La pillola del giorno dopo e l’obiezione di coscienza

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di Renzo Puccetti*

ROMA, mercoledì, 2 settembre 2009 (ZENIT.org).- A latere del 30° Meeting di Rimini l’associazione Medicina e Persona ha organizzato, fra l’altro, anche un incontro a cui ho avuto l’onore di essere invitato insieme al dr. Uroda, presidente dell’Unione Cattolica Farmacisti Italiani, introdotto e moderato dal dr. Nicola Natale, dirigente ginecologo presso l’Ospedale di Lecco, segretario della Federazione Italiana Società Medico-Scientifiche (FISM). L’incontro, il cui titolo era “La pillola del giorno dopo: prodotto da banco?” è stato particolarmente utile per chiarire una serie di punti oggetto di confutazione nel dibattito biopolitico.

Particolarmente viva è stata la testimonianza del dr. Uroda, fatto recentemente oggetto di una denuncia per non avere somministrato la pillola del giorno dopo. Il farmacista ha ricordato come lo stesso codice deontologico del farmacista impone al farmacista di svolgere la propria opera nel senso del rispetto della vita, la stessa vita che, come insegna la biologia, ha inizio al momento del concepimento. Questo è quanto, come cattolico che svolge la professione di farmacista, si vuole che venga riconosciuto: semplicemente la possibilità di svolgere la propria professione a difesa della vita dal concepimento alla morte naturale.

Dal momento che chiaramente la scheda tecnica del farmaco riporta che il levonorgestrel può agire impedendo l’impianto dell’embrione nell’endometrio (la scheda tecnica parla di “ovulo fecondato”, espressione scientificamente scorretta dal momento che dopo la fecondazione non esiste più un ovulo, il cui corredo genetico deriva solamente dalla madre, ma un embrione con 46 cromosomi di derivazione materna e paterna), non si comprende come si possa negare il diritto all’obiezione di coscienza.

Il fatto che secondo un regio decreto del 1934 i farmacisti non possono rifiutarsi di vendere le specialità medicinali di cui siano provvisti, non modifica il diritto all’obiezione di coscienza per gli operatori sanitari (e tra costoro la legge riconosce oltre i medici, gli infermieri, le ostetriche anche i farmacisti) previsto dalla legge 194 e 40 a tutela del concepito.

L’esclusione della possibilità dell’obiezione di coscienza nei confronti della pillola del giorno dopo è espressione di un pensiero culturalmente debole che tende a compensare il vuoto spinto che lo caratterizza attraverso un’aggressività intollerante che spesso usurpa i panni della buona scienza e del corretto ragionamento.

È possibile rendersi conto di ciò analizzando alcuni punti.

Molti di quanti ritengono un obbligo la prescrizione su richiesta della pillola del giorno dopo e la sua dispensazione sostengono che gli studi più recenti proverebbero che essa agirebbe senza impedire l’annidamento dell’embrione nell’utero materno.

Dal momento che non esiste un indicatore di salute e vitalità embrionale nel periodo prima dell’impianto, la ricerca si svolge attraverso la valutazione di prove indirette, cioè per via indiziaria. Sappiamo che il levonorgestrel (il componente della pillola del giorno dopo) post-coitale inibisce la liberazione della cellula uovo dai follicoli ovarici della donna nel 20-40% dei casi.

È stato dimostrato inoltre in un’altra percentuale dei casi un’interferenza sulla dinamica di rilascio dell’ormone luteinizzante (LH) e sulla produzione di progesterone dopo l’ovulazione. In quale misura e modalità tali effetti agiscano sul processo fecondativo e nidatorio non è assolutamente dato sapere.

Una cosa è certa: se la pillola del giorno dopo ha quell’efficacia che viene propagandata, allora essa deve agire con altri meccanismi che non siano quelli anti-ovulatori e, dal momento che è stato dimostrato da studi in vivo che non vi è alcun effetto sul muco cervicale e gli spermatozoi, l’effetto antinidatorio ha alta probabilità di essere implicato, oppure, se la pillola non ha azione post-fecondativa, allora bisogna ammettere che la sua efficacia è nettamente sopravvalutata, con tutte le implicazioni che derivano in termini di consenso informato e di diffusione delle informazioni ad un pubblico particolarmente vulnerabile come quello delle giovani che rappresentano la quota maggioritaria delle donne che richiedono il prodotto.

La citazione di studi come quello del Karolinska Institutet su un modello tridimensionale di endometrio e quello su primate non umano (scimmia Cebus Apella) per asserire il meccanismo solamente anti-ovulatorio della pillola del giorno dopo nascondono una lettura purtroppo superficiale di quegli stessi studi.

Nel primo caso la pillola del giorno dopo è associata ad una riduzione del 16% di adesività all’endometrio, nel secondo caso il levonorgestrel è associato ad un numero di gravidanze esattamente uguale alle scimmie che avevano ricevuto un placebo, studio questo che non so quanto sia conveniente citare da parte dei fautori della pillola del giorno dopo.

Ma per uscire dalle secche degli aspetti tecnici, come in modi diversi fanno notare mons. Jean Lafitte e il sen. Marcello Pera, è sconcertante che i sostenitori del pensiero relativista, sempre pronti a sostenere il multiculturalismo in chiave anti-occidentale, si facciano paladini di un pensiero unico quando si trovano di fronte chi oppone l’obiezione di coscienza come assoluto.

