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Venerati e cari Confratelli,
dopo la stagione estiva, e mentre nelle nostre diocesi ha già preso avvio il nuovo anno pastorale, ci ritroviamo per la consueta sessione autunnale del Consiglio Permanente della nostra Conferenza episcopale. A saldarci insieme sono i vincoli della fede in Cristo e dello stesso mandato apostolico, ma anche l’affezione al Popolo di Dio pellegrino nelle terre d’Italia.
Vari e importanti sono i temi che attendono la nostra riflessione e la nostra valutazione: invochiamo la grazia del Signore e la luce dello Spirito affinché sappiamo corrispondere alle attese che sono rivolte al nostro lavoro. Il discernimento cristiano, che invochiamo come dono per le nostre comunità, sia l’atteggiamento grazie al quale noi per primi vogliamo uniformarci ai disegni del Padre per la salvezza di coloro che ci sono affidati e del mondo intero.
1. Con la solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, il 28 giugno scorso, siamo entrati nel perimetro dell’Anno Paolino, che il Santo Padre, Benedetto XVI, ha felicemente indetto per la ricorrenza bimillenaria della nascita del «maestro delle genti». Nell’aderire alle ragioni profonde di questo anno speciale, desideriamo proporre a noi stessi e alle nostre Chiese la figura gigante dell’Apostolo e le sue lettere, «vero patrimonio dell’umanità redenta» (Benedetto XVI, Omelia alla Celebrazione dei Primi Vespri, 28 giugno 2007). Nel suo peregrinare per la causa del Vangelo egli, tra l’altro, toccò in vari punti le nostre regioni: Siracusa, Reggio Calabria, Pozzuoli e infine Roma, dove trovò il martirio; un motivo in più perché egli torni ad alzarsi in mezzo a noi (cfr. At 17,22; 27,21), e tutti possano di nuovo «ascoltarlo (e) per apprendere ora da lui, quale nostro maestro» (Benedetto XVI, Omelia alla Celebrazione dei Primi Vespri, Basilica di San Paolo fuori le Mura, 28 giugno 2008) che il Dio dei cristiani non è un Dio estraneo o lontano, ma vicinissimo a loro e alla loro cultura, è anzi la vera risposta alla loro sete e fame più profonde. A lui toccò «l’esperienza dell’essere amato da Gesù Cristo in modo tutto personale»: una scoperta imprevista, un coinvolgimento sconvolgente. «Perseguitando la Chiesa, Paolo perseguita lo stesso Gesù. “Tu perseguiti me” (cfr At 9,4s). Gesù si identifica con la Chiesa in un solo soggetto. In questa affermazione del Risorto, che trasformò la vita di Saulo, in fondo ormai è contenuta l’intera dottrina sulla Chiesa come Corpo di Cristo» (ib). Le generazioni che si sono succedute non hanno cessato di leggere il mistero della Chiesa sul paradigma stringente del corpo che ha molte membra e varie giunture, ma non cessa di essere uno con il Cristo stesso (cfr 1Cor 12,12s; Ef 4,15s). Il che però è assai più di una analogia. «Il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il Corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo» (1Cor 10,16s). Diranno i Padri che noi mangiamo quello che dobbiamo diventare, anzi quello che già siamo. E Benedetto XVI conclude: «Continuamente Cristo ci attrae dentro il suo Corpo, edifica il suo Corpo a partire dal centro eucaristico, che per Paolo è il centro dell’esistenza cristiana, in virtù del quale tutti, come anche ogni singolo può in modo tutto personale sperimentare: Egli mi ha amato e ha dato se stesso per me» (ib).
2. Nel processo di autocoscienza della Chiesa, decisivo si è rivelato il concetto di comunione, che a sua volta esprime la peculiare unione che fa di tutte le membra un medesimo corpo, il Corpo mistico di Cristo. Il Concilio Vaticano II ha trovato qui la chiave di lettura per una rinnovata ecclesiologia cattolica, che è stata via via rilanciata e precisata dal successivo magistero pontificio, oltre che nel Sinodo straordinario del 1985, e in alcune messe a punto della Congregazione per la Dottrina della Fede (cfr specialmente Lettera ai Vescovi della Chiesa cattolica su alcuni aspetti della Chiesa intesa come comunione, 28 maggio 1992). Diciamo questo perché nella inesausta contemplazione del mistero della Chiesa, quale è beneficamente sollecitata dall’Apostolo, si abbia sempre l’avvertenza di aderire alla coscienza più matura del mistero, senza attardarsi su presunte antinomie o approcci unilaterali (cfr Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera cit., 1). Come tale infatti, il mistero della Chiesa è certamente alla portata di tutti, ma senza semplificazioni, ad esempio, tra la comunione verticale e quella orizzontale, tra la comunione visibile e quella invisibile, tra la comunione eucaristica e quella gerarchica, tra la comunione che si esprime in ogni Chiesa locale e quella garantita nella Chiesa universale, grazie al ministero di Pietro che appartiene all’essenza interiore di ogni Chiesa particolare (cfr. Lettera cit., 3, 4, 7-9, 13).
