La “Caritas in veritate” e il mondo del lavoro (II)

L’Arcivescovo Crepaldi presenta l’enciclica al Comitato esecutivo della CISL

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ROMA, giovedì, 17 settembre 2009 (ZENIT.org).- Per la rubrica di Dottrina sociale della Chiesa riportiamo di seguito la seconda parte dell’intervento pronunciato il 9 settembre da mons. Gianpaolo Crepaldi, Arcivescovo-Vescovo di Trieste e Presidente dell’Osservatorio internazionale “Cardinale Van Thuân”, in occasione della presentazione dell’enciclica “Caritas in veritate” al Comitato esecutivo della CISL

La prima parte è stata pubblicata il 10 settembre scorso.

 

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6. Qualcuno ha osservato che la Caritas in veritate si occupa poco del lavoro e del sindacato[1]. Se consideriamo lo spazio espressamente dedicato a questi problemi si può forse appoggiare questa valutazione. Ma se, come credo sia giusto fare, si tengono presenti le molteplici indicazioni che possono illuminare il mondo del lavoro, come per esempio quelle da me appena indicate, possiamo avere un quadro diverso. Vediamo allora, a questo punto della nostra riflessione, quali sono le ripercussioni nel mondo del lavoro della prospettiva generale che ho sopra indicato, ossia del precedere del ricevere sul fare.

Prima di tutto vale la pena fare almeno una breve riflessione su un aspetto che di solito viene scansato perché troppo retorico, ma che invece, a mio avviso, ha un considerevole significato pratico e concreto. Anche per il lavoro vale il principio che il suo scopo va oltre se stesso: scopo del lavoro non è il lavoro. Questo perché nel lavoro, in ogni lavoro, c’è qualcosa di gratuito, dato che la persona che lavora è sempre di più del suo lavoro. Era in fondo questa la distinzione tra lavoro in senso soggettivo e lavoro in senso oggettivo della Laborem exercens di Giovanni Paolo II. Di conseguenza c’è sempre una quota di lavoro non pagato o, meglio, che esula dal contratto di lavoro stesso, che si presuppone e che è l’anima stessa del lavoro[2]. Anche per il lavoro vale il principio che i presupposti che non si possono produrre, sono le cose più importanti. E più concrete ed utili, alla fine. Infatti la vera ricchezza prodotta dal lavoro è soprattutto dovuta a questa parte non quantificabile, che esula dai numeri delle statistiche. Il lavoro come vocazione, possiamo dire, è l’aspetto economicamente più rilevante del lavoro. Il lavoro come tecnica è l’aspetto meno rilevate, anche economicamente. Tanto è vero che molti analisti si sono chiesti se una delle cause della crisi finanziaria ed economica sia proprio questa: l’indebolimento della percezione di quanto nel lavoro c’è necessariamente di irriducibile. Si sta perdendo il senso del lavoro come vocazione. Ripeto: non si tratta di retorica se ciò figura tra le possibili cause – e non all’ultimo posto – della crisi che stiamo attraversando. Mi sembra che questo sia importante per il sindacato, perché fa da linea portante per un certo modo di fare contrattazione. Si dice sempre, o spesso, che nella contrattazione si deve tenere presente la persona del lavoratore. Ma appunto dicendo questo si fa riferimento a quella dimensione del lavoro che trascende il lavoro in senso tecnico e che, se non c’è, debilita anche il lavoro in senso tecnico. Emergono qui aspetti relazionali, ambientali, partecipativi della contrattazione di notevole importanza per un sindacato moderno.

7. La Caritas in veritate ha alcuni passaggi molto interessanti e di grande novità quando afferma, con un certo coraggio per una enciclica, che oggi le espressioni profit e non profit non sono più sufficienti (n. 41). Vedo in questa affermazione una notevole capacità di lettura dei fenomeni attuali ed anche una grande capacità di indicare percorsi da battere. In effetti, la quantità di lavoratori che opera in contesti non indirizzati dal self interest sono molti: «I mercati degli economisti – interazioni di attori economici individualistici, competitivi e self-interested – sono veramente molto difficili da trovare. La maggior parte della gente lavora a casa o in grandi organizzazioni – imprese, università, ospedali. Molti lavorano nei vari settori e agenzie del governo, che gioca un ruolo economico dominante non di mercato. Il lavoro domestico è chiaramente una attività non di mercato, ma così è presumibilmente anche per la maggior parte del lavoro all’interno di organizzazioni basate sul mercato. Come entità, queste possono essere competitive e self-interested (se si possono attribuire questi aggettivi a delle entità), ma per le persone che vi lavorano esse sono prima di tutto organizzazioni gerarchiche che promuovono uno sforzo cooperativo verso certi beni. Se si guarda alla moderna economia come un tutto, la competizione, che pure è presente, svolge un ruolo meno significativo delle leggi, dei regolamenti e dei costumi»[3].

