“La riconciliazione è il fine ultimo della pena”

Retribuzione e riparazione insufficienti per una vera giustizia

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di Antonio Gaspari

BUDAPEST, mercoledì, 28 gennaio 2009 (ZENIT.org).- Con una articolata riflessione, inviata al congresso della Commissione internazionale per la pastorale cattolica nelle carceri (ICCPPC), in corso in questi giorni a Budapest, monsignor Giampaolo Crepaldi ha spiegato il rapporto che intercorre tra il mondo del carcere, la Chiesa cattolica e il rispetto dei diritti umani.

Il Segretario del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace ha ricordato che “la cristianità ha visto nascere lungo i secoli molte iniziative di carità verso i carcerati” e il Magistero ha spesso “illuminato con il suo insegnamento alcuni drammatici problemi del mondo delle prigioni, dagli imprigionamenti arbitrari, ai campi di concentramento, ai campi di lavoro forzato, alla disumana pratica della tortura, ai diritti delle persone arrestate”.

La Chiesa cattolica ha praticato la carità cristiana verso il mondo del carcere così come ha illuminato con insegnamenti di ordine morale la via della giustizia.

In merito al problema della pena, il Vescovo di Bisarcio ha rilevato che il Magistero riconosce la dignità di persona anche se colpevole.

“Lo stato detentivo, infatti, lo priva sul piano esistenziale di alcuni suoi diritti esteriori, ma non gli toglie la dignità di persona che gli appartiene per natura”, ha spiegato.

Secondo il Magistero, “l’uomo, ogni uomo, è amato da Dio che lo ha creato e che lo ha redento dal male”. Anche se, “sul piano dell’esistenza, qualcosa si è inceppato ed è stato incontrato qualche ostacolo, che pure va riconosciuto e il relativo torto riparato secondo le esigenze della giustizia, il carcerato non è ‘perduto’, anzi deve essere ‘ritrovato”. 

Il Segretario del Dicastero pontificio, ha sottolineato come nell’enciclica Deus caritas est, il Pontefice Benedetto XVI afferma che la carità perfeziona la giustizia, perchè “senza la carità la stessa giustizia non può essere applicata in modo veramente giusto e chi conosce il mondo del carcere sa che nemmeno la pena può essere comminata nel mondo giusto, ossia umano”.

Sempre sul modo di misurare la pena, monsignor Crepaldi ha riconosciuto che “il primo scopo della pena è di riparare al disordine prodotto secondo criteri di proporzionalità”, ma il Magistero più recente ha allargato lo sguardo, soffermandosi sulle “importanti questioni del recupero del reo, della non centralità della detenzione come forma tradizionale di pena, del compito rieducativo della pena e di una giustizia che sia anche riconciliazione”.

“In questo modo – ha aggiunto – lo schema della retribuzione, senza venire negato, ha subito un allargamento di orizzonte in senso maggiormente umanistico”.

A questo proposito il Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, precisa che lo Stato, ha il compito di “reprimere i comportamenti lesivi dei diritti dell’uomo e delle regole fondamentali di una civile convivenza”, ma ha anche quello di “rimediare, tramite il sistema delle pene, al disordine causato dall’azione delittuosa”.

Con queste espressioni, che richiamano il paragrafo 2266 del Catechismo della Chiesa Cattolica, la Chiesa intende far riflettere sulla ricomposizione delle relazioni umane e sociali, sul ristabilimento della concordia e della pace, sul ritorno ad una situazione di condivisione dentro delle regole piuttosto che di contrapposizione e lotta al di fuori delle regole.

Questo richiede che il detenuto venga considerato non come un oggetto passivo cui si impone una sofferenza fine a se stessa, ma un interlocutore di un dialogo, all’interno di un rapporto che tenda alla riparazione.

Per monsignor Crepaldi, “nella retribuzione non c’è nessun recupero dell’originale rapporto sociale vulnerato. C’è come una reciprocità nell’infliggersi un danno. Alla sofferenza subita dalla società corrisponde una sofferenza da far subire al colpevole”.

Nella riparazione, invece, “emerge un rapporto qualitativo e maggiormente ‘personale’. Al  reo viene chiesto qualcosa di più che non la sopportazione passiva di una pena, viene chiesta una collaborazione per riparare il danno inflitto nel senso di ricostruire la situazione iniziale di equilibrio che il comportamento illegale ha infranto”.

La riparazione però non è l’ultimo livello cui si può giungere nel rapporto con il detenuto; essa infatti può avere uno sviluppo ulteriore nella riconciliazione: chi ha trasgredito la legge e provocato un danno non solo si mobilita personalmente per ripararlo, ma rientra in società pienamente riconciliato e capace di esprime relazioni sociali di solidarietà e reciprocità.

“Si potrebbe dire – ha sostenuto il presule – che mentre la retribuzione e la riparazione guardano prevalentemente indietro, la riconciliazione guarda in avanti. Si tende non a dimenticare il fatto delittuoso ma a sublimarlo mediante una esperienza di radicale riconciliazione. Si noti anche che  nella riconciliazione è impegnato non solo il reo ma l’intera società,  mentre retribuzione e riparazione vertevano soprattutto sul comportamento del reo”.

La riconciliazione è allora il  fine veramente ultimo della pena. Per questo motivo Giovanni Paolo nel Messaggio mondiale della Pace del 2002 ha scritto che “la capacità di perdono sta alla base di ogni progetto di una società futura giusta e solidale”.

A questo proposito, concludendo il Seminario sui diritti umani dei detenuti organizzato ai primi di marzo del 2005 dal Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace il Cardinale Renato Raffaele Martino ha affermato che “i carcerati sono ‘nel’ carcere, ma la speranza cristiana invita tutti a guardare oltre il carcere”.

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ZENIT Staff

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