Il cuore di Paolo, fiamma sempre viva

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ROMA, lunedì, 22 settembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’articolo a cura di padre Johannes Paul Abrahamowicz, osb, Priore dell’Abbazia di S. Paolo fuori le Mura, apparso sul numero di settembre della rivista “Paulus”.

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La balaustra della Confessione, intorno alla tomba dell’Apostolo delle genti a San Paolo fuori le Mura, è incoronata da piccole lucerne. Sono elettriche purtroppo, eccetto una, che ancora conserva la fiamma viva. Lungo i secoli, i pellegrini hanno sempre rinnovato l’olio della lampada presso la tomba del Santo. Già dal secolo VII i Pontefici stabilirono una presenza monastica – le ancillae domini e poi i monaci benedettini – conosciuti per il loro voto di stabilità, per “curare le lampade”. Papa Gregorio II (715-731) estese il compito del monastero San Cesareo, attiguo alla basilica, a quello femminile di Santo Stefano, collocato davanti alla facciata della basilica, all’interno dell’atrio. Le monache benedettine di Santo Stefano avevano la cura delle lampade, per le quali papa Gregorio Magno (590-604) – in una lettera Praeceptum datata 25 gennaio 604 e indirizzata a Felice, il rector del patrimonio della via Appia – indicava di assegnare le entrate del territorio alle spese dei luminaria della basilica (cfr. card. Ildefonso Schuster, La Basilica e il Monastero di San Paolo fuori le Mura, p.13). Giorno per giorno, fino a oggi, un monaco si occupa della lucerna. Per l’Anno Paolino i fedeli possono contribuire, offrendo un piccolo lumino all’entrata della Basilica.

Dio mantiene la sua parola. Nel Tempio di Gerusalemme, e già nella tenda del convegno, chiamata anche “dimora” di Dio, si doveva «tener sempre accesa una lampada</i>» (Es 27,20), come per indicare che Dio non abbandonerà mai il suo popolo. L’olio si consuma e dev’essere continuamente rinnovato. Usiamo spesso il significato figurativo del “consumarsi”: consumarsi nel lavoro, di gelosia, d’amore… Gesù, consumandosi fino alla morte, ci ha dato il senso della vita. La lampada a olio, e anche la candela, ne sono l’immagine perfetta: mentre l’olio e la cera si consuma, la fiamma dà energia vitale. Certamente la bellezza di Dio è il suo amore e la giustizia che ne scaturisce. Ma ciò che rende davvero bello il suo amore e la sua giustizia è che non hanno fine. Dio mantiene ciò che promette, è fedele. Il suo amore continuo è come un perenne “consumarsi” per noi.

Oggigiorno la praticità degli oggetti che usiamo è un criterio di scelta prioritario. Tendiamo a usare, anche in chiesa, degli oggetti più pratici e meno impegnativi. Per ragioni di praticità preferiamo delle finte candele, poiché agevolano la manutenzione. Non dobbiamo per questo dimenticare che i simboli esprimono ciascuno un suo valore, ma, quando il loro esprimersi è soppresso, i simboli non ci parlano più: diventano simboli muti perché falsificati. Infatti, la bellezza di un simbolo viene meno nella stessa misura in cui ne viene diminuito o tolto quel particolare attraverso cui si esprime. Scrive Piero Marini, a questo proposito, che «l’intelligenza del segno non è, infatti, elemento estrinseco alla qualità del segno, ma ne è parte integrante», (Liturgia e bellezza. Nobilis Pulchritudo, Editrice Vaticana 2005, p. 65).

L’unico garante per la bellezza è la verità. Una cosa bella, ma non vera, è, nel migliore dei casi, poco utile e, nel peggiore dei casi, un inganno. Neanche l’abitudine ne mette rimedio. L’atteggiamento di abituarsi a oggetti apparentemente belli ma falsi rischia di diminuire in noi la sensibilità per il discernimento, e di trascinare la nostra sana gerarchia dei valori verso un disordine, che finisce col far prevalere la praticità non solo sulla bellezza, ma anche sulla carità e sulla giustizia. Giustamente, la praticità vuole farci risparmiare del lavoro inutile. Ma è davvero un lavoro inutile, quello di impegnarsi per i simboli della bellezza di Dio? Non è invece appropriato faticare accuratamente, quando si tratta di esprimere il significato simbolico del continuato “consumarsi” di Dio? Le vergini sagge (Mt 25,1-13) non potevano né volevano condividere la loro riserva d’olio, simbolo della loro perseveranza, poiché essa è un atteggiamento personale, intimo, un impegno, un valore spirituale, non una questione di meno fatica, di praticità o di calcolo. La cura della lampada alla tomba di san Paolo è in fondo una piccola, ma continua triplice celebrazione della bellezza di Dio. La sua fedeltà, testimoniata da san Paolo fino al martirio, è infine confermata instancabilmente fino ai nostri giorni dai fedeli e dai monaci. Tutto è fatto con accuratezza da chi riconosce in queste “fatiche” dei simboli della divina bellezza. Gli innumerevoli pellegrini provenienti da tutto il mondo vi possono vedere il riflesso del continuo “consumarsi” di Dio. Proprio come acclamiamo al vangelo nella festa della Trasfigurazione: «È un riflesso della luce perenne, uno specchio senza macchia dell’attività di Dio e un’immagine della sua bontà» (Sap 7,26).

Johannes Paul Abrahamowicz osb

Priore di San Paolo

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ZENIT Staff

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