Il fratello del nostro Dio (parte II)

ROMA, martedì, 27 gennaio 2009 (ZENIT.org).- Per la rubrica sull’Amore misericordioso pubblichiamo la seconda parte di una riflessione su “Il fratello del nostro Dio”, il dramma scritto nel 1949 da Karol Wojtyla, svolta durante un convegno tenutosi nel 1981 presso il Santuario dell’Amore misericordioso di Collevalenza (PG).

La prima parte è stata pubblicata il 20 gennaio scorso.

 

 

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FRATEL ALBERTO Non si può giudicare limitandosi ad osservare i

fenomeni in superficie. Tu ti ricordi come il vecchio

Isacco si sia sbagliato e abbia scelto male fra

Giacobbe ed Esaù. Non si può giudicare secondo i

travestimenti che l’uomo indossa durante la sua vita.

Qui si tratta solo di comprendere se lei sia stato

scelto.

MUSICISTA Come accorgersene?

FRATEL ALBERTO Innanzi tutto bisogna avere una nuova visione del

mondo. Lei non ce l’ha. Perché questa è la

differenza, mio caro signore: questa è la differenza.

Una cosa è giudicare il mondo con le misure che

valutano i vari toni musicali – e questo è molto

interessante, molto bello, splendido – un’altra cosa

è vedere il mondo nella sua dimensione di miseria e

di viltà e sapere, sapere con precisione il punto in

cui Dio si incontra con tutto questo, sapere quale

miseria lo avvicina agli uomini e quale lo allontana.

MUSICISTA Mi sembra che potrei dare un giudizio del genere.

FRATEL ALBERTO Con quali criteri? Con quelli dell’errata visione

musicale? Lei conosce almeno qual’è la vera miseria

dell’uomo davanti a Dio? Un tale miseria non si deve

cercare ai confini dell’uomo o nei suoi dintorni.

Essa si trova dentro di lui, precisamente in quel

luogo nel quale egli dovrebbe cominciare la sua vera

elevazione.

MUSICISTA Sì, intuisco di cosa il Frate stia parlando: il

significato delle contraddizioni.

FRATEL ALBERTO Noi di solito giudichiamo male: la misericordia e

l’ingiustizia hanno un significato diverso da quello

che noi diamo loro. La misericordia e l’ingiustizia

non cominciano dove di solito noi supponiamo…. Ma

per vedere questo bisogna avere quella nuova visione.

Se manca questa, si commetteranno sempre delle

sciocchezze.

Poco prima della sua morte Fratel Alberto parla con i suoi confratelli per confortarli nella loro vocazione che si fonda sulla realizzazione della misericordia cristiana.

FRATEL ALBERTO Fratelli miei. Vi ho tolto tutto. Vi ho chiesto tutto.

Non vi ho illuso con nessuna promessa. Non so, se

avevo il diritto di fare una cosa del genere. E

inoltre ho messo un giogo sulle vostre spalle. Ma ho

cercato di poggiarlo nel profondo, dentro ognuno di

voi, lì dove l’odio del peso maledetto dovrebbe

trasformarsi in amore. Vi siete certamente accorti che

sto parlando della croce, della nostra comune croce

che è la trasformazione della caduta dell’uomo nel

bene e della sua schiavitù in libertà….

Sapevo però di non essere da solo. In ognuno di voi

“sapevo” della miseria e di lui. Per tanto tempo la

miseria umana è stata così lontana da Dio; con

tutte le mie forze cercavo di avvicinare l’uno

all’altro dentro di voi. Prima c’eravate voi,

miserabili, e sulla vostra miseria si estendeva il

vuoto; ma dal momento in cui il misero si avvicina a

Dio, la sua caduta si trasforma in croce; la sua

schiavitù in libertà.

Sono sicuro di aver scelto la più grande libertà! Il dramma è stato scritto in Polonia dopo la guerra, in quegli anni in cui era in atto una rivoluzione “forzata”, cioè si cercava di costruire il nuovo ordine sociale senza l’amore e senza la misericordia cristiana. Si voleva costruire anche un uomo nuovo, a partire dalla totale negazione della verità dell’uomo, cioè di quella verità che costituisce la sua tradizione. L’autore del dramma si è venuto formando nella tradizione della libertà che è indissolubilmente legata alla verità dell’uomo, vale a dire nella tradizione dell’amore a questa libertà e nella tradizione della misericordia verso l’uomo. Per una tradizione così, una rivoluzione, che non implica la metanoia culturale e morale dell’uomo, resta sempre un elemento estraneo. L’esperienza di quella tradizione ha invece un valore universale. Non è casuale allora che la Provvidenza divina l’abbia ritirata fuori dal tesoro della tradizione cristiana. E noi possiamo ritrovarla nell’Enciclica “Dives in Misericordia”, di cui riportiamo i seguenti passaggi che costituiscono uno sviluppo dei temi del dramma.

“Il significato vero e proprio della misericordia non

consiste soltanto nello sguardo, fosse pure il più

penetrante e compassionevole, rivolto verso il male

morale, fisico o materiale: la misericordia si

manifesta nel suo aspetto vero e proprio, quando

rivaluta, promuove e trae il bene da tutte le forme di

male, esistenti nel mondo e nell’uomo. Così intesa,

essa costituisce il contenuto fondamentale del

messaggio messianico di Cristo e la forza costitutiva

della sua missione. Allo stesso modo intendevano e

praticavano la misericordia i suoi discepoli e

seguaci. Essa non cessò mai di rivelarsi, nei loro

cuori e nelle loro azioni, come una verifica

particolarmente creatrice dell’amore che non si lascia

“vincere dal male”, ma vince “con il bene il male”.

Occorre che il volto genuino della misericordia sia

sempre nuovamente svelato. Nonostante molteplici

pregiudizi, essa appare particolarmente necessaria ai

nostri tempi” (DM, IV, 6).

“Che cosa, dunque, ci dice la croce di Cristo, che è,

in un certo senso, l’ultima parola del suo messaggio e

della sua missione messianica? – Eppure, questa non è

ancora l’ultima parola di Dio dell’alleanza: essa

sarà pronunciata in quell’alba, quando prima le donne

e poi gli Apostoli, venuti al sepolcro di Cristo

crocifisso, vedranno la tomba vuota e sentiranno per

la prima volta l’annuncio: “È risorto”. Essi lo

ripeteranno agli altri e saranno testimoni del Cristo

risorto. Tuttavia, anche in questa glorificazione del

Figlio di Dio continua ad esser presente la croce, la

quale – attraverso tutta la testimonianza messianica

dell’Uomo-Figlio, che su di essa ha subito la morte –

parla e non cessa mai di parlare di Dio-Padre, che è

assolutamente fedele al suo eterno amore verso l’uomo,

poiché “ha tanto amato il mondo – quindi l’uomo nel

mondo – da dare il suo Figlio unigenito, perché

chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita

eterna”. Credere nel Figlio crocifisso significa

“vedere il Padre”, significa credere che l’amore è

presente nel mondo e che questo amore è più potente

di ogni genere di male, in cui l’uomo, l’umanità, il

mondo sono coinvolti. Credere in tale amore significa

credere nella misericordia. Questa, infatti, è la

dimensione indispensabile dell’amore, è come il suo

secondo nome, al tempo stesso, è il modo specifico

della sua rivelazione ed attuazione nei confronti

della realtà del male che è nel mondo, che tocca e

assedia l’uomo, che si insinua anche nel suo cuore e

può farlo “perire nella Geenna”. (DM, V, 7).

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ZENIT Staff

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