Ciascuno di noi Vescovi gode della propria Chiesa particolare, e la considera il suo vanto e la sua gloria (cfr 2Cor 1,14; 1Tess 2,20), consapevole che la Chiesa universale è «ontologicamente e temporalmente previa ad ogni Chiesa particolare» (Lettera cit., 9). Dinanzi a talune istanze che puntano a contrapporre il vertice e la base, non c’è chi non veda come si tratti di false polarità, mentre in ogni ambito è richiesta una mutua inclusione, anzi una «mutua interiorità» (ib, 13). È accogliendo in sé, peraltro, questi princìpi dinamici che ogni fedele sa di appartenere non solo a una Chiesa locale ma immediatamente alla Chiesa universale, accedendo così alla consolante verità che «nella Chiesa nessuno è straniero» (Gal 3,28; cfr Lettera cit., 10).
3. Un momento forte, seppur doloroso, di questa esperienza comunionale nelle ultime settimane l’abbiamo vissuto in rapporto all’ondata di persecuzioni inflitte in India anzitutto ai fratelli del distretto di Kandhamal, nello stato dell’Orissa, e successivamente sviluppatesi in altri quattro stati. Infatti, «se un membro soffre, tutte le membra soffrono con lui» (1Cor 12,26). È noto come la scintilla da cui il 23 agosto è scaturita quest’ultima esplosione di violenza fosse l’addebito pretestuoso ai cristiani del luogo circa alcuni esecrabili fatti di sangue tuttora non chiariti, e che hanno avuto altre rivendicazioni (poi smentite). Ma questo è bastato per far partire una sanguinosa campagna di intimidazione che ha provocato decine di morti, per non parlare dei ferimenti e degli stupri, degli assalti alle chiese (compresa la cattedrale di Jabalpur), ai conventi, agli orfanatrofi e alle scuole, con la messa in fuga di decine di migliaia di persone che si sono salvate rifugiandosi nei centri di raccolta o nelle foreste. Tutto in realtà si è scatenato – ormai è chiaro – a motivo dell’opera di promozione che in quelle regioni i cristiani compiono a favore degli ultimi nella scala sociale, un’iniziativa ritenuta destabilizzante per un certo assetto sociale e di potere.
Uno scenario – verrebbe da dire − di altri tempi, affacciatosi in un Paese retto da una democrazia parlamentare e che coltiva grandi ambizioni sullo scacchiere internazionale. Viene da chiedersi come si possa impedire che dei connazionali siano soccorsi nella loro indigenza solo per la paura che si sviluppi una simpatia erroneamente scambiata con la maschera del proselitismo. Eppure, per settimane gli atti di violenza si sono susseguiti nel dispregio delle leggi, nell’impunità dei colpevoli, nella disinformazione della stampa nazionale, nell’imbarazzo dei politici locali e nel quasi silenzio della comunità internazionale. Qualcosa appena ora comincia a muoversi, ma con evidente sproporzione rispetto ai gravissimi fatti. Solo la voce del Papa, già a partire da mercoledì 27 agosto, è echeggiata puntuale e nitida, e ad essa la Presidenza della Cei ha ritenuto di do
versi unire indicendo per venerdì 5 settembre, memoria liturgica della beata Maria Teresa di Calcutta, una giornata di preghiera e di penitenza, in solidarietà con un’analoga iniziativa voluta dai confratelli Vescovi dell’India.
4. Negli stessi giorni delle violenze in India, e mentre intolleranze ed emarginazioni ai danni dei cristiani venivano denunciate nel vicino Pakistan, è tornato alla ribalta il calvario cui da troppo tempo ormai è sottoposto il cristianesimo dell’Iraq, dove altri due caldei sono stati assassinati, ultimi anelli di una catena di sangue in corso da oltre quattro anni e che aveva visto nel marzo scorso la morte dello stesso Arcivescovo di Mosul, nel quadro di una vera e propria “pulizia religiosa” che sta portando alla decimazione di una comunità che cinque anni fa contava un milione di fedeli, ed è oggi ridotta a circa la metà, dopo la fuga nei Paesi vicini.
