Cultura dei doveri e nuova laicità

ROMA, sabato, 4 luglio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato il 7 maggio scorso, al Teatro dell’Istituto De Vedruna di Verona, da Stefano Fontana, Direttore dell’Osservatorio internazionale “Cardinale Van Thuân” sulla Dottrina sociale della Chiesa.

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Una rinnovata cultura dei doveri è in grado di tenere assieme la società, in quanto solo aderendo a qualcosa di comune possiamo stare insieme, mentre una cultura dei diritti frantuma la società nei vari individualismi. Ma da dove può nascere una cultura dei doveri? Un tempo si diceva che essa nasce dalla comune natura umana, dalla legge naturale. Ed è vero. Coloro che hanno prodotto le dichiarazioni universali sui diritti umani, facevano appunto appello a questa comune umanità: prima di essere francese sono uomo, diceva Montesquieu. La convinzione di una comune umanità ha permesso quindi la definizione dei diritti dell’uomo incorniciati nei rispettivi doveri. Il problema a questo punto diventa il seguente: questo livello ha bisogno della fede religiosa? Oppure è un livello autonomo, ove la ragione è in grado di far parlare questa natura umana per farsi dire appunto quali sono i principali doveri e diritti dell’uomo? Prescindo, per il momento, dalla crisi della ragione, dalla diffusa sfiducia che oggi si ha verso le capacità della ragione di cogliere le strutture fondamentali della realtà, al punto che molti oggi non distinguono tra uomo e animale. Do per scontato che tutti noi crediamo in una ragione integra delle sue capacità. Ripetiamo, quindi, la domanda: la ragione, da sola, è capace di far parlare la comune umanità e quindi delineare un sistema di diritti-doveri solido a difesa della dignità della persona?

Notiamo subito che apparentemente sembra di sì e che la maggioranza delle persone oggi dice di sì. Per comprendere che gli uomini sono uguali in dignità, oppure che vanno trattati con equità, oppure che lo sfruttamento o il razzismo sono sbagliati non serve la religione, basta la ragione. Anzi, di solito, si fonda a questo livello la laicità. Si dice infatti che la laicità consiste proprio in questo, nel fare riferimento ad una comune umanità, prima e sotto le varie appartenenze religiose. Poi, in seguito, non prima, si aggiungono le varie opzioni di fede, che possono essere diverse, ma che non intaccano questa comune umanità che risulta all’uso della ragione. Faccio notare che in questa concezione di laicità, la dimensione religiosa non è indispensabile per tenere in piedi la convivenza sociale, ma eventualmente solo utile. La convivenza sociale sta in piedi da sola in quanto fondata su questa comune umanità e sullo strumento del dialogo razionale. Il cristianesimo, per esempio, sarebbe superfluo.

Apparentemente sembra che le cose stiano così. Ma a ben vedere, forse anche no. Per esempio, vorrei qui citare due pensatori molto diversi tra loro, che ritengono appunto che così non sia.

Il primo è Immanuel Kant, che ha scritto: «Si può tranquillamente credere che se il Vangelo non avesse insegnato prima le leggi etiche universali nella loro integra purezza, la ragione non le avrebbe conosciute nella loro compiutezza, sebbene adesso, dato che ormai esistono, ognuno può essere convinto della loro giustizia e validità mediante la sola ragione».

Il secondo è Romano Guardini: «La conoscenza della persona è legata alla fede cristiana. La persona può essere affermata e coltivata per qualche tempo anche quando tale fede si è spenta, ma poi gradualmente queste cose vanno perdute … Lo stesso accade per i valori in cui la consapevolezza della persona si sviluppa … Tutto ciò resta vivo fino a quando resta vitale la conoscenza della persona. Ma quando essa impallidisce, assieme al rapporto cristiano con Dio, scompaiono anche quei valori e quelle abitudini».

Insomma, sotto l’influsso del cristianesimo si liberano delle forze che sono per sé naturali ma che non si svilupperebbero al di fuori di quella economia. Ci sono molte verità che la ragione, di diritto, potrebbe conoscere con le sole sue forze, ma che di fatto non avrebbe mai conosciuto senza la rivelazione cristiana.

A leggere queste frasi di intellettuali così insigni, si è quindi presi dal dubbio: sarà vero che la comune umanità risulta anche alla sola ragione e che ci fornisce un quadro dei diritti e dei doveri sufficientemente in grado di fondare e tenere insieme la società in modo da permettere alle persone di conseguire il loro fine naturale? Oppure no?

