesso momento in cui ciò avvenisse, si ammetterebbe l’esistenza di un qualcosa che è contrario a ciò per cui milioni di uomini hanno combattuto al prezzo della vita e che costituisce il faro stesso della civiltà: l’uguaglianza e la dignità di ogni uomo, l’inesistenza di vite indegne di essere vissute, il rifiuto di quella falsa pietà che il dr. Leo Alexander ci ammoniva a rifuggire dalle pagine del New England Journal of Medicine in un intervento che rimarrà un caposaldo dell’etica medica [5]. Non si tratta di qualcosa di puramente teorico, avviene sotto i nostri stessi occhi. Una volta accettato che la vita possa essere giudicata indegna e che questo costituisca diritto ad ottenere la morte, si comincia ad accettare come normale che la vita venga giudicata indegna in via presuntiva. In Olanda nel 1973 la dottoressa Geertruida Postma viene condannata ad una detenzione puramente simbolica (appena 7 giorni) per avere praticato l’eutanasia su richiesta della madre giunta alla fase terminale di malattia, ma già nel 1987 quattro infermiere che ammettono di aver praticato l’eutanasia su pazienti non coscienti all’ospedale universitario di Amsterdam sono rilasciate per aver agito per “spirito umanitario” e nel 2005 i sanitari del centro medico universitario di Groningen rivelano di praticare l’eutanasia su neonati non solo terminali, ma anche portatori di disabilità compatibili con la vita quali la spina bifida affermando che la condotta “si adatta alla cultura sociale e legale del Paese“. In Italia, tra tutti i genitori che hanno avuto il dolore di un proprio caro in stato vegetativo, ad uno solo è stata riconosciuta la cittadinanza onoraria e a quanto mi consta uno solo ha ricevuto l’onore di essere pubblicamente definito “un eroe dei nostri tempi” [6].

Sin dall’istituzione dell’habeas corpus fino a giungere ai documenti di garanzia nell’ambito della ricerca clinica l’autonomia non è mai stata fine a se stessa, ma uno strumento per la tutela dell’integrità personale minacciata dall’arbitrio. Se l’agire medico non è strettamente vincolato alla clausola di garanzia, allora il contrattualismo medico non ha più alcun argine razionalmente sostenibile e niente potrà impedire che l’atto medico si trasformi in uno iatro-meretricio dove ogni richiesta deve ricevere adeguata soddisfazione. Attenzione però, se il proscenio è illuminato dalla sfavillante esaltazione prometeica del dominio assoluto su di sé che alimenta il suicidio ideologico dell’ingegner Kirillov, il dietro le quinte è immerso nella buia disperazione “che deriva dalla percezione di una realtà vissuta come male assoluto e soverchiante” [7].

Il mito della dea Cura ci ricorda che sin dall’antichità il pensiero ha meditato sulla ineludibile dipendenza dell’esistenza umana, un pensiero niente affatto determinato dalla fede cristiana, ma radicato nella semplice constatazione della realtà umana: “Si nasce dipendenti, da una madre, e si muore dipendenti, da chi abbiamo intorno” [8].

A differenza di ogni testamento patrimoniale che dispone di beni dopo la morte senza alcun effetto sull’estensore fintanto che egli è in vita, quelle dichiarazioni
che si vorrebbero cogenti come un qualsiasi testamento dovrebbero essere applicate a cuore battente e decidere così della vita o della morte di un essere umano che oggi disporrebbe di sé per un domani che non conosce.

Circa la presunzione di affermare l’autonomia delle persone attraverso questo tipo di documenti è desolante dovere constatare la diffusa indifferenza ideologica verso almeno un quarto di secolo di ricerche e studi aventi per oggetto le dichiarazioni anticipate di trattamento. È interessante vedere i frutti che in questo campo sgorgano dall’interpretazione coerentista della verità, secondo cui è vero ciò che è coerente con una proposizione già ritenuta vera. Paradossalmente dalla folla che ad ogni piè sospinto si riempie la bocca di scienza e laicità si vede zampillare una triste operetta sul canovaccio di una bioetica onirica; ispirati da una fantasia notturna che attraverso un foglio di carta le incertezze verranno risolte, le volontà chiarificate, i desideri rispettati e l’assistenza alle persone malate migliorata, in molti col passare del tempo si convincono che quello che hanno immaginato sia realtà. Col sole però le fantasie notturne sono destinate a svanire, è sufficiente aprire le imposte e lasciare entrare lo splendore della verità. Ma questa è un’altra storia che merita di essere raccontata.

[1] V. Feltri, “Il vero errore è imporre come morire”. Il Giornale, 24-09-2009, pp. 1,7.

[2] G. Sartori, “Il testamento senza volontà”. Corriere della sera, 16-09-2009, p. 1.

[3] Mori M. Il caso Eluana Englaro.La «Porta Pia» del vitalismo ippocratico ovvero perché è moralmente giusto sospendere ogni intervento. Pendragon, Bologna. 2008.

[4] John Donne, Meditation XVII. In Devotions Upon emergent occasions.

http://www.amazon.com/reader/0375705481?_encoding=UTF8&ref_=sib%5Fdp%5Fpt#reader

[5] Alexander L. Medical science under dictatorship.. NEJM, 1949; 241(2):39-47

[6] Vinci E. “Io killer? Rifarei quella sentenza”. La Repubblica, 11-02-2009, p. 4.

[7] Turci PE. Disperazione e grandiosità nel suicidio: approccio fenomenologico. Studi su aggressività e suicidio. 2006; 8: 8-12.

[8] Dominijanni I. “Roberta, spezzata”. Il Manifesto, 21-04-2009, p. 12.

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* Il dott. Renzo Puccetti è specialista in Medicina Interna e Segretario dell’associazione “Scienza & Vita” di Pisa e Livorno.

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ZENIT Staff

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