ROMA, martedì, 14 luglio 2009 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito una intervista apparsa sul tredicesimo numero di Paulus (luglio 2009), dedicato al tema “Paolo l’architetto”.
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James Dunn è attualmente uno degli esponenti di maggior spicco degli studi su san Paolo, nonché fondatore della corrente di studi detta “New Perspective”, termine da lui stesso coniato nel 1983. L’approccio alle Lettere e alla vita dell’Apostolo proposto dalla New Perspective rilegge in modo positivo il rapporto tra Paolo e il giudaismo, colto come preziosa eredità che egli non rigetta ma, anzi, ripropone, allacciandosi all’apertura universale e inclusiva tipica della tradizione profetica d’Israele. Abbiamo incontrato il professor Dunn ad Ariccia, in occasione dell’International Seminar on Saint Paul, per confrontarci in merito all’ecclesiologia dell’Apostolo.
Professor Dunn, ci aiuti a capire “l’architettura comunitaria” del cristianesimo delle origini.
«Probabilmente non è necessario far notare che, quando Paolo parla dei credenti corinzi che “si radunano in chiesa” (1Cor 11,18: en te ekklesía) non s’intendeva la “chiesa” come edificio, ma piuttosto come persone che si radunavano per essere chiesa, come chiesa [giustamente la traduzione CEI e la Nuovissima Versione traducono qui ekklesía con “assemblea”, NdR]. Considerate le connotazioni che più tardi sono venute ad accompagnarsi a “chiesa” (= “edificio”), potrebbe creare meno confusione usare parole come “adunanza”, “riunione”, “incontro”, “assemblea”. Detto ciò, è importante chiedersi: dove si radunavano i primi credenti nelle città della missione egea? E di che sistemazione facevano uso? Apriamo una parentesi: poiché la missione paolina cominciava, di solito, dalle sinagoghe della città in cui l’Apostolo era entrato, è utile notare quanto sappiamo sulle sinagoghe del I secolo nella diaspora occidentale. L’archeologia ha riportato alla luce diversi edifici sinagogali di quest’epoca in Italia, in Grecia e nell’Asia Minore, per esempio, a Ostia, il porto di Roma; a Stobi, in Macedonia; nell’isola egea di Delo; e a Priene, tra Efeso e Mileto. In molti casi, dove vi era una comunità giudaica significativa, venivano allestite come sinagoghe alcune case private».
Quindi anche i primi cristiani, quando si allontanarono dalla sinagoga, cominciarono a incontrarsi presso case private?
«L’archeologia non ha riportato alla luce alcuna struttura identificabile come “chiesa” e databile con sicurezza prima di un secolo o più dopo Paolo. Così dobbiamo supporre che i primi cristiani s’incontrassero o in case private o in locali più grandi, presi in affitto per l’occasione. Nessuna delle nostre fonti indica che la seconda alternativa sia la più realistica: il costo di una prenotazione sarebbe stato di là delle possibilità economiche dei primi piccoli gruppi di credenti. Inoltre, è difficile che le associazioni locali gradissero la presenza di “concorrenza” nei propri ambienti: difficile, ad esempio, che la proprietà di un tempio favorisse un raduno cristiano. La sola, ovvia conclusione è che i primi credenti s’incontrassero come “chiesa” nelle case l’uno dell’altro; e che il membro più ricco e la casa più grande fornissero un luogo regolare per l’incontro della “chiesa intera”, suddivisa in diverse “sotto-comunità”. Questa deduzione è confermata da vari riferimenti alle chiese domestiche presenti nelle lettere di Paolo e dal fatto che l’Apostolo si riferisce a Gaio come “ospite di tutta la comunità [ekklesía]” (Rm 16,23)».
L’archeologia fornisce qualche dato interessante in merito a queste abitazioni?
«Fortunatamente i siti di Ostia, Corinto ed Efeso ci hanno lasciato testimonianze significative, su cui si sta ancora lavorando, che ci forniscono una buona idea delle diverse tipologie di alloggi. L’attenzione degli studiosi è caduta per lo più sulle proprietà dei più agiati, che occupavano la maggior parte di un piccolo isolato all’interno di una rete di strade. Ma in alcuni luoghi – in particolare a Ostia – le rovine si estendono sopra il livello del primo piano e ci forniscono un’immagine migliore di quelli che dovevano essere piccoli appartamenti, o di una sola stanza, nei caseggiati popolari. Nicholas Purcell, nel suo articolo in The Oxford Classical Dictionary, riassume così la situazione: “Nel periodo imperiale, i caseggiati popolari a più piani, che solitamente erano conosciuti con il nome di insulae, davano alloggio a tutta la popolazione, eccettuata una minuscola frazione da Roma e da altre grandi città. Non tutte queste sistemazioni erano di bassa qualità; alcune erano situate in aree piacevoli, alcuni cenacula (appartamenti) erano sufficientemente grandi, quelli ai piani inferiori non erano scomodi… e molte persone di uno status sociale abbastanza elevato non potevano permettersi di meglio”».
Da quanto ci dice, si deve ipotizzare un contesto non particolarmente agiato e nemmeno molto ampio. Questa deduzione è corretta?
