ROMA, venerdì, 18 settembre 2009 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito l’articolo apparso sul nuovo numero di Paulus, dedicato a “Paolo il cosmopolita”.
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Padre Teilhard de Chardin ha illustrato una prospettiva ai suoi tempi piuttosto innovativa, riguardo alla concezione della vita che – al contrario di visioni sbilanciate in modo esclusivo sull’Aldilà, mortificando questa dimensione esistenziale – valorizza la dimensione materiale tanto da parlare di «Santa Materia» (cfr. Rm 14,14). La critica ormai poderosa sull’opera teilhardiana ha messo ampiamente in risalto alcuni suoi costanti riferimenti biblici, in particolare gli scritti di san Paolo e di san Giovanni, come precisato dallo stesso padre Teilhard in più occasioni. Tuttavia, ai suoi tempi l’esegesi moderna stava ancora muovendo i primi passi, senza essere ancora in grado d’identificare nell’ampio corpus paulinum i testi attribuibili all’Apostolo, rispetto a quelli collocabili soltanto nella cosiddetta “scuola paolina”. Assumiamo qui l’ipotesi secondo cui la visione di padre Teilhard – senza nulla togliere alle sue eccezionali intuizioni e alle sue ardite formulazioni di raccordo tra teologia e scienza – non costituisca un novum in senso assoluto, ma riprenda un sapere già presente nella Tradizione della Chiesa e, ancor prima, nella stessa sacra Scrittura, soprattutto a partire dall’apostolo Paolo. Visione cui il gesuita francese, tuttavia, non perviene partendo dal testo biblico, ma attraverso l’osservazione della natura, applicandosi all’analisi empirica della paleontologia. Questo senza mai proporsi, peraltro, né un’elaborazione teorica – tanto meno filosofica e teologica – sistematica, bensì cercando di avanzare ciò che egli stesso umilmente definisce «un’ipotesi probabile».
Gli ambienti divini in Paolo:“cosmo”, “corpo”, “cuore”
Assumendo l’odierna configurazione delle fonti prime dell’Apostolo (1Ts, 1 e 2Cor, Fm, Fil, Gal, Rm), non intendiamo escludere quelle seconde per accedere a una visione complessiva del corpus paulinum riguardo alla sequenza escatologica riassunta nei termini di parusía e pléroma. Fatta la debita premessa sulle implicazioni assai complesse dell’orizzonte semantico giudaico-ellenistico che si riscontra nei testi paolini, valga il richiamo all’antropologia biblica e a quella cristiana, segnata indelebilmente dal Mistero dell’Incarnazione, e dalla nuova economia di salvezza così inaugurata. Scontando dunque la lontananza della nostra comprensione rispetto al linguaggio biblico, ove non compare mai il termine di “materia” come oggi intesa, si sono anzitutto individuate le occorrenze di altri termini di senso ampliato, quali “cosmo”, “corpo”, “cuore”.
Cosmo. Nel linguaggio biblico non si trova un termine equivalente, se non negli ultimi libri dell’Antico Testamento (Sapienza, 2Maccabei): si usa piuttosto il termine “creazione” (ktísis, dal verbo ktízo: “fondare, installare, costruire, creare”), corrispondente all’ebraico bara’ (X. Leon-Dufour). Nel Nuovo Testamento, Paolo riconsidera il cosmo secondo una prospettica cristologica e antropologica. Per Paolo kósmos è l’universo che comprende in sé tutte le cose (tà pánta, cfr. Rm 11,36), comprese la stessa umanità e perfino le pretese divinità (1Cor 8,41). Identico il termine in Galati 3,22 e in Romani 11,32. Senonché, a dispetto dell’armonia prospettata nell’incipit della Genesi, Paolo percepisce che il mondo ha perduto il suo equilibrio originario: pertanto lo evoca con l’appellativo «questo mondo» (1Cor 1,20-21; 3,19; 5,10; 7,31.33-34), la cui sapienza è stolta (1Cor 1,20; 3,18; 8,13). L’eone cosmico, in tal senso, è caduco (1Cor 7,31). D’altra parte, però, «del Signore è la terra e tutto ciò che contiene» (1Cor 10,26; cfr. Sal 24,1), «poiché da Lui, grazie a Lui e per Lui sono tutte le cose» (Rm 11,36). Insomma, «Dio è e opera in tutto, così che tutto ha in lui consistenza e da lui deriva» (R. Schnackenburg). Di qui, una serie di realtà (lavoro, fatica, impegno, cibo) traggono linfa vitale e concorrono all’opera di salvezza.
