Come comunicare la speranza

Intervista al professor Juan José García-Noblejas

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di Miriam Díez i Bosch

ROMA, venerdì, 19 dicembre 2008 (ZENIT.org).- L’accoglienza della seconda Enciclica di Benedetto XVI Spe salvi tra i filosofi ha suscitato “tristezza e gioia”, ma “sicuramente soprattutto quest’ultima”, afferma il professor Juan José García-Noblejas, docente di Teoria Generale della Comunicazione e di Sceneggiatura Audiovisiva presso la Pontificia Università della Santa Croce (PUSC) di Roma.

Il professore ha concesso questa intervista a ZENIT in Avvento, un momento adatto a riflettere sulla speranza con la seconda Enciclica papale.

García-Noblejas (blog su http://scriptor.org) è direttore del Seminario Interdisciplinare Permanente e del Congresso biennale di “Poetica e Cristianesimo” della PUSC.

Com’è stata accolta la Spe salvi in ambito filosofico?

García-Noblejas: La seconda Enciclica di Benedetto XVI, essendo “performativa”, non può aver lasciato indifferente alcun intellettuale che l’abbia letta. In parte immagino e in parte vedo che gli ambienti filosofici – detto in parole povere – sono come gli abitanti di Efeso: tutti, prima di incontrare Dio, avevano molti dei ed erano senza speranza. Alcuni hanno accolto con gioia l’annuncio come incontro personale e reale con Dio. Altri, immagino, hanno continuato ad essere tristi, immersi nei propri dei.

Essere allegri significa “posso ottenere ciò che devo conseguire”, mentre essere tristi vuol dire affondare in un “non posso” che viene giustificato in mille modi. E’ certo che da soli non possiamo far nulla, ma la speranza viene dal fatto di arrivare a conoscere il Dio vero, ed è – più che un’iniziativa nostra – una risposta al suo atteggiamento di venirci incontro.

E’ una questione personale, non solo intellettuale, che – tra le altre cose – ha a che vedere con il riconoscersi e sapersi figlio di Dio. Non so perché, ma leggendo l’Enciclica ho avuto in mente quasi per tutto il tempo la storia del figliol prodigo, con il padre che esce per andargli incontro, così come il ricordo del magnifico quadro di Rembrandt, con la mano paterna sulla spalla del figlio.

Tra i filosofi che hanno detto qualcosa sulla Spe salvi, c’è stata tristezza e gioia, sicuramente soprattutto quest’ultima.

Per essere breve, non vorrei parlare in concreto dei tristenzuoli che hanno preferito rimanere con i loro piccoli dei, e che – come dice bene il Papa – “rifiutano la fede semplicemente perché la vita eterna non sembra loro una cosa desiderabile” o perché preferiscono una controfigura del “paradiso perduto” in forma di “regno dell’uomo” attraverso la scienza e la tecnica.

Tra i molti che hanno ricevuto l’Enciclica con gioia, per parlare solo di un caso tra centinaia, citerò ciò che il filosofo Jaime Nubiola (dell’Università di Navarra) dice della professoressa Alejandra Carrasco (dell’Università Cattolica del Cile), affascinata da questo testo perché illustra graficamente la differenza tra la speranza comune e la vera speranza cristiana: “La sostanza della fede, il fatto di essere presente, rende il Vangelo performativo. Non sono io che aspetto la vita eterna, è Dio che sta aspettando me. Quando due persone si amano e si guardano, non si stancano di sostenere l’uno lo sguardo dell’altra, e questo scambio di sguardi cambia il senso della loro vita. Ho pensato a questa analogia: una donna vuole avere un figlio e aspetta di rimanere incinta e questa speranza la riempie. Ma questa non è la speranza cristiana. La speranza cristiana è piuttosto come quella della donna che è già incinta. Il figlio già è dentro di lei, è una realtà presente, che cambia necessariamente il suo modo di vivere. La prima può dimenticare la sua speranza per un giorno e ubriacarsi, e non succede niente. Anche la seconda può dimenticarla e ubriacarsi, ma danneggia suo figlio. Per questo non lo fa, o è molto difficile che lo faccia. Già incinta, aspettando un figlio, tutta la sua vita si trasforma”.

