Che fare di fronte a chi cade nella trappola delle sette?

Risponde il cattedratico José Luis Sánchez Nogales

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GRANADA, mercoledì, 22 luglio 2009 (ZENIT.org).- Il fenomeno delle sette, considerato dai documenti della Chiesa come una sfida, richiede una risposta pastorale. Quale deve essere? Per approfondire il tema dell’azione pastorale e pedagogica cui dare vita alla luce della fede cattolica, ZENIT ha intervistato il professor José Luis Sánchez Nogales.

Sacerdote diocesano di Almería, è docente di filosofia della religione e di storia delle religioni, presso la Facoltà di teologia di Granada, dove ricopre anche la carica di vice rettore. In qualità di eminente conoscitore dell’Islam, è consultore del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso.

Autore di un buon numero di libri e articoli sui temi di sua competenza, è anche membro della Red Iberoamericana de Estudio de las Sectas (RIES, http://info-ries.blogspot.com).

Qual è il primo atteggiamento che gli educatori nella fede dovrebbero assumere di fronte a persone che stanno per finire nell’orbita di movimenti di religiosità alternative come le sette?

José Luis Sánchez Nogales: La prima cosa è quella di non perdere la vicinanza con la persona e di mantenere aperte le sue vie di comunicazione con l’ambiente e soprattutto con la famiglia, gli educatori e gli amici. Nonostante le ristrettezze di personale delle istituzioni religiose, il percorso da seguire è quello di un’azione pedagogica e pastorale diretta, da persona a persona.

Una delle cause che provocano lo scivolamento verso le zone d’ombra della religiosità è il deficit di calore umano nell’attività pastorale ed educativa nei momenti di crisi, soprattutto quando si tratta di persone che si sentono trascurate o persino ferite. Tendono ad incolpare la grande istituzione religiosa. Se in quel momento ricevono invece un’accoglienza adeguata, allora è possibile la riconciliazione e il riorientamento della vita religiosa.

Come intavolare un dialogo pastorale ed educativo con le persone che si trovano in situazioni di ricerca e sono magari tentate di scivolare verso qualche movimento od organizzazione ambigua?

José Luis Sánchez Nogales: Il contatto che è necessario stabilire in questi casi è ciò che definiamo dialogo terapeutico, risanante, nel senso spirituale del termine. E il linguaggio proprio di questo tipo di dialogo è quello della testimonianza. L’inizio di questo dialogo non è quello di offrire un “prodotto”, ma quello di domandare con umiltà, interrogare, preoccuparsi per ciò che l’altro che si trova in necessità può offrire. È il “dammi da bere” di Gesù, all’inizio dell’incontro, che pone le basi perché possano affiorare le autentiche carenze e necessità della persona.

D’altra parte, la natura testimoniale dell’approccio conferisce alla parola dell’educatore una serietà rafforzata dal fermo convincimento di ciò che esprime e che prende sul serio la comunicazione con l’altro. La parola arriva ad essere qualcosa di più di una mera comunicazione, in quanto diventa donazione che vuole influenzare l’interlocutore. Si tratta di una parola sincera che procede dal profondo di chi la pronuncia e che si rende efficace quanto tocca il profondo di chi la ascolta. Non è espressione di chi meramente recita un dettato o un discorso appreso senza che la parola attraversi il suo cuore e lo “tocchi”. Non può influenzare l’altro che, nel suo profondo non si sente toccato dal messaggio che esprime. Questo credo che sia molto importante nel dialogo con queste persone.

Cosa manca nelle grandi istituzioni religiose, nel nostro caso nella Chiesa, che giustifichi la diffusione di movimenti di dubbio profilo religioso all’interno di una popolazione in buona misura plasmata dalle grandi religioni?

José Luis Sánchez Nogales: Certamente è più facile a dirsi che a farsi. Ma sicuramente si nota un deficit di esperienza religiosa nei nostri giovani e anche negli adulti. Occorre potenziare la capacità di evocare un’autentica esperienza religiosa nelle celebrazioni, nell’insegnamento, negli incontri, ecc. L’anima dei bambini e dei giovani resta molte volte insoddisfatta da un’attenzione pastorale e pedagogica che potremmo chiamare “di mantenimento”.

Credo che si sia prodotto un deficit nella promozione di attività in grado di colmare gli spazi vuoti dei bambini e dei giovani. Abbiamo assistito, negli ultimi venticinque anni, ad un progressivo invecchiamento della “popolazione cultuale”, il settore dei credenti e praticanti su cui finisce per ricadere quasi tutta l’attenzione pastorale più direttamente spirituale e religiosa delle istituzioni ecclesiali. Assorbe un’alta percentuale delle energie pastorali di un clero anch’esso invecchiato, il cui lavoro meritorio non sarà mai abbastanza riconosciuto.

Ma il settore più giovane della nostra società ha tradotto l’esperienza in norma, su ciò che ha valore e vale la pena. Per questo motivo è necessario dare spazio all’esperienza viva, poiché i recettori cognitivi razionali hanno smesso di avere il primato in questa cultura. Una comunicazione teologicamente coerente e razionalmente valida non sarà accolta se non è percepita come esperienza vivificante, che aiuta a vivere, che sprona a vivere. È una sfida per tutti noi.

Infine, come concretizzare, almento in alcuni elementi, l’azione pastorale e pedagogica nella direzione della creazione di un ambiente di esperienza religiosa e di dialogo spirituale, di fronte a questi fenomeni dei movimenti di profilo ambiguo o persino settario?

José Luis Sánchez Nogales: Mi sembra importante continuare l’esperienza che si sta vivendo già oggi in diverse istituzioni e parrocchie. Avviarsi alla pratica della meditazione cristiana, delle diverse forme di preghiera, alla lettura delle Sacre Scritture, ecc. Offrire un clima religioso attraente e conciliante nelle celebrazioni, dove le persone possano scoprire in Dio la risposta salvifica ai loro diversi problemi e dove vi sia un atteggiamento veramente partecipativo. Lottare contro la “mancanza di anima” che può verificarsi talvolta nei riti religiosi cristiani e che provoca i vuoti spirituali che poi si cerca di colmare in quelle ombre religiose a cui facevamo riferimento.

Questo aiuta le persone a conoscere se stesse come esseri unici, amati da Dio nella propria storia personale umana. È molto importante. Si stanno compiendo degli sforzi per dare calore alle comunità cristiane e creare un ambiente di fraternità e di vicinanza pastorale. Una vera ecologia delle relazioni umane, contro l’isolamento e l’alienazione di cui sono vittime molte persone nelle nostre società. Per questo è molto importante il riconoscimento della maggiore età ai laici. Le sette, come reclamo, usano proprio questa offerta di protagonismo religioso che nelle grandi Chiese sembra meno possibile.

Innumerevoli sono oggi le situazioni di sofferenza fisica, psichica, morale e spirituale che affliggono persone, famiglie, comunità e società intere. Le Chiese cristiane devono far risuonare in questo mondo attuale il messaggio gioioso, curativo e salvifico di Dio in Gesù Cristo; devono trovare il modo di avvicinarsi efficacemente a questo “eccesso di dolore” di cui soffre il mondo attuale: un uomo ha bisogno, oggi più che mai, della vicinanza curativa di Dio nella propria vita.

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ZENIT Staff

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