Ecco perché ci piacerebbe che dalla classe politica come da parte degli intellettuali e dell’opinione pubblica, venisse rivolta una nuova, vigorosa attenzione al tema della libertà religiosa quale caposaldo della civiltà dei diritti dell’uomo e come garanzia di autentico pluralismo e vera democrazia. Forse che, alla luce anche degli eventi più recenti, non ha ragione Alexis de Tocqueville ad asserire «che il dispotismo non ha bisogno della religione, la libertà e la democrazia sì» (in La democrazia in America, I,9)? La libertà religiosa infatti non è un optional più o meno gentile che gli Stati concedono ai cittadini più insistenti, né una concessione paternalisticamente riconducibile al principio della tolleranza. È piuttosto il caposaldo delle libertà ed il criterio ultimo di salvaguardia delle stesse, in quanto iscritto nello statuto trascendente della persona e nella indisponibilità di questa rispetto a qualsiasi regime e a qualsiasi dottrina. Vorremmo con ciò unirci all’accorato appello recentemente lanciato dall’Arcivescovo Mamberti quando, evidenziando il fenomeno della «cosiddetta cristianofobia», ha inteso in «spirito costruttivo» rilevare come vi siano rischi che prendono piede vicino a noi, ossia nella nostra stessa Europa, citando «il distacco della religione dalla ragione, che relega la prima esclusivamente nel mondo dei sentimenti, e la separazione della religione dalla vita pubblica» (Protezione e diritto di libertà religiosa, Intervento al Meeting di Rimini, 29 agosto 2008). Vi è infatti una derivazione concettuale tra la disinvolta pratica del relativismo, gli eccessi antireligiosi e anticristiani e la regressione culturale ed etica delle società. E non si vede, a questo punto, chi avrebbe interesse a nascondersi tale nesso: non certo coloro che, abbandonando saccenteria ed arroganza, vogliono superare la situazione di stallo in cui si trova la costruzione europea e intendono effettivamente radicare l’Europa nella coscienza dei popoli, così che − fiorendo − dia legittimità morale a carte e trattati, e procuri un orizzonte di senso ad una legislazione comunitaria che non si contrapponga artificiosamente alle tradizioni e alle culture delle nazioni, ma sia con queste in un rapporto di intelligente sussidiarietà. Osservava, nel suo recente viaggio in Francia, Benedetto XVI: «Quando il cittadino europeo vedrà e sperimenterà personalmente che i diritti inalienabili della persona umana, dal concepimento fino alla morte naturale, come anche quelli relativi all’educazione libera, alla vita familiare, al lavoro, senza dimenticare naturalmente i diritti religiosi, quando dunque il cittadino europeo si renderà conto che questi diritti, che costituiscono un tutto indissolubile, sono promossi e rispettati, allora comprenderà pienamente la grandezza dell’edificio dell’Unione e ne diverrà un attivo artefice» (Discorso all’Eliseo, 12 settembre 2008).
5. Le Giornate mondiali della Gioventù si sono rivelate nell’arco degli ultimi vent’anni un’indubbia risorsa di quella missionarietà che è dinamismo intrinseco di ogni vera ecclesiologia. Scaturite dall’animo contemplativo di Giovanni Paolo II, esse hanno aiutato non poco le comunità ecclesiali e le aggregazioni laicali a vivere questa delicata stagione senza assurde competizioni o malinconici ripiegamenti. Alla prova dei fatti, le Gmg sono risultate strumenti straordinari di una evangelizzazione che in partenza era ritenuta così ardua da non essere per taluni neppure tentata. Che esse poi si siano rivelate il segno dell’«alleanza tra Cristo e le nuove generazioni» − come ha affermato Benedetto XVI (Saluti all’Angelus, Castel Gandolfo, 6 luglio 2008) − ci appare come una singolare correzione che la storia a volte riesce ad apportare a se stessa. Dalla «morte di Dio» al Dio che è radice della nostra gioia e fonte della nostra giovinezza: ecco un’indubbia parabola religiosa vissuta dall’Occidente nonostante difficoltà e contraddizioni, rispetto alla quale tuttavia va bandita qualsiasi tentazione trionfalistica.
La più recente edizione di queste Giornate, che ha avuto luogo a Sydney nello scorso mese di luglio, aveva in sé tutti gli elementi di sfida tipici di questo genere di iniziative. Eppure è splendidamente riuscita, come molti di noi Vescovi possono testimoniare, avendo accompagnato e osservato da vicino i nostri giovani mentre interagivano con il «loro» Papa, e insieme con lui interrogavano la grande città super-moderna, simbolo di una forte secolarizzazione. E la città mondiale, microcosmo in cui si parlano duecento lingue, ha reagito dapprima con circospezione e infine arrendendosi allo spettacolo di giovani che “stranamente” non creavano problemi, e con allegria contagiosa conquistavano la scena, mostrando in pubblico il mai visto. Preso in contropiede, lo scetticismo degli ambienti intellettuali è stato spazzato via tra entusiasmo e stupore. E da un certo punto in poi, la città-metropoli si è finalmente concessa ai giovani ospiti, estasiata e meditabonda. S’è trattato di una «settimana davvero memorabile», a giudizio del Papa (Saluto ai Volontari, Domain, 21 luglio 2008), e più precisamente di «un evento ecclesiale di carattere globale, una grande celebrazione della gioventù, una grande celebrazione di ciò che significa essere Chiesa, Popolo di Dio in mezzo al mondo, unito nella fede e nell’amore e reso capace dallo Spirito di recare testimonianza del Cristo risorto sino ai confini della terra» (Discorso di congedo all’Aeroporto di Sydney, 21 luglio 2008).