Approfondendo, possiamo trovare altri elementi da considerare. Per esempio dobbiamo osservare che la ragione corre sempre il rischio di cecità etica procurata da passioni disordinate e quindi deve essere sempre purificata dalla fede. Dobbiamo anche riconoscere che dei diritti e dei doveri umani ogni generazione si deve riappropriare, perché il progresso morale non avviene per accumulo ma mediante convinzione, sicché questo lavoro continuo richiede una forza superiore alle debolezze umane, che solo un assoluto religioso può garantire. Va anche detto che se i diritti e i doveri umani non sono fondati su qualcosa di trascendente e quindi di non disponibile per l’uomo ben presto essi saranno manipolati. Anche fondarsi sulla natura umana, senza il riferimento al Creatore, li indebolisce. Va infine osservato che la nostra volontà va guidata dalla ragione, ma anche la ragione va guidata verso l’alto, altrimenti rischia sempre di perdere fiducia in se stessa. La fede apre le finestre alla ragione e la invita a non fermarsi mai.

Per questi motivi bisogna dire che la società non è in grado di fondarsi e di mantenersi senza la religione e che la laicità consiste nel tenere aperta la porta alla dimensione trascendente. In altre parole la laicità non è l’esclusione delle religioni dallo spazio pubblico, non consiste nel dire “no” a tutte le religioni perché in questo caso si tratterebbe di una posizione ugualmente assoluta delle religioni che si vogliono combattere. E’ il caso per esempio della esclusione dei simboli religiosi dagli spazi pubblici. Si tratta di una assolutezza negativa, di una nuova religione che nulla ha a che fare con la laicità. La laicità accoglie le religioni, senza sposarne alcune, le fa dialogare tra loro e con coloro che non credono. Ma come non sposa nessuna religione così non può nemmeno sposare il “no” alla religione, in questo caso infatti assumerebbe una posizione di parte.

Spesso le società accettano la religione e le assegnano un ruolo pubblico, ma come riserva di buoni sentimenti civici, come fattore che favorisce le relazioni, che educa ai corretti comportamenti, che produce solidarietà. In pratica viene accettata come “religione civile”. Questa accettazione della religione è insufficiente. Perché la religione può esprimere anche tutti quegli effetti etici e sociali positivi solo se le è permesso di vivere come religione, solo se non viene ridotta ad etica civile, o a soluzione per le questioni sociali di emergenza. Se il crocefisso nei luoghi pubblici è inteso genericamente come esempio di altruismo e bontà etica, non è già più un simbolo religioso.

A questo punto dobbiamo affrontare, però, la domanda fondamentale. Appurato che il piano naturale è insufficiente a garantire se stesso e che le virtù umane alla fine si indeboliscono se non sostenute dalla fede, appurato che la ragione stessa si attorciglia su stessa e perde slancio se non spinta dalla fede, ci si chiede se tutte le fedi svolgano ugualmente la funzione di suscitare risorse spirituali per la vita sociale. Tutte le religioni sono uguali nel promuovere il bene comune?

A mio parere a questa domanda bisogna rispondere di no. Prima di tutto perché non tutte le religioni garantiscono i doveri e i diritti umani, che la ragione riconosce essere radicati nella comune umanità. Di conseguenza non tutte le religioni garantiscono il bene comune. Entrando più nello specifico, quali sono i criteri fondamentali per un discernimento delle religioni in ordine alla loro capacità di promuovere il bene comune? Io ne propongo due. Il primo è l’incondizionatezza della persona umana. E’ migliore la religione che riesce a garantire meglio l’incondizionatezza della persona, il suo ess
ere fine e mai mezzo. Il secondo è la ragionevolezza della fede. E’ migliore la religione che non dà precetti contrari a quanto la ragione umana dice essere vero e buono. Perché quello che è contrario alla ragione “non può venire dal vero Dio”.

Così facendo, però, abbiamo attribuito alla ragione un potere di discernimento nei confronti della religione. Siamo quasi ritornati ad un primato della ragione sulla fede che precedentemente avevamo escluso. La ragione stabilisce autonomamente il bene e poi sulla sua base vaglia la validità della religione. Il problema di fondo è che la ragione non riesce a svolgere questo ruolo se prima non ha accettato l’apertura che la fede le garantisce. Una ragione, infatti, ridimensionata nelle sue capacità e ridotta a constatare quanto empiricamente accade, senza più l’idea di poter conoscere l’ordine delle cose, una verità e un bene, non è nemmeno capace di valutare la differenza delle religioni, che per essa saranno tutte uguali. Questo è il vero guaio.

[Fonte: http://www.vanthuanobservatory.org/]

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ZENIT Staff

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