«Sì. Poiché la maggior parte dei gruppi di convertiti erano – probabilmente – di bassa estrazione sociale, privi d’istruzione e quindi d’influenza (cfr. 1Cor 1,26), dobbiamo supporre che si trovassero all’estremità inferiore della scala sociale. In altre parole, se le osservazioni di Purcell sono corrette, la maggior parte di loro viveva in caseggiati popolari, forse di diversi piani sopra il terreno. Possiamo presumere che alcuni raduni avessero luogo in questi “appartamenti”, o almeno in quelli più grandi, e vicini al livello della strada. Una “chiesa”, in una simile “casa”, era un piccolo gruppo composto fino a un massimo di dodici persone. Tuttavia, poiché la parola “casa” porta inevitabilmente con sé la connotazione di una proprietà più grande, sarebbe meglio fare riferimento a questi gruppi-cellule come a “chiese- appartamento”. Di nuovo, se Purcell ha ragione, anche i relativamente agiati Aquila e Priscilla non avrebbero potuto permettersi più di un appartamento abbastanza grande, al piano terra, all’interno di un isolato ampio. E la casa di Filemone a Colosse poteva ospitare un certo numero di ospiti, oltre ad alcuni schiavi. Forse, in alcuni casi, è possibile immaginare i cristiani che si radunano dentro abitazioni più spaziose, complete di atrium e sala da pranzo (triclinium), ipotizzando assemblee più grandi, ma “quanto” più grandi è questione dibattuta: le stime migliori arrivano a cinquanta persone».
In questo caso, come potevano radunarsi tutti insieme in una abitazione privata?
«S’ipotizza che, quando la chiesa si radunava per il pasto comune, non tutti fossero ospitati nel triclinium: un fatto che ci aiuterebbe a capire la sistemazione insoddisfacente che Paolo lamenta alla chiesa di Corinto (cfr. 1Cor 11,17-22.33s.). Comunque, le chiese domestiche più antiche dovevano essere abbastanza piccole… potevano ospitare dodici o venti persone. E anche quando “tutta la comunità-chiesa” presente in una città o in un quartiere riusciva a incontrarsi in un solo luogo, il numero dei presenti non doveva superare i quaranta-cinquanta, radunati non necessariamente in una singola stanza. Le dinamiche della vita ecclesiale, quindi, erano determinate anche dallo spazio fisico nel quale i cristiani potevano incontrarsi come chiesa. Ricordiamo che le dinamiche sociali dei piccoli gruppi sono molto diverse da quelle di assemblee con centinaia o persino migliaia di partecipanti come avviene oggi. Pertanto anche la teologia che li accompagna tiene conto di questi fattori molto più di quanto non avvenga di solito. Oggi ci dovremmo preoccupare non tanto che le nostre chiese-comunità sono troppo piccole, ma che sono troppo grandi!».
Colpisce il fatto che Paolo, parlando della Chiesa, utilizzi un
’immagine significativa come quella del “corpo” di Cristo (Rm 12,5; 1Cor 12,12.27): dunque qualcosa di vivo, non solo un tempio o un edificio. Secondo lei qual è la portata di questa metafora?
«La metafora del corpo è l’espressione vitale dell’unità di una comunità, nonostante la diversità dei suoi membri. L’immagine della città o dello Stato come un corpo – noi inglesi usiamo ancora l’espressione body politic – era già familiare alla filosofia politica del tempo. L’esempio più conosciuto è il famoso apologo di Menenio Agrippa, a noi riportato da Livio e da Epitteto: il punto essenziale affermatovi è che plebe e patrizi non possono smettere di cooperare gli uni con gli altri. Sarebbe come se gli arti di un corpo rifiutassero di cooperare con l’insieme… i risultati sarebbero disastrosi per entrambi! L’esposizione di Paolo in 1Cor 12,14-26 rievoca le preoccupazioni di quell’apologo. Anche l’assemblea cristiana è un corpo, come lo Stato: funziona solo se i diversi membri agiscono in armoniosa interdipendenza. C’è, però, una significativa differenza rispetto allo Stato: il suo tratto distintivo e identificativo è il fatto di essere corpo di Cristo. Paolo, in altri termini, sposta l’accento all’interno della metafora: l’immagine corporativa della comunità cristiana non è più lo Stato nazionale (l’Israele storico), ma l’assemblea cittadina. L’identità dell’assemblea cristiana come “corpo” non è data dalla collocazione geografica o dalla lealtà politica né da razza, posizione sociale o genere. Essa si fonda nella comune fedeltà a Cristo, espressa visibilmente – non da ultimo – dal battesimo nel suo nome e dalla condivisione sacramentale del suo corpo».
Giacomo Perego
BOX: I condomini a Roma, nel I secolo
Nelle sue Satire, il poeta Giovenale ci ha lasciato una vivida testimonianza di quanto fossero comuni gli edifici scadenti a Roma nella seconda metà del I secolo. L’avidità dei proprietari, smaniosi di aumentare il più possibile gli introiti attraverso gli affitti, li spingeva a costruire le abitazioni in fretta e fin troppo alte. Una constatazione molto amara, ma, forse, ancora attuale: «Viviamo in una città puntellata per la maggior parte con supporti e travi inconsistenti: questo è il modo in cui i locatari arrestano il crollo delle loro proprietà, nascondendo crepe gigantesche nell’edificio sgangherato, rassicurando gli affittuari che possono dormire al sicuro, quando per tutto il tempo l’edificio resta in equilibrio come un castello di carta. Preferisco vivere dove incendi e attacchi di panico nel cuore della notte non sono eventi così comuni. Quando il fumo è arrivato fino al vostro appartamento al terzo piano, mentre siete ancora addormentati, il vostro eroico vicino del piano di sotto sta urlando per avere dell’acqua e portare in salvo i suoi stracci. Se l’allarme arriva dal piano terra, l’ultimo ad arrostire sarà l’affittuario del sottotetto, su, tra i piccioni che fanno il nido con nient’altro che le tegole tra lui e il tempo» (Satire III, 193-202).