ROMA, martedì, 23 giugno 2009 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito un articolo apparso sul dodicesimo numero di Paulus (giugno 2009), dedicato al tema “Paolo il teologo”.



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di Armando Rigobello

(Università Tor Vergata di Roma)


Roma si trova al centro del cristianesimo ininterrottamente, dal tempo di Paolo fino ai nostri giorni. Il contesto dottrinale della Lettera ai Romani è stato al centro di dispute teologiche di decisiva importanza; d’altra parte, la comunità cristiana continua a caratterizzare il volto della Città eterna. Bisogna fare tuttavia alcune considerazioni sul differente impatto che la Lettera di Paolo non può non avere sui “romani di oggi”. Si possono fare in proposito almeno due considerazioni: in primo luogo, il complicato impatto di questo testo con la nostra attuale situazione storica; e, in seconda battuta, la connotazione odierna della nozione di “romano”. Il mutamento più autentico consiste nel fatto che il mondo romano cui Paolo rivolge oggi le sue parole non è più all’origine dell’annuncio cristiano, ma è un mondo fecondato da quasi due millenni di esperienza del cristianesimo. Quest’esperienza da un lato ha mutato il volto dell’umanità, ma, dall’altro, si trova di fronte a situazioni negative che sembrano ripetere, in un clima culturale postcristiano, le ombre che caratterizzavano lo scenario in declino cui Paolo predicava il vangelo. La nozione di “romani”, infine, richiama in maniera suggestiva una continuità di mai estinta convivenza civile, convivenza emblematica dell’intera umanità; convivenza che si estende ben oltre i confini territoriali della chiesa pellegrina in Roma, per conferire un significato universale ed ecumenico all’antica espressione giuridica di “cittadinanza romana”.

Una conversione reale: obbedire nella libertà

Una lettura dell’Epistola ad Romanos può essere tentata anche a partire dai suoi ultimi capitoli (12-16). È la parte indicata come “parenetica”, ossia di esortazione: in essa i romani del 58 d.C. vengono invitati ad applicare nella loro vita le conseguenze del messaggio che hanno ricevuto. La metànoia, cioè la “conversione”, implica la coscienza di formare tutti un solo corpo pur nella diversità dei doni, come spiega la luminosa dottrina del corpo mistico. Di qui il conseguente invito alla carità: «Amatevi teneramente e scambievolmente con amore fraterno, prevenendovi gli uni gli altri nel rendervi onore»; «Siate lieti per la speranza, pazienti nella tribolazione, assidui nell’orazione» (12,9-12). Tutto questo conduce alla dilectio sine simulatione (12,9), «l’amore senza falsità»: cioè al gioire con chi gode, al piangere con chi piange, al non rispondere al male con il male (12,17). Dopo questo potente appello, Paolo affronta un altro aspetto del rapporto con il mondo: l’obbedienza alla legittima autorità. L’autorità viene soltanto da Dio: Non est enim potestas nisi a Deo (13,1), «non c’è autorità se non da Dio». È quindi doveroso obbedire all’autorità civile, pagare le tasse, tenere fede alle obbligazioni. Da qui Paolo prende lo spunto per ricordare gli obblighi della legge mosaica, ma anche per collocare i precetti in una nuova luce: Plenitudo ergo legis est dilectio (13,10), «la pienezza della legge è nell’amore». Va notato come in questo passo Paolo, mentre appare come colui che rivendica la legittimità del potere, ne mina in radice ogni uso arbitrario. Nessun uomo può imporre un potere diretto e assoluto su un altro uomo, ma solo applicare un potere vicario e temporaneo: l’obbedienza, conseguentemente, non va esercitata per timore, ma grazie a una coscienza retta e matura. Tuttavia, nella consapevolezza dell’ora solenne della decisione radicale per Cristo, il pensiero di Paolo va anche ai deboli nella fede. Il suo invito a sostenere il debole, a non dar scandalo anche a costo di limitare una nostra fondata libertà, diventa occasione per formulare un’affermazione di capitale rilievo per la vita etica. Un’affermazione rivoluzionaria, quella di Paolo, che sta alla base della coscienza morale contemporanea: Unusquisque in suo senso abundet (14,5), «ognuno segua la propria coscienza». E inoltre: «So bene, perché me l’ha insegnato Gesù Signore, che nessuna cosa è impura per se stessa; ma so anche che una cosa è impura per chi la ritiene tale» (14,14). Le considerazioni di Paolo sono relative agli atti dell’osservanza giudaica, ma il principio che le ispira costituisce un criterio morale di validità perenne. A questo punto, se volessimo cogliere attraverso i contenuti indicati una dinamica interna a quest’ultima parte della Lettera, potremmo dire che in primo piano si staglia l’invito alla conversione poiché l’ora della salvezza si avvicina. E il ritmo della vita spirituale, nelle pagine esaminate, ci sembra si possa scandire su due piani: uno escatologico, già esperito in una vissuta pienezza; e uno esistenziale, ancora coinvolto nella complessità dell’esistenza storica e politica, un’esistenza da rispettare sebbene un valore ultimo la trascenda.