Il relativista che si oppone all’obiezione di coscienza sembra dire in modo del tutto incoerente: “mi vanno bene tutte le posizioni, tranne quelle che non piacciono a me”. La critica che viene di solito posta a questa osservazione è che da un riconoscimento esteso della coscienza come espressione soggettiva ne deriverebbe la liquefazione della società (il bioeticista Tristan Enghelardt propone una società di “moral strangers”).

Diventa quindi evidente che il relativismo, nella sua espressione pura, non può essere a fondamento di alcuna comunità dimensionalmente ampia; esso ha bisogno di limiti. Questo non risolve ancora il problema, perché si pone la questione di come tracciare questi limiti: mediante una positiva attestazione di volontà di maggioranze di volta in volta mutevoli, o attraverso il riconoscimento del nucleo di verità che, al di là delle sovrastrutture culturali, accomuna l’uomo di ogni luogo e di ogni tempo? La volontà, o la verità è la bussola che ci deve guidare? Il dibattito sul diritto positivo contrapposto a quello naturale ci porterebbe assai lontano e qui è soltanto citato come sottofondo da tenere intimamente legato alla questione antropologica.

Per quanto riguarda la questione dell’inizio-vita è evidente che non sembrano esservi problemi dal momento che l’obiezione di coscienza nei confronti dell’integrità e della dignità della vita umana quale espressione del foro interno, trova il corrispettivo di oggettività sia nella legge naturale che negli stessi fondamenti costituzionali, laddove la Repubblica riconosce (non pone) “i diritti inviolabili dell’uomo”, a cui evidentemente non possono essere estranei il diritto alla vita e alla libertà religiosa.

È proprio a questi alti ed inalienabili diritti, al rispetto della coscienza delle persone, alla libertà di pensiero e di religione, che la legislazione italiana si riferisce quando in una specifica norma (Legge 12 Ottobre 1993 n. 413) riconosce la possibilità di obiezione di coscienza nei confronti della sperimentazione animale, dove giustamente addirittura si afferma il divieto di ogni forma di discriminazione nei confronti dei cittadini (di tutti, non di una determinata categoria) che vogliano esprimere obiezione di coscienza.

Si vuole forse sostenere che la tutela dell’embrione umano, cioè dell’essere umano vivente, deve ricevere uno spazio di riconoscimento pubblico minore rispetto a quello assicurato a qualsiasi essere animale? E proprio il riconoscimento alla libertà religiosa come fondamentale diritto umano a cui rimanda la legge 413/93, c
osì come il diritto all’obiezione di coscienza previsto nella legge 40/2004 sulla fecondazione artificiale evidenziano il diritto al rispetto giuridico di quelle posizioni dettate da motivazioni religiose che si oppongono a partecipare agli interventi considerati lesivi della dignità dell’atto procreativo.

È evidente che la stessa contraccezione non può non appartenere al novero di tali interventi. La necessità di una normativa che in maniera definitiva faccia chiarezza su questi argomenti è reclamata in misura sempre maggiore dai numerosi operatori sanitari che con il disagio proprio delle condizioni legate alle fluttuazioni giurisprudenziali si trovano a dovere confrontare le proprie convinzioni etiche con la società cosiddetta multiculturale.

Si tratta di istanze tutt’altro che oltranzistiche, assolutamente espressioni di una volontà di ragionevolezza e di lealtà, affinché il sistema pubblico, senza discriminare alcuno, possa organizzare i servizi che ritiene siano dovuti. Nella postilla al documento del Comitato Nazionale di Bioetica sulla pillola del giorno dopo, quando alcuni membri, assolutamente non riconducibili a posizioni rivolte al rispetto del Magistero cattolico, invitano ad evitare che la clausola di coscienza sulla pillola del giorno dopo si trasformi in una limitazione della possibilità di fruizione del presidio, lo fanno rivolgendosi alle “Autorità e Istituzioni competenti”.

Quando nella legge del 1975 istitutiva dei consultori nell’articolo 1 si delineano gli scopi, “la somministrazione dei mezzi necessari per conseguire le finalità […] in ordine alla procreazione responsabile” è un punto chiaramente indicato di cui dovrebbero farsi carico i consultori pubblici stessi. Non è uno Stato caratterizzato da soggezione verso oscuri poteri clericali quello in cui la possibilità di obiezione di coscienza e la protezione dei diritti dei cittadini che se ne avvalgono è esteso sia all’aborto che alla contraccezione, ma la democratica e culturalmente occidentale Nuova Zelanda.

Non si può pretendere di ovviare a carenze ed inadempienze delle strutture pubbliche violentando diritti umani fondamentali come la libertà di coscienza e di religione, senza negare con i fatti quella tolleranza affermata a parole. Che, sulla spinta della parte più motivata e sensibile degli iscritti, gli ordini professionali garantiscano l’indipendenza della professione e la dignità etica di posizioni radicate nella prospettiva ippocratica è una necessità sempre più pressante. Pronunciamenti incerti o addirittura vessatori minano oggettivamente la convivenza sotto un identico tetto professionale.

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* Il dott. Renzo Puccetti è specialista in Medicina Interna e Segretario dell’associazione “Scienza & Vita” di Pisa e Livorno.

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ZENIT Staff

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