6. Il messaggio finale che Benedetto XVI ha affidato ai giovani è quello di «vedere i limiti di tutto ciò che perisce, la follia di una mentalità consumista» (Discorso alla Veglia, Sydney, 19 luglio 2008), e dunque di superare tante mitologie che, come «cisterne screpolate e vuote» (Omelia per la XXIII Giornata mondiale della Gioventù, Sydney, 20 luglio 2008) li lascerebbero inghiottire dall’ideologia relativista. Ma a questo approdo sono stati sollecitati attraverso la presa di coscienza della centralità dello Spirito Santo, che «è stato in vari modi la Persona dimenticata della Santissima Trinità» (Discorso alla Veglia, cit.). Diciamo che i lunghi mesi di preparazione, come le catechesi svolte dai Vescovi nei giorni iniziali di Sydney, a questo puntavano, dissodando il terreno per quell’«avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi” (At 1,8), che Benedetto XVI ha poi sviluppato da impareggiabile catecheta, facendo sì che queste parole fossero avvertite come «indirizzate ad ognuno». E così, come lui aveva anticipato parlando con i giornalisti a bordo nel suo stesso aereo, ha passato in rassegna «questa realtà dello Spirito Santo, che appare in diverse dimensioni»: operante nella Creazione, ispiratore della Scrittura, potenza indivisibile da Gesù, sostanza della Chiesa, e infine spinta nei fedeli «a portare compimento l’opera di Cristo (…) oltre le visioni parziali, la vuota utopia, la precarietà fugace» (Discorso al
la Veglia, cit.). Rimarchevole è stata in quel raduno l’esperienza del silenzio, indispensabile affinché il raccoglimento entrasse nelle fibre e lasciasse traccia nelle coscienze. «L’amore di Dio può effondere la sua forza solo quando gli permettiamo di cambiarci dal di dentro – diceva il Papa nell’omelia della Messa conclusiva. − Noi dobbiamo permettergli di penetrare nella dura crosta della nostra indifferenza (…). Solo allora possiamo permettergli di accendere la nostra immaginazione e plasmare i nostri desideri più profondi. Ecco perché la preghiera è così importante (…). Essa è pura ricettività della grazia di Dio, amore in azione, comunione con lo Spirito Santo» (Omelia, cit.).
Il punto terminale della Gmg di Sydney ha coinciso con il punto di partenza per una nuova stagione di impegno, nella quale i giovani del mondo devono «trovare le parole adatte per annunciare Dio» anzitutto ai loro coetanei, e dunque «nei luoghi di studio, di lavoro o di divertimento» (Discorso alla Veglia di preghiera, Parigi, 12 settembre 2008). Ai giovani italiani presenti in Australia, come ai tanti coetanei che − attraverso l’intraprendenza dei nostri media − hanno seguito l’evento dall’Italia, tocca ora vivere l’eredità preziosa della Giornata mondiale della Gioventù, ossia «rimanere nel raggio del soffio dello Spirito Santo», come efficacemente ha spiegato il Papa stesso a un seminarista che lo interpellava durante l’incontro con il clero di Bolzano-Bressanone, il 6 agosto scorso. Ai loro animatori, come ai responsabili della Pastorale giovanile – cui va la nostra gratitudine per il lavoro svolto in occasione della Gmg – spetta il compito di non lasciar disperdere un vissuto straordinario, che deve diventare invece crogiuolo di crescita, anzi possesso perenne. Una «giornata non mondiale, ma sarda, della gioventù» si è nel frattempo svolta a Cagliari, con la desiderata presenza del Santo Padre, che ha aggiornato e specificato gli obiettivi di Sydney per le nuove generazioni dell’Isola (cfr Discorso ai giovani, Cagliari 7 settembre 2008). Così come ha prospettato a tutti i fedeli, riuniti nello «spettacolo più bello che un popolo può offrire, quello della propria fede» (Omelia sul sagrato del Santuario di N.S. di Bonaria, 7 settembre 2008), le mete di vita cristiana che sono conseguenti all’antica fedeltà al Vangelo che quell’amato popolo ha espresso dal tempo dei martiri fino ad oggi.
