di Luca Marcolivio
ROMA, venerdì, 30 gennaio 2008 (ZENIT.org) – Anche nei complessi e impegnativi intrecci della modernità, l’unica via di uscita alla tragedia del male rimane il sacrificio in croce di Nostro Signore Gesù Cristo. L’impegnativo tema è stato affrontato nell’incontro “L’uomo di fronte al male: quale speranza?”, tenutosi ieri sera al Teatro Argentina, nell’ambito dei “Giovedì culturali nell’anno paolino”, promossi dalla Pastorale Universitaria del Vicariato di Roma.
Momento centrale dell’evento sono stati gli interventi di monsignor Bruno Forte, arcivescovo di Chieti e Vasto, e di Pierluigi Celli, direttore generale della Libera Università Internazionale degli Studi Sociali “Guido Carli”. Le relazioni di Forte e Celli sono state alternate a letture, sketch recitativi e intermezzi musicali del Coro Internuniversitario di Roma, anch’essi centrati sul dramma del male.
Monsignor Forte ha esordito citando L’idiota, una delle opere più importanti di Fëdor Dostoevskij: “Quale bellezza salverà il mondo?, domanda il giovane nichilista Ippolit, morente di tisi, al principe Myskin, metafora dell’uomo innocente che soffre per i mali dell’umanità”.
“In altre parole – ha proseguito Forte – come può la vita essere bella di fronte alle guerre, alla fame, e al male che ci attanagliano? Interrogarsi sul male, alla fine, è sempre interrogarsi su Dio e domandarsi perché Egli permette il male. A molti la coesistenza di Dio e del male può risultare insopportabile, conducendoli alla disperazione e alla bestemmia”.
“Per uscire da questo tunnel di disperazione, dobbiamo cambiare la nostra idea di Dio, riflettendo su Cristo crocifisso. Nella tragedia del male, Dio non è affatto spettatore distaccato; al contrario Egli, il Bene Assoluto, ha fatto “suo” il male, che non gli appartiene e che è un frutto perverso delle scelte degli uomini”, ha aggiunto il vescovo.
“La Verità non è affatto qualcosa di astratto che io posso possedere ma, al contrario, Qualcuno di concreto che mi possiede”, ha detto monsignor Forte a conclusione del suo primo intervento.
È seguita la prima relazione di Pierluigi Celli che, ha riflettuto sul problema del male da cristiano laico, sulla scorta di una quarantennale esperienza di manager e dirigente di grandi aziende pubbliche e private. “Al giorno d’oggi i giovani sotto vittime del male, nella misura in cui lo subiscono. La radice di tutti i mali credo sia la negazione della speranza”, ha esordito Celli.
Altro fattore di negatività per la gioventù odierna, ad avviso di Celli, è l’assenza di identità. “Identità, significa la possibilità per chiunque di raccontare una storia edificante in cui potersi rispecchiare. Riconoscere l’identità di qualcuno significa attribuire senso ed importanza a quella persona”.
“Si tendono, invece, a perseguire interessi personali, attorno a cui circolano riconoscimenti ‘rattrappiti’. A fronte del crollo di tutte le ideologie, c’è ancora un’etica dei valori che non ha nulla di ideologico e di fronte alla quale ognuno di noi è chiamato ad uno sforzo di responsabilità”, ha detto ancora il direttore generale della Luiss.
“La responsabilità ci chiama a riscoprire i nostri fini, oggi piuttosto indefiniti ed oscurati da una pluralità sterminata di mezzi. Se i mezzi prendessero il posto dei fini, tutta la nostra attenzione finirebbe concentrata su noi stessi e sul presente, escludendo del tutto gli altri e il futuro”, ha aggiunto Celli.
Nella seconda parte della conferenza, i relatori hanno suggerito le loro personali e costruttive risposte al problema del male. “Una prima sfida sta nel recuperare la capacità d’ascolto, oggi quasi completamente scomparsa nella comunicazione pubblica – ha osservato Pierluigi Celli -. “In secondo luogo, riscoprire la voglia di innovazione, anche a rischio di essere bollati come ‘eretici’ dalla società”.
La sfida più grande in assoluto, secondo Celli, risiede però nell’amore. “Mi viene in mente il Re Lear di Shakespeare, in cui il protagonista, nel distribuire l’eredità alle tre figlie, dichiara di voler privilegiare quelle che più lo hanno amato”.
“Le prime due figlie di Re Lear hanno sempre detestato il padre, tuttavia si rivelano brave a simulare il contrario, ingannando il sovrano e accaparrandosi i privilegi ereditari. La terza figlia è quella che lo amato come padre e non come re e, convinta di non dover dare dimostrazione del suo affetto, viene diseredata”, ha poi concluso Celli.
Monsignor Forte, da parte sua, tornando all’iniziale metafora dostoevskiana, ha paragonato il silenzio del principe Myskin di fronte al suo interlocutore, alla mancata risposta di Gesù alla domanda di Pilato ‘Cos’è la Verità’, che sottintende la Verità del Dio fatto uomo e lasciatosi uccidere barbaramente per amore agli uomini.
Forte ha poi chiamato in causa il pensiero di Immanuel Kant, che, riflettendo da laico sul dilemma del male, “comprese l’esistenza di un principio avversario del bene che non esitò a chiamare spirito maligno”.
“Specularmente c’è molta ‘laicità’ anche in San Paolo quando dice: “non compio il bene che voglio, ma faccio il male che non voglio.” (Rm 7).
Affermazioni del genere, non possono che favorire il dialogo tra credenti e non credenti, ad avviso di monsignor Forte che, in conclusione, ha ricordato un detto popolare napoletano: “Si può vivere senza sapere perché ma non si può vivere senza sapere per Chi”.