Da Bologna una sentenza in favore della diagnosi genetica sugli embrioni

Il Tribunale del capoluogo emiliano tenta di cambiare la legge sulla procreazione assistita

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ROMA, mercoledì, 1° luglio 2009 (ZENIT.org).- Violando le indicazioni della legge 40 in merito alla procreazione assistita il magistrato Cinzia Gamberini di Bologna, in una sentenza depositata il 29 giugno, ha ordinato ad un centro di procreazione assistita, il Tecnobios di Bologna, diretto da Andrea Borini, di procedere con la diagnosi genetica sugli embrioni.

Secondo il magistrato, la diagnosi genetica di preimpianto su di un embrione è legittima ed è legittimo accedere alla fecondazione assistita anche per le coppie non sterili.

In contrasto con la legislazione vigente (legge 40) la Gamberini afferma nella sentenza che “il divieto di diagnosi preimpianto pare irragionevole e incongruente col sistema normativo se posto in parallelo con la diffusa pratica della diagnosi prenatale, altrettanto invasiva del feto, rischiosa per la gravidanza, ma perfettamente legittima”.

La procedura di diagnosi genetica preimpanto deve dunque essere ritenuta “ammissibile come il diritto di abbandonare l’embrione malato e di ottenere il solo trasferimento di quello sano”.

La sentenza dispone inoltre che si proceda “previa diagnosi preimpianto di un numero minimo di 6 embrioni”. Il medico deve eseguire i trattamenti “in considerazione dell’età e del rischio di gravidanze plurigemellari pericolose” e deve provvedere al congelamento “per un futuro impianto degli embrioni risultati idonei che non sia possibile trasferire immediatamente e comunque di quelli con patologia”.

Alla luce di questa sentenza il Centro di Ateneo di Bioetica dell’Università Cattolica, diretto dal prof. Adriano Pessina, ha diffuso un comunicato di critica severa.

Per il prof. Pessina “la recente ordinanza del Tribunale di Bologna riscrive di fatto la legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita. In un solo colpo viene vanificato il lungo dibattito che si è avuto nel Paese e nel Parlamento, rendendo carta straccia tutte le riflessioni dedicate alle problematiche etiche della generazione umana tese a garantire il riconoscimento e il valore della vita embrionale, anche se malata”.

L’ordinanza, infatti, prevede che alle tecniche di procreazione medicalmente assistita possano ricorrere anche coppie non sterili che hanno già avuto figli, ma che sono nati con gravi patologie, così da poter generare e selezionare gli embrioni e decidere quali destinare all’impianto e quali congelare.

“In questo modo – sottolinea il comunicato del Centro di Ateneo di Bioetica – queste tecniche cessano di essere pensate come ‘terapie’ in senso lato per la sterilità, e diventano mezzi per il ‘controllo di qualità dei figli generati in provetta e successivamente selezionati in base a criteri di salute”.

Il prof. Pessina sostiene che non è “niente di diverso rispetto all’eugenetica, se non il fatto che non è imposta dallo Stato”.

Di fatto della legge 40 resta soltanto il divieto alla fecondazione eterologa, visto che questa ordinanza prevede addirittura la generazione di un minimo di 6 embrioni (contro una legge che ne prevede un massimo di tre).

La nota del Centro di Ateneo di Bioetica della Cattolica definisce la sentenza “un salto in avanti, perché in questo modo si legittima un diritto di vita e di morte sul generato che nemmeno la legge sull’interruzione volontaria della gravidanza aveva mai direttamente avallato”.

Dopo questa sentenza, il prof. Pessina si chiede: “generare ‘con riserva’ un figlio per poi decidere se permettergli o no di continuare a vivere in base alle sue condizioni di salute è compatibile con i due postulati della democrazia occidentale che prevedono l’uguaglianza di tutti gli uomini e la loro pari dignità?”.

“Questa impostazione – sostiene il professore della Cattolica – va oltre il dibattito sull’aborto perché pone direttamente nella volontà dei futuri genitori il diritto alla selezione dei figli generati, consegnati di fatto alla tecnologia riproduttiva e alle sue logiche”.

Il comunicato del Centro di Ateneo di Bioetica spiega che “al di là del numero di persone che vorranno usare questa tecnica, è inquietante il messaggio che passa: la malattia torna ad essere considerata una condanna che esclude il malato dalla sfera dei diritti fondamentali”.

“Inoltre – conclude la nota – c’è un problema generale che va considerato, specialmente nel campo della bioetica si assiste ad una trasformazione delle leggi attraverso l’operato dei giudici: l’oggettività della legge è vanificata dalla pluralità delle sentenze. Il diritto che una generazione si confeziona diventa la morale di quella successiva: un caso può diventare la via per introdurre di nuovo l’idea che ci siano vite non degne di essere vissute”.

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ZENIT Staff

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