ROMA, mercoledì, 21 gennaio 2009 (ZENIT.org).- Il 25 gennaio prossimo, giornata di chiusura della Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani, il Concilio della Chiesa Ortodossa si riunirà per eleggere il successore del Patriarca Alessio II.
Per comprendere meglio il processo di elezione e soprattutto il ruolo svolto dal Patriarca, ZENIT ha intervistato Giovanni Codevilla, che ha da poco pubblicato un libro intitolato “Lo Zar e il Patriarca. I rapporti tra trono e altare in Russia dalle origini ai giorni nostri” (editrice La Casa di Matriona), nel quale ricostruisce i rapporti tra Stato e Chiesa nella storia della Russia fino ad arrivare ai giorni nostri.
Codevilla insegna Diritto ecclesiastico comparato e Diritto dei Paesi dell’Europa Orientale alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Trieste. Nel 2005 ha scritto “Laicità dello Stato e separatismo nella Russia di Putin”.
Può spiegarci quali sono le modalità per l’elezione del Patriarca?
Giovanni Codevilla: Nella Chiesa Ortodossa Russa, che come è noto è stata privata della direzione patriarcale dal tempo di Pietro il Grande sino all’inizio del periodo comunista, non esiste una procedura definita per l’elezione del Patriarca. Nel Concilio locale del 1917-1918 il nome del nuovo Patriarca Tichon venne estratto a sorte da una terna di candidati eletti con voto segreto dai Vescovi, dai rappresentanti del clero, dei monaci e dei laici; in epoca sovietica i Patriarchi vennero de facto scelti dal regime, così nel 1943 il metropolita Sergij venne eletto Patriarca da un semplice Concilio episcopale con voto palese e nel 1945 Aleksij I, unico candidato, venne eletto, sempre con voto palese, in un Concilio locale con i voti dei soli Vescovi, i quali peraltro, per salvare il principio di conciliarità, dichiararono di esprimere il loro voto anche a nome dei rappresentanti del clero e dei laici. Nel 1971 il Patriarca Pimen, unico candidato gradito al partito comunista, venne eletto in un Concilio locale a cui parteciparono anche i rappresentanti del clero e del laicato, ma in cui votarono solamente i Vescovi, seppure anche a nome degli altri delegati privati del diritto di voto. Il Concilio locale del 1990 deliberò il ritorno allo scrutinio segreto ed istituì una procedura elettorale assai macchinosa, differente dal quella del 1917-1918, che portò all’elezione del Patriarca Aleksji II, peraltro con il voto anche dei laici (donne comprese), dei rappresentanti dei monasteri e degli istituti teologici. Il prossimo Concilio locale convocato per i giorni 27-29 gennaio, che sarà preceduto da un Concilio episcopale nei giorni 25-26 gennaio, definirà alcuni particolari delle modalità dell’elezione del patriarcale.
Può illustrare sinteticamente quali sono i poteri e le funzioni del Patriarca della Chiesa Ortodossa Russa?
Giovanni Codevilla: Il Patriarca ha soprattutto un potere di rappresentanza della Chiesa Ortodossa Russa, mentre il vero potere decisionale spetta per lo più ai Concili, sia locali (quelli più importanti) e sia, soprattutto, episcopali e al Santo Snodo, organi di cui, in ogni caso il Patriarca è il presidente. Lo Statuto della Chiesa Ortodossa Russa del 2000 afferma che il Patriarca dirige la Chiesa unitamente al Santo Sinodo, con il quale convoca i Concili. Al Patriarca sono attribuiti numerosi poteri, che tuttavia sono più formali che sostanziali, ad esempio, egli è responsabile dell’attuazione delle delibere conciliari e sinodali, rappresenta la Chiesa nelle relazioni con i supremi organi dello Stato ed emana i decreti di nomina dei Vescovi diocesani, che, tuttavia, sono scelti dal Santo Sinodo, il quale esercita, invece, un potere effettivo. Questa è una conseguenza del prevalere del principio di conciliarità (sobornost’) che caratterizza la gestione della Chiesa Russa, che si distingue da quella gerarchica che è tipica del cattolicesimo.
Come appare chiaramente dal suo libro nelle Chiese Ortodosse il rapporto tra il potere civile e quello religioso si ispira al principio della “sinfonia”. Esiste davvero una armonia tra Stato e Chiesa?
Giovanni Codevilla: L’idea bizantina della sinfonia tra trono e altare, mai rinnegata a livello teorico e dottrinale, ha trovato in Russia una applicazione assai limitata nel tempo, e precisamente nel periodo che va dall’istituzione del Patriarcato di Mosca (1589) al grande scisma dei Vecchi Credenti (1654). Il resto della storia russa è invece caratterizzato da una totale subordinazione della Chiesa allo Stato, che si aggrava soprattutto con l’ascesa al trono di Pietro il Grande, il quale agli inizi del XVIII secolo abolisce il Patriarcato e istituisce al suo posto il Santo Sinodo, retto da un laico nominato dall’imperatore. La Chiesa diventa così una sorta di ministero statale, totalmente privata della sua autonomia. La decisione di Pietro, che muove da una concezione del mondo completamente estranea ai valori religiosi, crea nella società russa una frattura che persiste ancor oggi. Proprio la concezione petrina costituisce, in ultima istanza, a mio avviso, una delle premesse per lo sviluppo futuro della concezione bolscevica: non a caso la figura di Pietro trova una piena esaltazione nel periodo comunista.
Qual è il suo giudizio sul comportamento della gerarchia ortodossa russa durante il potere sovietico?
Giovanni Codevilla: Questo è un tema estremamente delicato. Direi prima di tutto che non si può parlare genericamente di un comportamento della Chiesa ortodossa: bisogna, infatti, distinguere tra l’atteggiamento di una parte seppur rilevante della gerarchia, nominata, in realtà, dal regime comunista, e quello di milioni di sacerdoti e di fedeli che hanno scelto di rifiutare ogni calcolo politico e di testimoniare la propria fedeltà alla Chiesa, pagando con le torture e il martirio. Questo vale anche per buona parte della gerarchia nominata prima del 1917 e negli anni immediatamente successivi, che di conseguenza è stata eliminata fisicamente (penso in particolare al 1937-38).
Credo che la Chiesa sia sopravvissuta per l’esempio dato da questa legione di uomini e donne, laici e consacrati e anche appartenenti alla gerarchia ecclesiastica. Le scelte determinate dal calcolo politico, in realtà, e mi riferisco in particolare al metropolita (poi Patriarca) Sergij, stavano portando non già ad un modus vivendi con lo Stato bensì ad un modus moriendi dell’Ortodossia. Per quanto sia paradossale, si deve riconoscere che l’aggressione tedesca, e la conseguente tregua antireligiosa (la cosiddetta Nep religiosa staliniana), ha permesso la sopravvivenza delle Chiese.