Secondo accenti differenti

Possiamo ora chiederci se la prospettiva delineata non trovi riscontro in qualche classica ipotesi ermeneutica della Lettera ai Romani. Ognuna pone in luce un aspetto effettivamente presente, ma ciò che bisogna evitare è l’unilateralità. In Paolo c’è posto per tutti: per l’accentuazione antropologica esistenziale di Bultmann come per l’intenzionalità escatologica di un Rigaux e di un Käsemann. Una posizione che dà a pensare è pure quella di Karl Barth: sia il Barth della Römerbrief (Epistola ai Romani) del 1919 e dell’analoga opera del 1922, come pure il Barth della Kurze Erklärung des Römerbriefes (Breve commento della Lettera ai Romani) del 1956, assai distante dalle prime due. Nel Breve commento, infatti, si sottolinea con forza l’efficacia redentiva del sacrificio di Cristo, mentre il rapporto del cristiano con il mondo della cultura è reso con toni meno drammatici. E lo stesso impegno politico si presenta come una doverosa responsabilità. Ma non è di tali questioni interne all’esegesi paolina che dobbiamo parlare. Il nostro problema verte su che cosa possa dire il testo paolino nella sua parte esortativa ai romani di oggi, tenendo presente la particolare accezione del termine “romani”. I romani cui si allude sono in fondo degli uomini che, in modo più o meno diretto, si riconoscono in una civiltà dalle radici greco-romane e cristiane che Hegel, con una qualche forzatura, chiamava “cristiano-germanica”. Noi la chiameremo semplicemente europea: ma solo perché nata in Europa, o ai suoi immediati confini mediorientali.

