di Mirko Testa
RIMINI, martedì, 1 settembre agosto 2009 (ZENIT.org).- Da cinque anni Vescovo di Petrópolis, nello Stato di Rio de Janeiro, mons. Filippo Santoro non aveva mai pensato di andare in Brasile.
Poi un giorno la domanda di don Luigi Giussani: “Tu, andresti volentieri in Brasile”? E lui: “Quel ‘volentieri’ mi ha ferito e gli ho risposto subito: ‘Se me lo chiedi tu, vado!’”, ha raccontato il presule durante un incontro svoltosi il 25 agosto in occasione del Meeting di Rimini.
Era il 1984 quando partì alla volta del Paese carioca. Giunto a Rio, l’allora don Santoro si trovò ad insegnare teologia all’Università Cattolica di Rio de Janeiro sostituendo Clodovis Boff, fratello del più noto Leonardo, ma anch’egli esponente di spicco della Teologia della liberazione che allora era quasi egemone in tutta l’America latina.
Fu così che decise di impiegare come metodo teologico del suo insegnamento “non una dialettica, ma una presenza”, perché “la comunione viene prima della liberazione. E non viceversa”.
“E la comunione per me era lo sguardo e l’abbraccio di don Giussani e degli amici in cui esperimentavo la totale diversità dell’abbraccio di Cristo. Dalla comunione la liberazione”, ha spiegato mons. Santoro.
Per il presule, è infatti “indispensabile offrire fatti che indicano la presenza del Mistero tra noi, prima di ogni analisi sociale, prima delle categorie del povero, della globalizzazione, dell’ecologia e della stessa cultura”.
E così diventano ancora più vere le parole di don Giussani: “La liberazione è quando il destino è più vicino al cuore dell’uomo”.
La seconda testimonianza è stata quella di Amparito Espinoza, 38 anni, che svolge attività di educatrice a Pisullì, in un quartiere marginale di Quito, in Ecuador.
Amparito è stata una delle prime a cominciare come orientatrice in un progetto della Fondazione non governativa Avsi chiamato Pelca (Prescolar en la casa, che significa “asilo in casa”), nato per offrire sostegno ai bambini e alle famiglie più povere che abitano nelle aree rurali del Manabì.
A un certo punto della sua vita, dopo aver perso già una figlia all’età di sedici mesi, Amparito viene abbandonata da suo marito quando era incinta di Amanda, che compirà 16 anni questo settembre. Due anni dopo averla lasciata per risposarsi con un’altra donna, il marito torna sui suoi passi. Lei lo riaccoglie in casa. Un giorno scopre di essere nuovamente incinta.
Nel 2003, però, i medici diagnosticano a Anthony una cardiopatia incurabile. Il bambino ha solo quattro anni.
“Passavo tutti i giorni all’ospedale con lui – ha raccontato Amparito –. Spesso si svegliava e mi diceva: ‘Ti voglio bene mamma, non ti preoccupare, il Signore mi guarirà’”.
Dopo nove mesi, il piccolo non ce la fa. “Morì davanti ai miei occhi, e io non potevo fare nulla. Diventò buio”. Era sola e senza soldi, era “arrabbiata con Dio”. Amanda studiava in una scuola religiosa gestita dalle Suore Missionarie del Sacro Costato, che la sostennero durante la malattia di Anthony, sia economicamente che umanamente.
“Cosa vuoi da me, Signore, se io non sono cattiva? Perché mi accadono queste cose? Non voglio piangere più, mettimi dove tu vuoi, ma in maniera di essere utile agli altri”, diceva.
Un giorno incontra Stefania Famlonga, responsabile dell’Avsi in Ecuador, e da lì attinge nuova speranza per ricominciare a vivere.
“Le cose che ti succedono nella via – dice oggi Amparito –, anche le più drammatiche, come la morte di un figlio, non avvengono per caso o per capriccio ma per permetterci di capire la volontà del Signore”.
Con Stefania, segue quindi il progetto PelCa – che prevede anche asili e doposcuola -, incontrando periodicamente gruppi di madri per aiutarle a educare i loro figli. Per quattro mesi visitano tutti i bambini nelle case di Quito, conoscendoli, incontrando le loro famiglie, le loro situazioni.
In seguito viene aperto un asilo “Ojos de Cielo” che oggi accoglie 35 bambini e nascono otto “case asilo” che ospitano quotidianamente 56 bimbi, in genere di genitori lavoratori.
Uno delle chiavi del successo di questo progetto è che chi lavora nei centri educativi e tiene rapporti cono le famiglie sono persone che vivono lì insieme a loro, o addirittura le stesse mamme dei bambini sostenuti che hanno cominciato a lavorare negli asili.
Tra le persone che lavorano attualmente a Quito, molte sono ragazze madri.
Dal 2000, quando nacque il progetto – reso possibile grazie al sostegno a distanza – con alla guida don Dario Maggi, oggi Vescovo ausiliare di Guayaquil, a Pelca si è aggiunto anche un altro progetto, denominato “Aedi”, che si prende cura delle famiglie con figli in età scolare, per un totale di 1.500 bambini sostenuti di cui 600 in età prescolare.
“L’idea che sta alla base del progetto Pelca – ha spiegato Amparito – vede la famiglia quale principale ambito educativo del bambino”.
“Noi non vogliamo sostituire ciò che manca, ma aiutare le mamme a capire cosa dare da mangiare ai propri bambini, a riconoscere e curare le malattie, a come trascorrere del tempo con loro per aiutarli nell’apprendimento”, ha detto.
“Cresciamo insieme, io, le mamme e i bambini. E’ un’esperienza che mi fa sentire ogni giorno più ricca”, ha quindi concluso.