La laicità dello Stato secondo Benedetto XVI (parte I)

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di don Natale Scarpitta*

ROMA, mercoledì, 29 luglio 2009 (ZENIT.org).- Termini come “laicità”, “laicismo”, “ragione laica” ricorrono sempre più frequentemente nell’odierno confronto sociale e politico. Il Santo Padre Benedetto XVI, affermando che la laicità “sembra essere diventato quasi l’emblema qualificante della post-modernità, in particolare della moderna democrazia”, invoca come necessaria una riflessione attuale sul vero significato e sull’importanza che essa riveste nell’odierno scenario culturale.

Prima di entrare nel vivo del discorso, è necessaria una constatazione: nella plurale cultura contemporanea, alla parola “laicità” è associato spesso un concetto complesso ed equivoco. Ciò deriva dal fatto che essa non è né univocamente interpretata né, tanto meno, univocamente attuata o vissuta. Oggi, infatti, al termine sembra essere attribuita una confusa polisemia, derivante da matrici culturali e politiche differenti. Omettendo volontariamente una retrospettiva storica sull’uso della parola, si osserva che oggi, soprattutto in Italia, il termine “laicità” tendenzialmente fa riferimento ad un degenerato secolarismo laicista che promuove un progressivo confinamento della religione nell’ambito strettamente privato della persona e della sua coscienza individuale, impedendo alla stessa religione di assumere rilevanza nella sfera pubblica.

Sempre Benedetto XVI, rivolgendosi ai partecipanti al IV Convegno nazionale della Chiesa Italiana, a Verona, proponeva una lucida disamina del cosiddetto “pensiero laico” contemporaneo, sempre più diffuso e contagioso, che propaganda una: «cultura che […] vorrebbe porsi come universale e autosufficiente, generando un nuovo costume di vita. Ne deriva una nuova ondata di illuminismo e di laicismo, per la quale sarebbe razionalmente valido soltanto ciò che è sperimentabile e calcolabile, mentre sul piano della prassi la libertà individuale viene eretta a valore fondamentale al quale tutti gli altri dovrebbero sottostare. Così Dio rimane escluso dalla cultura e dalla vita pubblica, e la fede in Lui diventa più difficile, anche perché viviamo in un mondo che si presenta quasi sempre come opera nostra, nel quale, per così dire, Dio non compare più direttamente, sembra divenuto superfluo, anzi estraneo. In stretto rapporto con tutto questo, ha luogo una radicale riduzione dell’uomo, considerato un semplice prodotto della natura, come tale non realmente libero e di per sé suscettibile di essere trattato come ogni altro animale. Si ha così un autentico capovolgimento del punto di partenza di questa cultura che era una rivendicazione della centralità dell’uomo e della sua libertà. Nella medesima linea, l’etica viene ricondotta entro i confini del relativismo e dell’utilitarismo, con l’esclusione di ogni principio morale che sia valido e vincolante per se stesso».

Nell’odierno contesto socio-culturale italiano, il Santo Padre rileva la “deriva nichilistica” di un processo culturale che si è messo in moto con l’obiettivo di ampliare la sfera della libertà individuale, ma che, invece, sta approdando progressivamente ad una sua limitazione e negazione. Benedetto XVI scorge in tal fenomeno anche una “dittatura del relativismo”, perché in esso si propaganda una forma di cultura che taglia deliberatamente le proprie radici storiche volendo di proposito costituire una contraddizione radicale non solo al cristianesimo ma più ampiamente alle tradizioni religiose e morali dell’umanità. Il Pontefice denuncia inoltre che la fiducia sempre più crescente ed incondizionata nel potere del connubio autoreferenziale scienza-razionalità sta riducendo l’intera esistenza umana unicamente a ciò che è calcolabile e concretamente sperimentabile.

Tale degenerazione è dovuta ad una concezione assoluta della libertà individuale. Essa, infatti, pur costituendo per la persona un valore primario e fondamentale, appare come l’esigenza intima regolante la propria autonomia di pensiero e di azione. L’immatura percezione di sentirsi “assolutamente” libero fa indebitamente presupporre all’uomo di possedere la legittima garanzia che tutto ciò che è in grado di fare, possa lecitamente realizzarlo; che tutto ciò che vuole possedere, debba necessariamente ottenerlo. Questa libertà, per la quale in ultima analisi tutto è relativo al soggetto, viene eretta a supremo criterio etico e giuridico: ogni altra posizione può essere quindi lecita soltanto finché rimane subordinata a tale criterio.

Ciò accade soprattutto nel campo della tecnica e del progresso, dove non vi sono più frontiere etiche che ne regolino la ricerca e la sperimentazione. Non esistono norme né principi morali assoluti, tanto meno se abbiano un’origine divina. L’etica viene rinchiusa piuttosto nella sfera privata, unicamente regolamentata dal soggettivismo dei giudizi e dall’utilitarismo delle valutazioni. La morale diventa così totalmente funzionale alle esigenze della propria volontà. Relativismo e funzionalismo diventano così fenomeni che pongono, di volta in volta, ed a seconda delle convenienze, specifici valori di riferimento, privi quindi di ogni carattere di stabilità e di oggettività. Tale mancanza di valori assoluti, appartenenti ad un patrimonio sociale condiviso, si registra anche nel campo culturale: l’imperante relativismo fa sì che ogni convinzione sia lecita ed ogni comportamento legittimo.

