di Carmen Elena Villa
CASTRES, giovedì, 9 luglio 2009 (ZENIT.org).- Il parco di Gourjade nel villaggio di Castres (Francia) è stato questa domenica lo scenario della Messa solenne in cui Jeanne-Émilie de Villeneuve, fondatrice della comunità di Nostra Signora dell’Immacolata Concezione, è stata proclamata beata.
Più di 4.000 persone si sono riunite per la cerimonia, giungendo dai 17 Paesi in cui è presente la famiglia religiosa, in quattro continenti: Asia, Africa, Europa e America Latina.
La Messa è stata presieduta da monsignor Pierre-Marie Carrè, Vescovo di Albi, e la formula di beatificazione è stata pronunciata dall’Arcivescovo Angelo Amato, prefetto della Congregazione per le Cause dei Santi e inviato di Papa Benedetto XVI alla cerimonia.
Veglie di preghiera e trasmissione in diretta via Internet nei Paesi in cui è presente la Congregazione hanno fatto parte della festa per la beatificazione.
Durante l’Eucaristia, giovani e bambini con gli abiti tipici delle varie Nazioni e culture hanno portato le offerte a monsignor Amato.
Dal castello all’abbraccio della povertà
Jeanne-Émilie de Villeneuve nacque a Tolosa il 9 marzo 1811, terza di quattro figli. Nei primi anni dell’infanzia visse nel castello di Hauterive perché era di famiglia nobile.
Quando aveva 14 anni la madre morì, e tre anni dopo se ne andò anche Octavie, la sorella che più amava, sua amica e confidente.
Questi fatti ebbero influenzarono molto il suo spirito nella scoperta della chiamata a consacrarsi a Dio. “Ho tutto ma la mia anima è inquieta”, ripeteva costantemente.
Dietro consiglio dell’Arcivescovo di Albi scoprì che doveva fondare una Congregazione per ascoltare e aiutare i giovani e i più poveri. Fu così che nel 1836 nacquero le Suore di Nostra Signora dell’Immacolata Concezione.
“La sua fu una scelta coraggiosa perché passò dall’agiatezza e dalla sicurezza del castello paterno alla precarietà di un alloggio povero e inospitale”, ha affermato monsignor Amato ai microfoni della “Radio Vaticana”.
“Sento che il Signore mi chiede grandi sacrifici; comprendo che non devo restare qui; la gioia della quale ho goduto senza misura mi tiene molto lontana da quel Dio che ha voluto nascere in una stalla. Ha lavorato ed è morto per noi”, diceva Émilie.
Nei primi anni fondò una casa di accoglienza per prostitute. Ogni volta che arrivava una donna a chiedere aiuto, suonava una campana ed Émilie fermava qualsiasi attività per andare ad aiutarla.
La vita per i più bisognosi
Émilie decise di inviare le sue suore in missione in Africa. Partirono per il Senegal nel 1847. Oggi sono presenti in quattro Paesi africani.
In un solo anno 18 suore morirono di malaria, “ma l’entusiasmo missionario non venne meno”, ha ricordato monsignor Amato.
“Nel 1853 erano già 24 le suore in Africa, distribuite in quattro case. Per la Madre non c’era una missione più alta di quella di far conoscere Gesù e di farlo amare da anime che mai avrebbero avuto questa felicità”.
Le suore di Nostra Signora dell’Immacolata Concezione sono più note come “suore azzurre” perché Émilie, mettendole sotto la protezione dell’Immacolata, scelse il colore azzurro per il loro abito.
Il dogma dell’Immacolata Concezione venne proclamato da Papa Pio IX 18 anni dopo la fondazione della Congregazione.
Nel 1852 la Congregazione venne approvata dalla Santa Sede, e un anno dopo la Madre rinunciò ad essere superiora perché voleva vivere l’obbedienza. Nel 1854 Émilie morì di malaria dopo esserne stata contagiata assistendo i malati. Aveva 44 anni.
“Ha lasciato un’eredità di una vita di profonda unione a Dio, perché diceva sempre: ‘Si deve vedere Dio in tutte le cose e tutte le cose in Dio e per questo si deve ascoltare la Parola di Dio, fare momenti di preghiera profondi per poter guardare il mondo con gli occhi di Gesù'”, ha spiegato Maria Luisa Ayres, la postulatrice della sua causa, in un’intervista all’emittente pontificia.
Le “suore azzurre” vivono un quarto voto: lavorare per la salvezza delle anime e dedicarsi alla santificazione del prossimo. L’opera di questo Istituto è diretta ai poveri che non hanno il necessario per una vita degna, ai bambini e agli adulti senza educazione religiosa, ai reclusi e a quanti sono lontani dal cristianesimo.
Il miracolo per la sua beatificazione è avvenuto nel 1995, quando Binta Diaby, una ragazza musulmana africana della Sierra Leone, ha cercato di suicidarsi con la soda caustica per essere stata ripudiata dalla sua famiglia dopo essere rimasta incinta senza essere sposata.
I suoi organi interni e i tessuti sono stati distrutti ed è entrata in coma. Le suore hanno iniziato una novena e la giovane è guarita in modo rapido e insperato.
“La vita della nostra Beata ha fatto brillare non la forza della spada, ma la carità del cuore di Dio”, ha detto monsignor Amato.
“Più che alla nobiltà umana, la Madre aveva in mente solo la lode di Dio e la sua gloria sulla terra”, ha concluso.