Corpo. Il riferimento di Paolo all’orizzonte semantico ebraico è forte, ma capace di operare un salto iperbolico captando dall’ellenismo la categoria dello “spirituale” (1Cor 15,46) e operando un’inedita contaminazione nel creare il concetto di «corpo spirituale». Esso si estende dalla persona umana al «corpo di gloria» del Kýrios, per giungere fino alla figura ecclesiale. La corporeità di Cristo è pneumatica perché totalmente ancorata nella dipendenza da Dio e animata dal suo Spirito. La salvezza si opera qui: Gesù Cristo, infatti, è colui al quale Dio ha sottomesso ogni cosa (1Cor 15,27). La salvezza cristica raggiunge l’uomo anche nella sua dimensione corporea (Rm 8,23), realizzando una solidarietà tra corpo e cosmo (Rm 8,19-25). Nella versione greca dei LXX gli equivalenti dell’ebraico basar (“corpo”) sono sóma e, per il Nuovo Testamento, anche sárx (“carne”). Se vi è un’antitesi, essa non è tra fisicità e interiorità (entrambe compongono la natura umana), bensì tra l’essere creato e Dio creatore. Se il corpo è già in sé “cosa buona”, le Lettere ai Galati e ai Romani ne accentuano il valore in chiave cristologica: la redenzione, infatti, è connessa all’assunzione della carne. Essa è abitata dal peccato che ha reso schiavo il corpo, ma Gesù Cristo ha assunto un corpo, rendendolo il luogo dove si attua la riconciliazione. Per questo possiamo glorificare Dio nel nostro corpo (1Cor 6,19-20). Oltrepassando l’opposizione ellenica tra materiale e immateriale, il dinamismo concepito da Paolo realizza una continuità tra dimensione somatica e prospettiva della risurrezione: ecco il «corpo celeste». In sintesi: «la carne [del peccato] in Cristo è ridivenuta corpo, quindi possibilità che tutto, fino alle estreme propaggini della materia, sia da Dio, di Dio e per Dio» (R. Cavedo).
Cuore. Per Paolo “coscienza” (in greco synéidesis; non ha un corrispondente in ebraico) riflette la nozione biblica di cuore (Rm 2,14ss.): negli scritti paolini questo concetto si forma dalla confluenza tra filosofia stoica (J. McKenzie) e il greco kardía, che evoca l’ebraico leb quale luogo delle forze vitali (X. Leon-Dufour). Proprio nella Lettera ai Romani si evidenzia la centralità dell’elemento kardía rispetto all’intera storia di salvezza, come una sinfonia senza fine. Fin dagli esordi dell’Antico Testamento «l’uomo non vede quel che vede Dio: l’uomo, infatti, guarda all’apparenza, ma il Signore guarda al cuore» (1Sam 16,7). Pertanto, come ha esplicitato il magistero di Benedetto XVI (Deus caritas est), l’intera storia della salvezza potrebbe essere ricondotta allo scambio interiore tra Dio e il cuore umano.
Pantokrátor: il Cristo cosmico
cantato negli inni deuteropaolini
Nella Lettera ai Romani vengono configurate le principali tappe della storia della salvezza e dunque il testo risulta altrettanto capace di illuminare la poderosa e alquanto ardita prospettiva storico-escatologica delineata da padre Teilhard. Ma anche dagli scritti attribuiti alla cosiddetta “scuola di Paolo” (deuteropaolini), emergono utili agganci rispetto alla presente ricerca, specie nelle Lettere della prigionia:
– Colossesi 1,15-20. Nell’inno cristologico, Cristo è mediatore della creazione, riconciliatore di tutte le cose. La sua è una “Signoria cosmica”.
– Efesini 1,3-14. L’inno, affine ai berakót sinagogali e agli inni giudaici, mostra il ruolo ecumenico di Cristo in relazione con il piano salvifico
di Dio (1,9-10). Gesù Cristo
è presentato come il pantokrátor cosmico, a partire però dal suo ambito di rivelazione storica che è la Chiesa, suo corpo (1,22-23).
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Filippesi 2,6-11. Questo inno liturgico delle comunità giudeo-cristiane palestinesi, forse in lingua aramaica, propone una sovraesaltazione della Signoria cosmica di Cristo, nuovo kosmokrátor. «Tutto il cosmo confessa» che egli, dopo la sua kénosi, è ora il Kýrios per antonomasia: un percorso dunque più dinamico – di discesa e ascesa – rispetto alle letture patristiche che sottolineavano il Verbo eterno preesistente e incarnato.
La stretta connessione di “cosmo-corpo-cuore” ha dunque portato alla luce una loro dipendenza vitale da un centro propulsore: il cosmo è anche creazione (ktísis), mondo creato (At 17,24): di qui prende il via la visione paolina tutta cristocentrica del cosmo (Col 1,15-17). Per Teilhard Cristo è l’evento-soggetto che si colloca oggettivamente al centro della storia, divenendone il Redentore-Evolutore. A Paolo-Saulo sulla via di Damasco, così come a padre Pierre sul fronte della prima guerra mondiale, la centralità assoluta della figura di Cristo venne rivelata in momenti mistici, che subito innestarono nella loro persona l’esigenza irrefrenabile di manifestarla in ogni dove e in ogni direzione: probabilmente aderendo alla medesima percezione della forza del «Dio della speranza» e della «potenza dello Spirito Santo» (Rm 15,13).