E l’uomo? È comunemente considerato un mero prodotto della natura, frutto dell’evoluzione cosmica e biologica. Egli però acquista sempre più consapevolezza di considerarsi padrone autosufficiente del proprio destino, realizzando se stesso unicamente basandosi sul potere delle sue capacità umane. In questo triste scenario, sembra chiaro che non vi è più spazio per ciò che trascende la pura ragione. Dio e la sua legge non hanno più diritto ad abitare lo spazio pubblico né del pensiero né dell’agire umano. La fede è ridotta a devozione personale. Tutto ciò che è religioso è estraniato, emarginato dalla dimensione pubblica e relegato unicamente nell’intimità silente – perché ammutolita – della coscienza individuale. Non si riconosce più al fatto religioso alcun rilievo sociale: anzi, ogni convinzione politica o sociale dell’uomo scaturente da una qualsiasi appartenenza religiosa lederebbe la libertà del suo stesso pensiero.

L’identificazione indebita ed inopportuna tra laicità e laicismo a cui facevamo accenno prima, proposta con sempre maggiore vigore oggi in Italia da forze politiche e ideologiche, è stata ripetutamente smascherata da Papa Benedetto XVI che, nel corso del suo pontificato, ha spesso parlato piuttosto di una laicità positiva, aperta, autentica, sana.

Da una lettura attenta dei suoi interventi emergono tre punti cardine del suo pensiero.

– Innanzitutto sana laicità è quella che garantisce, in accordo coi principi costituzionali (cfr. art. 7) e i dettami conciliari (cfr. GS 76), l’effettiva distinzione ed autonomia delle realtà terrene dalla sfera ecclesiastica. A quanti, animati da uno “spirito laico”, invocano una netta separazione tra religione e Stato, tra fede e politica, il Santo Padre risponde non solo riconoscendo, bensì rivendicando autorevolmente la distinzione tra Stato e Chiesa. Uno spirito positivo di laicità, infatti, deve preservare la legittima indipendenza e sovranità delle due sfere negli ambiti ad esse propri, ma non vieta che esse promuovano congiuntamente una sempre più costruttiva e pacifica convivenza civile, fondata sul reciproco rispetto, in un clima di collaborazione feconda e di dialogo leale. Tale collaborazione tra la Comunità politica e la Chiesa genera anche la preoccupazione condivisa di offrire alle domande della società odierna risposte concordi, ed al contempo fa maturare l’esigenza di trovare comuni soluzioni reali ed efficaci ai problemi che attanagliano l’uomo post-moderno. Gli stretti vincoli di cooperazione, inoltre
, implicando una convergenza fattiva di sforzi, manifestano che la comune responsabilità viene posta dalla due sfere al servizio della ricerca del bene autentico ed integrale di ogni singola persona umana e dell’intera collettività.

– Solo una laicità statale cieca ignora la dimensione religiosa della comunità civile e ne disconosce i valori. Una sana laicità, invece, riconosce che la religione, piuttosto che costituire un ostacolo al perseguimento dei nobili fini di un Paese, rappresenta per lo Stato un solido partner per la coesione sociale e l’edificazione di uno spazio civile più umano, giusto e libero. Un clima di autentica laicità implica quindi che ciascun Governo assicuri alla Chiesa il debito riconoscimento della sua specifica natura e la rassicurazione di farle esercitare liberamente la missione che le è propria. Questo comporta che lo Stato, in opposizione alle correnti laiciste, non deve “tollerare” che vi sia al suo interno una dimensione religiosa, considerandola come un semplice sentimento individuale confinabile all’ambito privato. Al contrario, alla religione va riconosciuta la legittimità della sua presenza comunitaria pubblica e garantito e valorizzato il libero esercizio delle attività di culto (spirituali, culturali, educative e caritative) della comunità credente. Ciò implica pertanto che la Chiesa deve poter godere del diritto di libertà religiosa, considerato in tutta la sua ampiezza. Tale riconoscimento deve permettere anche che la dimensione pubblica della religione si esprima attraverso una legittima e fattiva partecipazione dei credenti alla costruzione dell’ordine sociale. Appare proficua e legittima perciò quella laicità che garantisce ad ogni cittadino il diritto di vivere la propria fede religiosa con autentica libertà anche in ambito pubblico. Una reale democrazia laica permette infatti alle istituzioni religiose di dare pubblicità ai propri messaggi al fine di poter offrire ai cittadini materia di riflessione in maniera equanime.

– Inoltre, una sana laicità riconosce l’ordine morale al quale appartengono istanze etiche che trovano il loro fondamento nell’essenza stessa dell’uomo. Essa tutela la dignità dell’uomo e garantisce la difesa dei diritti inviolabili di cui egli è portatore. La persona umana, nella sua concreta individualità sociale, deve essere riconosciuta come un valore originario per cui i suoi diritti fondamentali permangono in ogni situazione non-negoziabili. Questi valori, prima di essere cristiani, sono umani, tali perciò da non lasciare indifferente e silenziosa la Chiesa, la quale ha il dovere di proclamare con fermezza la verità sull’uomo e sul suo destino. Se valori come libertà, giustizia, rispetto della vita e degli altri diritti della persona, vengono insegnati anche da una comunità religiosa, questo non diminuisce la “laicità” dell’impegno di coloro che si riconoscono in questi principi.

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*Don Natale Scarpitta, presbitero dell’Arcidiocesi di Salerno-Campagna -Acerno, alunno dell’Almo Collegio Capranica, è licenziando in Diritto Canonico presso la Pontificia Università Gregoriana.

[Giovedì, la seconda parte dell’articolo]

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ZENIT Staff

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