7. Ma c’è un’altra esperienza ricorrente nel ministero di noi Vescovi che merita di essere richiamata per il carattere emblematico che essa va assumendo, quella dei pellegrinaggi a Lourdes. Citiamo Lourdes per la coincidenza con il 150° anniversario delle apparizioni, che il Santo Padre stesso ha voluto onorare; ma nel nome della cittadina dei Pirenei vorremmo in qualche modo evocare tutte le altre località, non solo mariane, fatte meta di itinerari posti esplicitamente sotto il segno della fede e della rinascita spirituale. Sì, perché la dimensione del pellegrinaggio popolare, lungi dal rivelarsi obsoleta, sta in realtà conoscendo una stagione di sorprendente rilancio. Esito non di un marketing esasperato, ma di una richiesta pressoché spontanea, che le parrocchie e le diocesi intercettano, affidandosi poi in genere a enti e agenzie che adempiono il loro compito – va detto – con professionalità e abnegazione, rispettando il carattere squisitamente spirituale che soggiace a tale domanda. Questa è espressione non di un monolitismo religioso attribuito ad altri tempi, ma è rappresentativa del frastagliamento tipico che l’atteggiamento verso il sacro ha assunto in questa stagione. Anzi, se una accentuazione c’è, è proprio nel senso che in queste iniziative, in mezzo a tanti fedeli «normali» di ogni età e condizione, è possibile incontrare persone in ricerca, tormentate, sofferenti, scettiche, ferite dalla vita, insomma un’umanità varia quale solo la Chiesa riesce a richiamare. Ogni volta si presenta agli occhi di chi guarda senza pregiudizi uno “spettacolo” che non si spiega, se non con il fatto che a Lourdes si trova qualcosa per cui vale la pena di andare, e di tornare. Qualcosa che non necessariamente è il miracolo sperato o già ottenuto, ma piuttosto la forza di andare avanti, un senso per cui valga la pena vivere. «Rimettersi completamente a Dio è trovare il cammino della libertà vera. Perché volgendosi a Dio, l’uomo diventa se stesso. Ritrova la sua vocazione originaria di persona creata a sua immagine e somiglianza» (Benedetto XVI, Omelia alla Celebrazione Eucaristica, Lourdes, 14 settembre 2008). Sono uomini e donne che vengono a domandare la speranza, quella che non si trova dietro l’angolo, nelle nostre città, e spesso neppure nelle nostre case. Lourdes è come la mano tesa di un mendicante, anzi migliaia, milioni di mani tese, spalancate. E il vero miracolo è che qualcosa infine stringono, queste mani. Come il rosario in pugno. E questo miracolo appare allora sulle facce che riemergono dall’acqua miracolosa o la sera escono dalla basilica. Volti di gente pacificata in quel «luogo di luce», in quella «straordinaria prossimità tra il cielo e la terra» (Omelia alla Processione aux Flambeaux, Lourdes, 13 settembre 2008).
Se osiamo dirci esperti, lo siamo di questa umanità che, incontrandoci, ci rivolge un saluto, avanza un dubbio, talora un’imprecazione, alla ricerca di una mano a cui aggrapparsi, e infine si ferma e apre l’animo alla confidenza, a Dio, sostanza di ciò che si spera. Non però uno sbracciarsi verso mete lontane, ma già oggi il principio tangibile della promessa, che cambia la vita, e dà alle giornate un altro respiro. E quelle che sembravano tante monadi solitarie diventano un popolo vero, che chiede il rispetto della propria dignità agli occhi del mondo. Come lo chiede anche dinanzi a tesi impavidamente sostenute secondo cui, ad esempio, una certa riscoperta della dimensione religiosa starebbe, nelle nostre contrade, avvenendo attraverso non il «fatto» cristiano ma la mera declamazione socio-politica. Evidentemente talora si parla di cose che non si conoscono, e per finalità probabilmente tutte interne alla polemica politica e culturale.
8. Questo lo diciamo perché sappiamo bene che resta aperto il problema di un certo sguardo laico sulla Chiesa, e di che cosa questo sguardo più ispido, tra altri sguardi, riesce a vedere in noi e nella comunità cristiana. Non ci sfuggono taluni discorsi. Se subito non reagiamo non è perché certe parzialità o l’ostinazione di taluni giudizi ci lascino indifferenti. Ovviamente ci interroga la dichiarata delusione di chi, dopo aver esercitato un’abile selezione tra le nostre parole e i nostri impegni, conclude che siamo inadempienti. Se normalmente non rispondiamo punto per punto, non è perché vogliamo mancare di attenzione all’interlocutore, ma piuttosto perché pensiamo che vi siano delle pre-comprensioni così ossificate che solo il tempo e, quanto a noi, gli spazi per un’ulteriore coerente testimonianza potranno allentare. Per ciascun uomo è in fondo consolante sapere, o almeno un giorno scoprire «che Dio non è suo nemico, ma il Creatore, pieno di bontà» (Benedetto XVI, Discorso alla Conferenza Episcopale francese, cit.)
