La globalizzazione influenza le relazioni islamo-cristiane

Nel Paese, la tradizione dominante punta a isolare i non musulmani

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ROMA, domenica, 19 luglio 2009 (ZENIT.org).- Le relazioni islamo-cristiane e le tradizioni locali non possono essere pensate a prescindere dall’orizzonte globale. E’ quanto sostiene in una intervista a “Oasis” , mons. Henri Teissier, Arcivescovo emerito di Algeri.

Per il presule di origine francese, che ha vissuto sulla propria pelle la terribile crisi terroristica che ha investito il Paese nel corso degli anni Novanta, “il ripiegamento sull’identità, araba per qualcuno, berbera per qualcun altro, musulmana per qualcun altro ancora” rappresenta “la cifra dell’Algeria attuale”.

“Nei primi anni dopo l’indipendenza – ha raccontato – si parlava di sviluppo, di formazione universitaria, di occupazione e disoccupazione. Oggi l’interesse principale sembra essere quello di apparire radicati nella propria identità”.

“Un fenomeno generalizzato”, ha detto, anche se “ci sono persone che tentano di lasciare il paese in cerca di nuove speranze. E questo non significa che siano algerini o musulmani peggiori degli altri”.

I rapporti tra cristiani e musulmani, invece, “sono condizionati dalla situazione globale, che tende a creare una separazione in due campi: quello occidentale, considerato come nemico dell’Islam, e quello islamico”.

“Nella vita concreta però – ha precisato – esistono situazioni in cui cristiani e musulmani sono molto vicini e hanno solide relazioni di amicizia”.

Esistono quindi spazi di dialogo, ha ammesso, “ma perché il dialogo continui è necessario dimostrare che i musulmani sono rispettati a livello globale. In caso contrario la nostra situazione diventa difficile”.

Infatti, ha spiegato, “tra quanto succede in Europa e quanto avviene sulla sponda meridionale del Mediterraneo c’è una forte interdipendenza. Viviamo nel contesto della globalizzazione ed è questo l’orizzonte entro il quale va pensata la relazione tra cristiani e musulmani”.

“La situazione in Algeria è molto cambiata negli ultimi anni – ha ammesso mons Teissier –. Prima c’era una tradizione non aggressiva. Per esempio era possibile partecipare alle feste degli amici musulmani, essere invitati alla rottura del digiuno nel mese di Ramadan o a condividere il pasto comune in occasione della Festa del sacrificio”.

“Ora domina una tradizione di provenienza mediorientale ed estranea alla storia locale. Questa punta a separare i musulmani dai non musulmani”.

“La gente si trova divisa tra due tradizioni – ha affermato l’Arcivescovo emerito di Algeri –. Una tradizione aperta, quella dell’Islam popolare, che gli algerini della mia generazione hanno spontaneamente interpretato, e una molto chiusa e rigida che spinge i musulmani a diffidare dei non musulmani”

E “la chiusura non riguarda solo le relazioni tra musulmani e cristiani, ma quelle tra musulmani disponibili al dialogo e musulmani che invece lo rifiutano”.

Occorre, ha quindi concluso, “lavorare per far prevalere la tradizione dell’amicizia e dell’apertura, altrimenti questo paese non avrà futuro”.

In Algeria, che conta meno di 10.000 cattolici su una popolazione di 33 milioni di abitanti, l’islam è la religione di Stato e la libertà di culto è garantita dalla Costituzione.

Tuttavia, il “Rapporto 2008 sulla Libertà Religiosa nel mondo”, redatto dall’associazione Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS), ha inserito l’Algeria nella lista dei Paesi nei quali si verificano limitazioni legali alla libertà di culto.

Nel febbraio 2006 è stata approvata un’ordinanza che disciplina l’esercizio dei culti non musulmani, il cui vero obiettivo era quello di contrastare le crescenti conversioni di musulmani al cristianesimo evangelico.

Il decreto legge approvato il 21 marzo 2006 rende punibili i tentativi di conversione di musulmani con multe da 5 a 10 mila dollari e carcere da due a cinque anni.

Il governo algerino ha proibito la produzione e distribuzione di testi, audio e video volti a minare l’Islam ed ha inoltre regolamentato quali edifici possono essere usati dai cristiani per le attività religiose. Ha precluso l’uso di case come luoghi di culto, e ogni nuova chiesa deve essere autorizzata.

Per questo, i sacerdoti devono ora chiedere l’autorizzazione governativa per svolgere attività pastorali precedentemente normali, come quella di visitare i prigionieri in carcere.

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ZENIT Staff

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