Eluana e Terry: due storie molto simili

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di Umberto Richiello*

ROMA, lunedì, 19 gennaio 2009 (ZENIT.org).- I criteri adottati dal Giudice di legittimità, nella sentenza n. 21748 del 16 ottobre 2007, nel decidere la questione relativa alla autorizzazione alla interruzione del mantenimento in vita di Eluana Englaro ricordano molto da vicino i criteri adottati dai giudici dello Stato della Florida nella vicenda che ha visto come protagonista Maria Teresa Schindler, coniugata Schiavo (più nota come Terry Schiavo).

I giudici statunitensi, nelle decisioni relative al caso di Terry Schiavo, avevano fatto ricorso ad un precedente giurisprudenziale (Guardianship of Estelle Browning / Stato della Florida) nel quale la persona in stato vegetativo permanente, prima di cadere in tale stato, aveva espressamente manifestato la propria volontà in un testamento biologico.

Il caso di Terry si poneva come un caso nuovo, poiché la persona (asseritamente in stato vegetativo permanente) non aveva mai formulato né un testamento, né tanto meno un testamento biologico. I giudici statunitensi avevano deciso di autorizzare l’interruzione del trattamento di alimentazione ed idratazione in base alla sussistenza di due requisiti:

1) l’accertamento dello stato vegetativo permanente;

2) l’avere il paziente, prima di cadere nello stato vegetativo permanente, manifestato in modo implicito o esplicito la volontà di non esser sottoposto a trattamenti medico-chirurgici che avessero il solo scopo di prolungare la vita umana.

Nel caso di Terry era stata riconosciuta la sussistenza dello stato vegetativo permanente, sebbene la donna rispondesse a sollecitazioni, mediante il movimento degli arti superiori e degli occhi; era stata riconosciuta altresì la sussistenza del requisito della volontà, sulla base di prove testimoniali, e ciò sebbene la donna non avesse mai manifestato una simile volontà.

Riconosciuta la sussistenza dei due requisiti, i giudici statunitensi avevano autorizzato la interruzione del trattamento di alimentazione ed idratazione.

Gli stessi criteri sono stati adottati dai giudici italiani, nella citata sentenza della Corte di cassazione, sebbene non esista nel nostro ordinamento una norma che espressamente consenta l’autorizzazione alla interruzione di un trattamento di alimentazione e idratazione; men che mai esiste una norma che consenta ciò in seguito alla istanza di un soggetto diverso da quello che è sottoposto al trattamento.

La Suprema Corte muove i propri passi dalla interpretazione del diritto alla salute, previsto dall’art.32 della Costituzione italiana, da intendersi come diritto alla scelta di cura: il Giudice di legittimità ritiene che l’alimentazione e la idratazione siano da considerare come trattamento medico-chirurgico di cura.

Tale assunto non appare condivisibile, in quanto il trattamento di alimentazione e idratazione ha caratteristiche, fini ed effetti diversi rispetto alla attività medico-chirurgica di cura: l’alimentazione e l’idratazione, spesso definiti erroneamente artificiali, costituiscono un fatto fisiologico alla vita umana, e in ciò non hanno carattere di provvisorietà o di incertezza scientifica, ovvero effetti potenzialmente dannosi alla salute.

E’ dunque fuori luogo la qualificazione del trattamento di alimentazione ed idratazione come attività medico-chirurgica di cura. E’ conseguentemente erroneo ritenere che il nostro ordinamento riconosca un diritto a rifiutare la alimentazione e la idratazione.

Il secondo aspetto di particolare interesse attiene alla legittimazione di un terzo (rappresentante del soggetto incapace) ad adire gli organi giurisdizionali al fine di ottenere l’autorizzazione alla interruzione del trattamento di alimentazione ed idratazione del rappresentato.

I principi generali del nostro ordinamento in tema di tutela delle persone incapaci, così come le norme di dettaglio affermano inequivocabilmente che il rappresentante debba agire solo ed esclusivamente nell’interesse del rappresentato: se il bene-vita è il valore che trova nel nostro ordinamento il massimo grado di tutela, non è dato comprendere a che titolo il rappresentante possa esser legittimato a richiedere un provvedimento autorizzatorio finalizzato al venir meno della vita umana.

Sul punto il ragionamento della Corte di Cassazione appare contraddittorio e lacunoso: contraddittorio perché la Suprema Corte prima afferma che l’attività del rappresentante “deve essere orientata alla tutela del diritto alla vita”, e successivamente precisa, che “in casi estremi si può giungere ad una interruzione delle cure”; lacunoso perchè si lascia un ampio margine discrezionale nella qualificazione del concetto di “caso estremo”.

Sul punto della legittimazione del terzo- legale rappresentante, la Corte di Cassazione ritiene che “in casi estremi” il miglior interesse per il rappresentato possa essere la autorizzazione alla interruzione del trattamento di alimentazione e idratazione, sempre che si tenga conto della volontà implicitamente o espressamente manifestata dal rappresentato stesso. Per arrivare a conoscere la volontà del rappresentato si devono prendere in considerazione “la personalità, lo stile di vita ed i convincimenti espressi dalla persona”.

Una simile impostazione da un lato mina le fondamenta del sistema di protezione delle persone incapaci, attribuendo tra l’altro margini non definiti nella individuazione dei “casi estremi”; d’altro canto si giunge a legittimare una artificiosa ricostruzione della volontà del rappresentato, senza tener conto del principio sancito dalla Costituzione Italiana della suprema dignità di ogni vita umana.

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*Avvocato del foro di Roma

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ZENIT Staff

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