È invece sullo sguardo eccessivamente altalenante e, in ultima istanza, fin troppo pessimista che una certa Italia dedica al Paese intero che ci pare di dover dire una parola semplice e pacata. Ebbi già occasione di esprimere riserve su una singolare «pedagogia della catastrofe» (cfr Prolusione Assemblea Cei, Maggio 2008) che di tanto in tanto riaffiora da alcune analisi che imperversano sulla pubblicistica dell’ultima stagione. È una lettura dove non difettano gli elementi di sincerità, inseriti tuttavia in una trama troppo cedevole ad inflessioni che ci paiono senza respiro. Più che un Paese da incubo, il nostro è un Paese che ciclicamente conosce gli spasmi di un travaglio incompiuto,
dove però i segmenti luminosi non mancano, e i punti di forza neppure. Non manca soprattutto lo sforzo diuturno di milioni di cittadini che, ogni giorno donato dalla Provvidenza, adempiono con dedizione e spirito di sacrificio il proprio dovere. Un Paese non si spezza all’improvviso, come non si costruisce dalla sera al mattino. Ci sono processi più lunghi, che infatti hanno bisogno di analisi puntuali e non sommarie, e di un piglio che nell’individuare i punti di debolezza li persegua con metodo, senza tuttavia abbandonare mai un’ottica d’insieme − comprensiva delle diverse sfumature − che ne stabilizzi le terapie. Tutti, credo, avvertiamo il bisogno di uscire dalle convulsioni di un certo ritardo sulla via della modernizzazione, ma lo si può fare se le libere intelligenze guardano costantemente al merito delle questioni, con autonomia e indipendenza. La stessa autonomia e la stessa indipendenza che noi Vescovi chiediamo in primo luogo a tutti gli analisti cattolici, perché il loro parlare sia sempre vero e, insieme, interprete di un realismo proporzionato ai fatti, e mai senza speranza.
9. Che poi ciascuna componente la nostra comunità nazionale si impegni a fare per intero il proprio dovere, guardando più ai propri obblighi che alle debolezze altrui, di questo oggi c’è veramente bisogno, se si vuole che il nostro amato Paese porti a compimento i processi di cambiamento in corso.
L’esperienza, che ci viene dai contatti quotidiani, ci dice che la gente avverte sulla scena politica una certa voglia di fare, ad esempio per colmare gli scarti infrastrutturali e per risolvere alcune delle grandi emergenze aperte, ma per ora non si attenua quella percezione di impoverimento di cui s’è detto in precedenti occasioni. Nessuno evidentemente può ignorare le condizioni poste da una sempre più complessa crisi internazionale e dai suoi caratteri per lo più inediti, dovuti a una globalizzazione sostanzialmente poco governata. È indispensabile tuttavia che mentre positivamente ci si applica alla soluzione di alcuni importanti nodi, contemporaneamente ci si concentri sulle fasce più deboli, e sulle famiglie monoreddito che stanno reagendo come possono all’ondata di aumenti dei prezzi che nel frattempo non cessano di lievitare. Certo, ogni provvedimento di soccorso è utile, ma necessitano misure organiche che diano un minimo di serenità, consentendo ai nuclei famigliari di pianificare le loro prospettive di vita. Nel frattempo occorre tendere ad una maggiore equità sociale, sia verticale (tra redditi diversi) sia orizzontale (le famiglie dello stesso reddito ma con più figli devono pagare di meno). Resta intatta l’impressione che, se si disponesse di un sistema fiscale basato sul quoziente familiare, potrebbe determinarsi un circolo assai più virtuoso tra le famiglie e la società nel suo insieme, soprattutto tra l’oggi e il domani che è comune.
Si sta procedendo, pare con maggiore serenità, verso un sistema più federalista, che faccia perno su processi decisionali più autonomi e responsabilizzanti. A nessuno sfugge la rilevanza anche culturale di questo passaggio che richiede una elevata capacità di previsione circa il congegnarsi efficace di meccanismi anche delicati. Non ci sono tuttavia toccasana prodigiosi: se si vuole che il nuovo assetto si riveli effettivamente un passo avanti, è necessario che ciascun ente si interroghi su come fare un passo indietro rispetto a metodi di spesa che saranno presto insostenibili. Così come è necessario che rimanga forte e appassionato il senso della solidarietà e della comune appartenenza ad un solo popolo e alla sua storia, preoccupandosi e operando perché nessuna parte, rispetto alle altre, rimanga per strada.