Una salvezza personale, ma per tutta l’umanità

La lettura della Lettera di Paolo e le sue esortazioni hanno un riscontro immediato nella nostra coscienza anche perché, nonostante i lunghi secoli di cristianesimo, il nostro mondo “civile” ha qualcosa di analogo al mondo ellenistico: splendido nella sua raffinatezza – così come il nostro, nelle sue tecnologie – ma segnato da inquietudini crepuscolari e da irrigidimenti settoriali. Intimamente evasivo e violento. La differenza del nostro mondo culturale e morale nei confronti con l’antico è che esso mostra un volto cristiano spesso deturpato. Nella coscienza del “romano” cristiano per fede o, comunque, cristiano per ineliminabile situazione storica, si affacciano i grandi interrogativi sull’uomo, sul suo destino e sulla sua salvezza: interrogativi che sono l’origine e il “sottosuolo” della Lettera paolina. Essi ricompaiono non più secondo un’originalità teoretica, ma coinvolti nella memoria di una situazione lontana e sbiadita, logorata da esperienze deformanti, sullo sfondo di un’eredità cristiana imprecisa. È in questo contesto che l’invito di Paolo alla conversione suscita risonanze diverse. I ndividuarle è un compito d’identificazione culturale e teologica che supera questo nostro intervento, ma va comunque sottolineata la singolarità e la complessità del problema, alla luce del quale può essere riletta la prima parte “teologica” dell’Epistola ai Romani. Nella Lettera di Paolo ai Romani, come ognuno sa, il problema della giustificazione è centrale, tanto che Lutero vi fondò la propria riflessione. Ma il tema ha un’eco anche nell’uomo di oggi. Nella sua solitudine, che spesso è isolamento, l’interrogativo sulla propria personale salvezza è un problema drammaticamente presente, anche se un’aridità linguistica e una preoccupazione di ordine formale non ne facilitano la comunicazione, e quindi non danno luogo a una cultura consapevolmente segnata da questa problematica. Ma se comprendiamo – in una globale interpretazione del “vangelo” di Paolo – il tema della giustificazione nell’ampio orizzonte della salvezza cosmica, della tematica teologica di coinvolgimento comunitario... allora l’ascolto del messaggio paolino si fa vivo e ampio. La parte esortativa della Lettera ai Romani può anche servire da base a una spiritualità per chi vive come viator nel nostro tempo e nel nostro contesto socioculturale. Paolo, nell’esortare a questi atteggiamenti spirituali, aveva dinanzi la perfezione evangelica, ma anche la convinzione di un imminente, o comunque vicino, ritorno del Signore. I “romani” di oggi, nel senso più ampio ed ecumenico del termine, si trovano di fronte a un possibile dramma finale di natura ecologica e cosmica. Hanno bisogno di una spiritualità serena e aperta ove le piccole cose lascino il posto alle grandi. Dove le grandi rivendicazioni cedano il passo alla comprensione fraterna. Dove la dimensione religiosa interpreti e insieme superi la storia e il suo dramma.

