di Irene Lagan
BOSTON, mercoledì, 28 gennaio 2009 (ZENIT.org).- Mentre il nuovo Presidente Barack Obama ha già dato prova di voler imprimere una nuova direzione agli Stati Uniti, molti degli ambasciatori scelti dall’amministrazione precedente stanno tornando a casa.
Mary Ann Glendon, che ha rappresentato gli Stati Uniti presso la Santa Sede, è già tornata a Boston, dove è titolare della cattedra Learned Hand di Diritto presso l’Università di Harvard. In seguito, riprenderà anche il suo lavoro come Presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali.
In questa intervista a ZENIT, la Glendon offre alcune riflessioni sul suo lavoro a Roma, durato circa un anno.
Dopo aver rappresentato il Vaticano per tanti anni, com’è stato rappresentare gli Stati Uniti presso la Santa Sede?
Glendon: Come rappresentante della Santa Sede presso le Nazioni Unite ero inserita in un tipo di lavoro a cui noi avvocati siamo abituati – il diritto focalizzato su questioni specifiche, come le mete dello sviluppo e i diritti umani. Ciò che ha reso la posizione di ambasciatrice presso la Santa Sede particolarmente affascinante per me è stata la sua varietà. Questa funzione ha portato praticamente ogni giorno nuove esperienze e novità per le preoccupazioni del Vaticano, come degli Stati Uniti, in ambito mondiale.
La Santa Sede ha relazioni diplomatiche con 177 Nazioni; la sua voce morale raggiunge quasi ogni angolo della terra, e la sua rete di parrocchie, diocesi e collaboratori per gli aiuti umanitari la rende uno straordinario “punto di ascolto”. Gran parte del mio lavoro ha coinvolto anche la “diplomazia pubblica”: parlare e scrivere su temi di interesse comune per gli Stati Uniti e la Santa Sede.
Chiaramente ero responsabile dell’amministrazione quotidiana di un’ambasciata piccola ma molto movimentata. Per una persona come me, che insegna in campo internazionale, è stato un grande privilegio quello di poter acquisire una conoscenza diretta del Dipartimento di Stato degli Stati Uniti, dei Corpi Diplomatici della Santa Sede e dell’arte della diplomazia come viene praticata in quest’epoca di sfide.
Quali sono state come ambasciatrice le sue maggiori conquiste e sfide?
Glendon: Mi ritengo molto fortunata per aver servito la Nazione in un momento in cui le relazioni tra gli Stati Uniti e la Santa Sede erano particolarmente strette, come hanno dimostrato la storica visita di Benedetto XVI negli Stati Uniti nell’aprile 2008 e la straordinaria ospitalità nei confronti del Presidente George Bush nella sua visita in Vaticano a giugno.
Non solo il Papa e il Presidente hanno condiviso una visione comune globale delle questioni culturali e sociali, ma c’è stata una forte corrispondenza tra le visioni del Governo americano e della Santa Sede sull’importanza di rafforzare il consenso morale globale contro il terrore (soprattutto contro l’uso della religione come giustificazione della violenza), di promuovere i diritti umani (in particolar modo, la libertà religiosa), di favorire il dialogo interreligioso e di combattere la povertà, la fame e le malattie attraverso partnership tra Governo e istituzioni basate sulla fede.
Nel nostro mondo sempre più indipendente ma pieno di conflitti, la sfida sta nel trovare forme nuove per sollevare e rafforzare chi condivide i medesimi valori. Un’eccellente opportunità in questo senso è stata offerta dalla celebrazione dei 25 anni delle relazioni diplomatiche tra gli Stati Uniti e la Santa Sede e del 60º anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.
Poiché la Dichiarazione esprime ideali ai quali sia gli Stati Uniti che la Santa Sede si dedicano, la ricorrenza di questi anniversari ha offerto molte occasioni per esplorare ed ampliare un terreno comune. In questo modo, ho fatto sì che la nostra Ambasciata patrocinasse una serie di conferenze su vari aspetti dei diritti umani. Sono lieta di dire che hanno avuto successo, e credo che abbiano aiutato profondamente nel rapporto bilaterale in vista del raggiungimento di nuovi pubblici con le più alte e migliori tradizioni americane.
Lei ha spiegato che il tema dei diritti umani è una priorità da sottolineare. Ora che sta lasciando il suo attuale incarico, qual è la sua prospettiva per quanto riguarda i diritti umani in ambito globale?
Glendon: Analizzando il mondo contemporaneo, nessuno può negare che la lotta per la libertà e la dignità dell’uomo abbia ancora una lunga strada davanti a sé, ma il movimento per i diritti umani iniziato nella seconda metà del XX secolo ha fatto conquiste enormi: ha svolto un ruolo importante nella caduta dei regimi totalitari dell’Est europeo e dell’apartheid in Sudafrica; ha aiutato a sottolineare la pubblicità su abusi che altrimenti sarebbero stati ignorati; ha screditato l’idea che il trattamento dei cittadini di una Nazione spetti esclusivamente a quella Nazione. Come Benedetto XVI ha affermato nel suo discorso alle Nazioni Unite l’anno scorso, “i diritti umani sono sempre più presentati come linguaggio comune e sostrato etico delle relazioni internazionali”.
Quanto più l’idea dei diritti umani ha mostrato il suo potere, tuttavia, tanto più intensa è diventata la lotta per catturare questo potere per vari altri scopi, che non rispettano la dignità umana. Gli ideali dei diritti umani sono sotto il costante attacco del relativismo culturale e filosofico, che nega che qualsiasi valore sia universale. Allo stesso tempo, sono stati minati indirettamente, da un’escalation di richieste di nuovi diritti, dalla diffusione di approcci selettivi al nucleo comune dei diritti fondamentali, da interpretazioni molto individualiste dei diritti e dal fatto di aver dimenticato il rapporto tra diritti e responsabilità.
Tra i suoi incontri con Benedetto XVI, qual è stato il più memorabile?
Glendon: Non dimenticherò mai la visita di Benedetto XVI negli Stati Uniti, così piena di immagini e momenti suggestivi, dove ogni discorso era pieno di speranza e incoraggiamento e pienamente adeguato alle persone cui si rivolgeva. Dopo aver trascorso un anno a Roma, ricorderò anche i momenti silenziosi che sono stati particolarmente rivelatori del carattere pastorale di quest’uomo saggio e gentile, il suo dono di parlare di Dio con bambini e giovani e le sue parole paterne ai sacerdoti appena ordinati.
[Traduzione dall’inglese di Roberta Sciamplicotti]