Scenari più sereni sembrano profilarsi pure sul fronte della giustizia, e noi non possiamo non incoraggiare un clima reciprocamente più comprensivo, che abbia come obiettivo la domanda, proveniente anzitutto dai cittadini, di una giustizia più tempestiva e funzionante. Sul fronte della scuola poi si stanno mettendo in campo innovazioni e recuperi volti a dare una maggiore credibilità ed efficacia all’istituzione e ai suoi operatori. Una parola di sincera e cordiale stima va a tutto il personale scolastico, a cominciare dai docenti per l’importanza e la nobiltà del ruolo che ricoprono a livello culturale, educativo e sociale. Ma anche qui pensiamo che la vera chiave di volta non potrà non venire dal riconoscimento del ruolo primario della famiglia, messa in condizione di scegliere all’interno di un sistema effettivamente paritario e integrato, in cui ad emergere siano le diverse opportunità in vista di abilità giovanili obiettivamente più apprezzabili.
Più in generale, a proposito della famiglia, noi siamo profondamente persuasi con il Papa che, nonostante le «burrasche» che sono oggi da affrontare, essa è la «cellula primordiale (…), lo zoccolo solido sul quale poggia l’intera società» (Benedetto XVI, Discorso alla Conferenza Episcopale francese, Lourdes, 14 settembre 2008). Per questo sarà bene non dare per scontata la preparazione indispensabile per «difendere l’unità del nucleo familiare a costo anche di grandi sacrifici (…) perché l’amore vero non si improvvisa», specie in una stagione in cui «viene usato il termine famiglia per unioni che, in realtà, famiglia non sono» (Benedetto XVI, Discorso ai giovani, Cagliari, 7 settembre 2008). È sullo sfondo peraltro di queste sfide, ossia della capacità «di evangelizzare il mondo del lavoro, dell’economia, della politica» che il Papa ha sollecitato il sorgere «di una nuova generazione di laici cristiani impegnati, capaci di cercare con competenza e rigore morale soluzioni di sviluppo sostenibile» (Omelia, cit., Cagliari, 7 settembre 2008), e che siano per ciò stesso ragione di vita e di speranza per l’intera società.
10. Il fenomeno dell’immigrazione resta uno degli ambiti più critici della nostra vita nazionale. Se fino a ieri eravamo giunti ad una presenza tutto considerato significativa di immigrati sul nostro territorio, senza spaccature sociali o situazioni drammaticamente fuori controllo, è perché alla prova dei fatti il temperamento del nostro popolo si lascia filtrare da una secolare cultura dell’accoglienza e di rispetto per il fratello − per quanto diverso − in difficoltà. Su questo fronte tuttavia nell’ultimo periodo stanno emergendo qua e là dei segnali di contrapposizione anche violenta che sarà bene da parte della collettività ai vari livelli non sottovalutare. Vogliamo credere che non si tratti già di una regressione culturale in atto, ma motivi di preoccupazione ce ne sono, e talora anche allarmi, che occorre saper elaborare in vista di risposte sempre civili, per le quali il pubblico dibattito deve lasciar spazio alla ricerca di rimedi sempre compatibili con la nostra civiltà. Incessante peraltro è l’arrivo di nuovi irregolari, sempre nostri fratelli, che a prezzo della vita si accostano alle rive italiane, interrogando la nostra coscienza e inevitabilmente sfidando ogni volta le nostre potenzialità d’accoglienza. Su questo argomento, Benedetto XVI è ripetutamente intervenuto nelle scorse settimane con parole ferme e accorate (cfr Saluto dopo l’Angelus, Bressanone, 17 agosto 2008 e Castel Gandolfo, 31 agosto 2008), e con grande capacità di inquadrare il problema migratorio, con i suoi contorni epocali, all’interno di una visione umanistica irrinunciabile e in un contesto nel quale ciascuna delle parti interessate ha responsabilità e doveri. Su questo fronte sarà bene procedere – anche in un contesto europeo – cercando con impegno accordi di cooperazione con i Paesi di provenienza e volendo progressivamente guadagnare alla legalità situazioni irregolari compatibili con il nostro ordinamento, accettando di dare – appena vi siano le condizioni – risposte positive sia alle esigenze di una progressiva ed equilibrata integrazione sociale, sia alle domande di ricongiunzione fa
miliare presentate nella trasparenza e per il benessere superiore delle persone coinvolte, oltre che della società tutta.