Messa sul mondo: la sublime convergenza eucaristica
Partendo dalla formula paolina «in Cristo», studiata a fondo da P. Benoît, si deduce che con la comunione questo corpo deve divenire «uno solo in Cristo» (Rm 12,5) e raggiungere «la misura perfetta della pienezza di Cristo» (Ef 4,13). Paolo mette in evidenza l’unità tra il corpo risorto di Cristo e il corpo di Cristo composto da tutti i credenti. La cena eucaristica rende possibile la crescita di questo corpo e, riconciliati nella fede, distrugge quanto potrebbe nuocere allo sviluppo dell’uomo nuovo. Se Paolo ha colto la trasfigurazione del corpo del Signore nel corpo spirituale della Chiesa, padre Pierre ha intuito la presenza operante dell’energia cristica nel corpo della Terra, consacrato quale “Ostia totale”, segno della manifestazione (diafanía) del cuore di Cristo: «Niente può sussistere fuori della tua carne, o Gesù» (La Messa sul Mondo). Anche sul piano esistenziale l’Apostolo e padre Teilhard hanno vissuto vicende in qualche modo analoghe, offrendo la propria vita quale «sacrificio profumato» (Ef 5,2): così risulta per Paolo nei numerosi passi a carattere autobiografico delle sue Lettere (cfr. 2Cor 2,14-17), così pure per padre Teilhard nel vastissimo epistolario, rivolto per lo più a persone di fede. Sofferenze e prove entrambi le hanno metabolizzate, assumendole nell’obbedienza a Cristo e nella fedeltà alla Chiesa, oltre alle incomprensioni subìte. Questo perché il tema della croce è per entrambi centrale: per Paolo essa è «scandalo […] stoltezza […] potenza […] sapienza», per Teilhard è «la via dell’evoluzione storica». Come pure il valore soteriologico della risurrezione di Cristo è per entrambi fuori discussione, è l’assioma che tutto sostiene (Rm 4,25)! Paolo e Teilhard sono accomunati anche dalla “formazione” nel deserto: i primi tre anni in Arabia per il nuovo Saulo, gli anni di esilio forzato in Cina per il gesuita. Ognuno di loro ha poi cercato di “fuoriuscire” dal proprio ambito semantico – il primo dall’universo giudaico alla koiné ellenistica, il secondo dalla disciplina scientifica alla ricerca umana – anche a costo di inedite forzature idiomatiche. Si pensi alla coincidenza tra ricapitolazione in Paolo e cristificazione in Teilhard. E se Paolo fu «pazzo per Cristo» nelle agorá antiche, padre Pierre lo fu nella comunità scientifica in via di formazione, quando ancora si era ben lontani dal realizzare la rete invisibile delle telecomunicazioni satellitari e virtuali che egli preconizzò come noosfera.
Un’antica e nuovissima via per la felicità
Possiamo concludere sottolineando non solo la piena conformità del padre Teilhard all’insegnamento della Chiesa, ma sottolineando come la sua riflessione si mostri sempre più congeniale alla comprensione scientifica del mondo. Essa può ricondurre la vita odierna al suo centro cristico, che la sostiene e l’attira a sé, proprio in linea con la visione paolina: cogliere tutto il buono del mondo (1Tm 4,4; Fil 4,8), facendo tutto per la gloria di Dio (1Cor 10,31), senza tuttavia piegarsi alla perversità del mondo (Gal 1,4) né conformandosi alla mentalità del mondo (Rm 12,2). Opera possibile soltanto se si ha «la mente di Cristo» (1Cor 2,16) e si trasfigura la propria vita (1Cor 7,29-31) mediante la conversione/metánoia, cioè il rinnovamento del cuore, che permette di diventare creature nuove. Ecco il nuovo stato di coscienza che Teilhard de Chardin auspicava per l’uomo moderno nel suo saggio La via alla felicità! E tutto questo grazie alla potenza dello Spirito Santo, vero agente per il riscatto del corpo (Rm 8,23) e anche del mondo materiale. Azione che – in una sublime visione trinitaria che sembra richiamare quella profetica (Is 65,17) – Teilhard chiama la «trinitizzazione» e l’«amorizzazione» del mondo. Una visione verso il fine ultimo che egli definisce niente meno che «cristogenesi», ma calcando ancora le orme di san Paolo, poiché: «Tutto è vostro, e Paolo, e Apollo, e Cefa, e il mondo, e la vita, e la morte, e il presente, e il futuro: tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio» (1Cor 3,22-23). Visioni tutte riassunte nelle sintesi operate dal Concilio Vaticano II nella Costituzione dogmatica Lumen Gentium e in quella pastorale Gaudium et spes, così come nell’analogia musicale proposta da J. Ratzinger, secondo cui la Chiesa riesce a far risuonare le sue molteplici note e risonanze come un organo ben “accordato”. Come l’Apostolo meritò l’appellativo di “araldo delle genti”, così padre Teilhard è stato definito come “araldo del Terzo millennio”. Egli visse veramente per un unico scopo eucaristico, cioè convergere tutti per Cristo, con Cristo e in Cristo: «Io non saprò mai predicare che il mistero della tua Carne e Anima, che trasparisce in tutto ciò che ci avvolge!».
Luciano Benoni Mazzoni