L’Enciclica è stata ricevuta molto bene, al di là delle critiche abituali di quanti sostengono erroneamente che la Chiesa si dedica ad anatemizzare la modernità, il progresso o la democrazia.

La speranza cristiana è individualista?

García-Noblejas: Si potrebbe dire molto della necessaria e imprescindibile dimensione “sociale” e non solo “individuale” che hanno tutte le persone, visto che fa parte della nostra stessa natura misteriosa. Si potrebbe anche dire che apparteniamo al “regno personale” in cui – a distanza ontologica infinita – si trovano le tre Persone divine. E la caratteristica delle persone è il relazionarsi.

Basta avvertire che lo stesso Benedetto XVI accetta la sfida di pensare a questa domanda: “… non siamo forse ricascati nuovamente nell’individualismo della salvezza?”. E risponde: “No. Il rapporto con Dio si stabilisce attraverso la comunione con Gesù – da soli e con le sole nostre possibilità non ci arriviamo. La relazione con Gesù, però, è una relazione con Colui che ha dato se stesso in riscatto per tutti noi (cfr 1 Tm 2,6). L’essere in comunione con Gesù Cristo ci coinvolge nel suo essere ‘per tutti’, ne fa il nostro modo di essere. Egli ci impegna per gli altri, ma solo nella comunione con Lui diventa possibile esserci veramente per gli altri, per l’insieme”.

E questo ha a che vedere con la sofferenza.

In che modo la sofferenza si lega alla speranza?

García-Noblejas: Per fare giustizia agli ambiti filosofici contemporanei, non resta altro rimedio che parlare del “volto sofferente dell’altro” del quale parla E. Levinas.

Come dice bene G. Zanotti (Acton Institute), il cristiano incontra Cristo, la sua salvezza, nello sguardo d’amore per l’altro. Questo è un punto che richiede attenzione, perché molti cristiani vivono in modo contrario alla propria fede quando non guardano all’altro con amore. E alcuni, di fronte alla sofferenza, credono sinceramente di amare il prossimo quando aderiscono a ideologie o utopie politiche in cui l’avvento di strutture temporali implicherà un Dio sulla terra. Di fronte a questo non ci deve stupire che Gandhi – senza comprendere il cristianesimo – abbia detto che il cristianesimo gli sembrava molto buono, ma il problema erano i cristiani. Non invano la prima Enciclica di Benedetto XVI si chiama Deus caritas est.

Ovviamente la sofferenza propria e altrui è una situazione di apprendimento della speranza. Benedetto XVI ce lo dice con chiaro acume: “certamente bisogna fare tutto il possibile per diminuire la sofferenza”, ma “non è lo scansare la sofferenza, la fuga davanti al dolore, che guarisce l’uomo, ma la capacità di accettare la tribolazione e in essa di maturare, di trovare senso mediante l’unione con Cristo, che ha sofferto con infinito amore”. Bisogna saper soffrire con gli altri e per gli altri, perché una società che non riesce ad accettare i sofferenti è “crudele e disumana”.

Come si può comunicare meglio la speranza cristiana, Dio stesso?

García-Noblejas: Non è un gioco di parole dire che, a livello di comunicazione interpersonale e pubblica, dobbiamo essere “performativi”, perché lo è la stessa comunicazione. Una “notizia”, ricorda il filosofo Robert A. Gahl parlando della Spe salvi, con le parole del romanziere Walker Percy, non è mera “informazione”, ma qualcosa che cambia il mondo per le persone, come accade quando a un naufrago arriva la notizia di essere stato ritrovato e che presto andranno a prenderlo.

Senza entrare in sfumature che non entrano in questo discorso, intendo che la comunicazione della spe
ranza e di Dio stesso ha a che vedere, in parte, con il saper dare ragione del male e delle nostre deficienze in un modo che non sia manicheo, ma mostrando ciò che San Josemaría Escrivá menzionava come compito particolarmente cristiano: la necessità di affogare il male in una sovrabbondanza di bene. Perché, come diceva, “nelle opere di apostolato è un bene – è un dovere – considerare i propri mezzi terreni (2 + 2 = 4), ma non bisogna mai dimenticare che fortunatamente bisogna contare su un altro addendo: Dio + 2 + 2…”.

Questo addendo è ciò di cui parla Benedetto XVI in tutta la Spe salvi.

[Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]

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ZENIT Staff

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