Come Pastori, non possiamo tacere una forte preoccupazione di fronte ai frequenti episodi di violenza e di spregio della vita umana, che vedono spesso protagonisti dei giovani, perfino minorenni. Se da una parte misure e sanzioni adeguate sono necessarie in nome della giustizia e della sicurezza generale, dall’altra a nessuno sfugge che le radici di questa situazione, come la capacità di risposta, si pongono in modo più profondo e articolato. La violenza, infatti, nasce in ultimo dal vuoto dell’anima, dalla povertà di valori oggettivi e universali; vuoto che stravolge fino a sostituire ciò che è buono con ciò che non lo è, il giusto con l’ingiusto, il vero con il falso. Il singolo si sente consegnato solamente a se stesso, condannato ad un solipsismo che spesso si vorrebbe canonizzare come liberatorio sul piano etico, salvo pretendere poi di curarlo sul piano psicologico ed emotivo. Il tutto assume i connotati di una grave carenza rispetto al dovere educativo che, se da una parte si presenta oggi con i tratti di un’autentica e prioritaria urgenza, dall’altra costituisce la principale risorsa di un Paese che vuol guardare concretamente al futuro.
11. Questi mesi estivi sono stati segnati dalla vicenda di Eluana Englaro, la giovane lecchese che, per un incidente stradale occorsole sedici anni fa, vive in stato vegetativo conseguente a un coma da trauma cranico. La partecipazione commossa alla sorte di questa giovane, la condivisione e il rispetto per la situazione di sofferenza nella quale versa la famiglia, sono i nostri primi sentimenti. È una condizione, quella di Eluana, che peraltro interessa circa altri due mila nostri concittadini sparsi per il territorio nazionale. Per loro e le loro famiglie, come pure per altri malati gravemente invalidati, è necessario un efficace supporto da parte delle istituzioni. Non è questa la sede per richiamare l’iter abbastanza complesso che, rendendo questo caso emblematico, ha nel contempo evidenziato la nuova situazione venutasi a determinare in seguito a pronunciamenti giurisprudenziali che avevano inopinatamente aperto la strada all’interruzione legalizzata del nutrimento vitale, condannando in pratica queste persone a morte certa. Si è imposta così una riflessione nuova da parte del Parlamento nazionale, sollecitato a varare, si spera col concorso più ampio, una legge sul fine vita che – questa l’attesa − riconoscendo valore legale a dichiarazioni inequivocabili, rese in forma certa ed esplicita, dia nello stesso tempo tutte le garanzie sulla presa in carico dell’ammalato, e sul rapporto fiduciario tra lo stesso e il medico, cui è riconosciuto il compito – fuori da gabbie burocratiche − di vagliare i singoli atti concreti e decidere in scienza e coscienza. Dichiarazioni che, in tale logica, non avranno la necessità di specificare alcunché sul piano dell’alimentazione e dell’idratazione, universalmente riconosciuti ormai come trattamenti di sostegno vitale, qualitativamente diversi dalle terapie sanitarie. Una salvaguardia indispensabile, questa, se non si vuole aprire il varco a esiti agghiaccianti anche per altri gruppi di malati non in grado di esprimere deliberatamente ciò che vogliono per se stessi.
Quel che in ultima istanza chiede ogni coscienza illuminata, pronta a riflettere al di fuori di logiche traumatizzanti indotte da casi singoli per volgersi al bene concreto generale, è che in questo delicato passaggio – mentre si evitano inutili forme di accanimento terapeutico − non vengano in alcun modo legittimate o favorite forme mascherate di eutanasia, in particolare di abbandono terapeutico, e sia invece esaltato ancora una volta quel favor vitae che a partire dalla Costituzione contraddistingue l’ordinamento italiano.
La vita umana è sempre, in ogni caso, un bene inviolabile e indisponibile, che poggia sulla irriducibile dignità di ogni persona (cfr Benedetto XV, Discorso di saluto e accoglienza ai giovani, Sydney, 17 luglio 2008), dignità che non viene meno, quali che siano le contingenze o le menomazioni o le infermità che possono colpire nel corso di un’esistenza. Alla luce di questa consapevolezza iscritta nel cuore stesso dell’uomo, e che non è scalfibile da evoluzioni scientifiche o tecnologiche o giuridiche, noi guardiamo con fiducia alle sfide che il Paese ha dinanzi a sé, sicuri che il nostro popolo − con l’aiuto del Signore − saprà trovare le strade meglio corrispondenti alla sua voglia di futuro e alla sua concreta vocazione.
Di tutto questo, come degli argomenti indicati all’ordine del giorno, discuteremo ora con franchezza e responsabilità, mentre ci affidiamo per il lavoro che ci attende alla Vergine Maria e ai nostri Santi patroni.
Angelo Card. Bagnasco
Presidente