BOX: Un evergreen riscoperto nei secoli


di Primo Gironi


Non a torto Lutero, impegnato con tutte le forze alla riforma della Chiesa del suo tempo, esortava i credenti a ritenere la Lettera ai Romani come il vademecum capace di riportare la comunità cristiana alla purezza e alla credibilità delle origini. Egli non esitava, inoltre, a suggerire d’impararla tutta a memoria, fino a ritmare con le sue parole la vita quotidiana del cristiano. L’epoca di Lutero è anche l’epoca della riscoperta di questo profondo scritto teologico dell’Apostolo. Infatti, la Lettera ai Romani, dopo aver interessato i padri della Chiesa più autorevoli (Origene, Agostino, Giovanni Crisostomo), che ne avevano proposto il commento e l’interpretazione, come pure le argomentazioni sia a favore della teologia cristiana, sia per contrastare l’eresia di Pelagio, lentamente andò perdendo terreno nella vita della Chiesa. In epoca medioevale bisognerà attendere il commento di Tommaso D’Aquino che, tuttavia, rimane isolato a causa della scarsa conoscenza delle lingue classiche – il latino e il greco – proprio di quell’epoca. Sono l’Umanesimo e il Rinascimento a segnare il risveglio della classicità in ogni campo e a coinvolgere anche gli studi biblici. Per quanto riguarda il corpus paulinum, esso ritorna tra gli interessi degli studiosi, in particolare grazie a Erasmo di Rotterdam (1469-1536). Il motivo è facilmente intuibile, perché l’ideale di libertà che l’umanesimo propone trova nelle Lettere di Paolo un felice riscontro: libertà del cristiano sia dalla legge mosaica, sia dalle molte regole e dai molti legami costruiti dalla tradizione. Erasmo esprime tutto ciò in due opere fondamentali: le Adnotationes in epistolam Pauli ad Romanos (1516) e la Paraphrasis in epistolam Apostoli Pauli ad Romanos (1517). Nelle Adnotationes (“Note”) prevale il carattere filologico. Siamo di fronte alle prime applicazioni di quel metodo che verrà man mano configurandosi come “storico-critico” e che trova proprio in Erasmo un pioniere. La Paraphrasis (“Parafrasi”) è invece l’esposizione lineare della Lettera di Paolo, senza approfondimenti lessicali o puntualizzazioni filologiche. Erasmo fa parlare Paolo stesso, senza sovrapporsi con spiegazioni o commenti. Lo stesso criterio verrà da lui adottato anche nelle parafrasi degli altri libri del Nuovo Testamento che usciranno dalla sua colta e feconda penna. Solo l’Apocalisse non verrà trattata secondo questo metodo, probabilmente per il poco interesse allora riscosso da questo libro e dalle sue tematiche. Al lavoro esegetico di Erasmo, che aveva come presupposto «l’oscurità della Scrittura», si oppose Martin Lutero (1483-1546), per il quale invece era decisiva «la chiarezza della Scrittura». Questo spiega come mai il commento alla Lettera ai Romani del grande riformatore sia ricco di intuizioni, di approfondimenti e di applicazioni alla vita del cristiano e della Chiesa. La data di composizione è collocata negli anni 1515-16 e segna gli inizi della riflessione di Lutero sui grandi temi della giustificazione, della grazia, del peccato e della fede. Lo scritto di Paolo è definito «l’apice del Nuovo Testamento e l’evangelo in forma assolutamente pura» (cfr. la prima versione italiana commentata: M. Lutero, La lettera ai Romani, San Paolo, 1991). Il lungo itinerario che parte dalla riscoperta della Lettera ai Romani conosce anche una “tappa italiana”. In questi ultimi anni gli studi biblici in Italia si sono arricchiti di due importanti commenti a questo scritto fondamentale per la teologia di Paolo. Il primo è per opera di A. Pitta (Lettera ai Romani, Paoline 2001). Si tratta di un ampio commento improntato su un recente approccio agli scritti paolini, che ha il suo iniziatore nello studioso J.-N. Aletti e che sta producendo frutti preziosi. È il metodo dell’accostamento “retorico” a Paolo e ai suoi scritti, che apre un orizzonte finora scarsamente esplorato. La seconda opera è quella di R. Penna (La lettera ai Romani. Introduzione, versione, commento, EDB, 3 voll., 2004-2008). Il suo commento si estende in tre corposi volumi ed è la sintesi di quanto è stato prodotto su Paolo, in modo particolare per quanto concerne la Lettera ai Romani. Il cammino di Penna incontro a Paolo è iniziato con l’analisi della Lettera agli Efesini – di particolare importanza per il suo studio sul mystérion – e si è allargato allo studio dell’ambiente del cristianesimo primitivo, fino a raggiungere il traguardo nella riflessione sulla teologia paolina racchiusa nella Lettera ai Romani. In questi tre volumi il lettore trova con facilità sia il risultato dei diversi metodi seguiti dall’esegesi lungo la storia dell’interpretazione biblica, sia il risultato dei metodi più recenti, non meno fruttuosi nello studio della Bibbia e di Paolo.

Perché la Risurrezione è l'evento culminante della fede cristiana?

ROMA, lunedì, 22 giugno 2009 (ZENIT.org).- Mons. Raffaello Martinelli, sacerdote della diocesi di Bergamo, dopo aver conseguito il dottorato in Sacra Teologia con  specializzazione in pastorale catechistica presso l’Università Lateranense di Roma e la laurea in Pedagogia all’Università Cattolica di Milano, è dal 1980 a servizio della Congregazione per la Dottrina della Fede.

Come Primicerio della Basilica dei Santi Ambrogio e Carlo al Corso in Roma, ha realizzato alcune schede catechistiche su vari argomenti d‘attualità, a disposizione di quanti entrano nella suddetta Basilica. Ne sono state prese oltre 2.000.000 di copie, in circa due anni.

Sono state redatte, in forma dialogica, sulla base di documenti della Santa Sede e, in particolare,  secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica e il suo Compendio.

Tutte le 50 schede catechistiche sono state raccolte e pubblicate in un tascabile, 50 Argomenti d’attualità – catechesi dialogica, edito dalla Libreria Editrice Vaticana, come pure si ritrovano sul sito internet: www.sancarlo.pcn.net.