8. Oltre che un dato di fatto così motivabile, l’osservazione di Benedetto XVI è confermata dalle tendenze in corso. Un’impresa sociale, nella forma per esempio della cooperativa, non è propriamente né profit né non profit. Una Società per azioni che stabilisca dei patti parasociali secondo i quali il 30 per cento degli utili vanno destinati a potenziamento delle imprese partners nel terzo mondo; oppure una società di commercio equo e trasparente che garantisca il rispetto delle clausole sociali ma in modo veramente trasparente; oppure una Community Foundation o le imprese che aderiscono alla cosiddetta “economia di comunione”: tutte queste realtà esulano dalla distinzione profit e non profit[4]. Ammettiamo che le scuole, come sembrava da un certo progetto di riforma, si trasformassero in fondazioni: sarebbero collocabili nel profit o nel non profit?

9. Ritengo che il sindacato debba affrontare queste tematiche, uscendo lui per primo da queste dicotomie, di cui è espressione la contrapposizione pubblico / privato, interpretando il nuovo e trovando un significativo rapporto con tutte queste nuove realtà. Qui non si tratta più solo del vecchio “terzo settore”, espressione ormai obsoleta e figlia della medesima contrapposizione profit / non profit. Infatti la Caritas in veritate dice che indispensabili elementi di gratuità ci sono in tutti gli ambiti, senza dei quali niente può funzionare. Il sindacato ha una grande vocazione, quella di favorire la coesione sociale, facendosi portatore di rivendicazioni e di autentici valori, di richieste normative e salariali ma anche di spazi di espressione per la persona, spazi in cui le persone, soprattutto i giovani, i non ancora occupati (n. 64), possano rispondere alla loro chiamata e, così, dare il meglio di sé. Così facendo, il sindacato scoprirà nuovi importanti campi di intervento.

10. Tra questi campi nuovi di intervento vorrei richiamare qui i due principali: la famiglia e la vita. Come ho detto prima, la prospettiva proposta dalla Caritas in Veritate è di vedere nelle persone e nelle cose non una nostra produzione ma un dono di senso che ci responsabilizza all’esercizio di una libertà non arbitraria. Ora, questa esperienza si fa prima di tutto in famiglia, dove l’accoglienza reciproca nell’amore e l’accoglienza della vita insegnano la logica del dono. Questo ci rende fratelli. L’enciclica dice che la vicinanza può essere prodotta ma non la fraternità. Quest’ultima va accolta come un dono. Dove se non nella famiglia facciamo questa esperienza? La Caritas in Veritate spiega così cosa significhi che la famiglia è la cellula della società. Senza l’esperienza della gratuità non c’è fraternità. Se questa esperienza non si fa in famiglia – ossia se la famiglia viene indebolita – tutta la società ne risente. Lo stesso si deve dire della vita. L’enciclica ci ricorda che l’accoglienza della vita comporta una ricchezza economica e che ad essa è legato lo sviluppo.

Questi due grandi temi, unitamente ad altre tematiche particolarmente sensibili presenti nell’enciclica, dai drammi provocati dall’ingegneria bioetica a turismo a sfondo sessuale, mi inducono a fare
un’ultima considerazione su una problematica di frontiera sulla quale il sindacato sarà fortemente chiamato in causa in futuro, ma su cui mi sembra non si rifletta a sufficienza. Mi riferisco al diritto all’obiezione di coscienza per tutti i lavoratori che entrano in contatto con disposizioni legislative che impongono loro di partecipare operativamente al non rispetto della vita e della famiglia. Non è il caso che io esemplifichi qui le tante situazioni che già oggi interessano moltissimi lavoratori non solo nel campo sanitario, ma anche in quello giuridico ed amministrativo. Né la carità né la verità possono essere un diritto. Infatti esse sono un dono e non si possono produrre, ma solo accogliere. Esiste però il diritto a cercare la verità e la carità e ad attenersi responsabilmente ad esse una volta scoperte. La Chiesa ha una “missione di verità”. Ma credo che anche il sindacato, nel suo ambito e con le sue modalità, abbia una missione di verità (n. 9). La Chiesa difende la verità dell’uomo e della famiglia perché altrimenti contraddirebbe la creazione. Anche il sindacato, nel suo ambito e con le sue modalità, deve difendere la verità dell’uomo e della famiglia, perché altrimenti diventano impossibili lo sviluppo e la giustizia. Tale difesa passa anche attraverso la difesa della libertà di coscienza del lavoratore.

 
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1) In senso stretto ne parlano i paragrafi 63 e 64.

2) «Ogni lavoratore è un creatore» (Caritas in veritate 41 che riprende la Laborem exercens).

3) E. Hadas, L’economia, la finanza e il bene: una crisi concettuale cit, p. 53.

4) S. Fontana, L’immateriale nell’economia. Crisi finanziaria e ripensamento di alcune categorie economiche, “Bollettino di Dottrina sociale della Chiesa” V (2009) 1, pp. 8-11.

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ZENIT Staff

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